Tuttavia non sarebbe giusto evitare il problema. Insomma: dietro al dubbio sull’opportunità o meno di riproporre lo schema del centro-sinistra in questo frangente, sia pure a livello locale, si celano questioni di più ampio respiro. Già una riflessione critica sul ruolo svolto, a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, dal centro-sinistra reale quale via alla ridefinizione neo-liberista dell’apparato produttivo del Paese, allo smantellamento dello spazio democratico nazionale e ad una perdita di autonomia dell’Italia sullo scacchiere internazionale ancor più accentuata che nel quarantennio della guerra fredda, si imporrebbe. Ma è ormai di senso comune che, sotto l’attuale gruppo dirigente, la forza egemone di quel che resta dell’antico schieramento abbia subito un’ulteriore torsione in senso opposto rispetto alle ragioni della sinistra. Il Pd renziano è infatti da più parti segnalato come l’avversario da battere, se non addirittura come la forza in opposizione alla quale è necessario strutturare il nuovo soggetto, in rispondenza all’opposizione sociale che il governo che ne è l’espressione suscita nel Paese. Se, come sembra, attorno a questa lettura vi è un largo consenso a sinistra, rischia di risultare scarsamente comprensibile una tattica che separi un Pd nazionale, dal destino e dalla vocazione al mal segnato, da un Pd al contempo capace di riscatto sui mitici “territori”. Certo, in molto luoghi i democratici si presentano come gli eredi della buona amministrazione ex “rossa”; e certo, sul piano programmatico, via via che il livello amministrativo scende, è sempre più facile trovare delle intese. Ma un atteggiamento meramente localistico rischia di forgiare uno specchio deformato della realtà di insieme. Ed il municipalismo, versione virtuosa del localismo nella tradizione della sinistra italiana, ha sempre scontato forti limiti, e patito severe sconfitte, quando non è stato inserito in un disegno organico e complessivo di alternativa. Anzi, in assenza di questo si può prestare a palestra privilegiata dell’esercizio trasformistico.
Bisogna quindi riconoscere che proprio dal livello locale l’attuale assetto di potere dominante trae gran parte della propria legittimità e della propria capacità di cooptazione di spezzoni non solo di classe dirigente potenzialmente avversa, ma di interi settori della società. Non che il partito egemone non si faccia interprete di esigenze reali: i fatti dimostrano il contrario, e non vanno ignorati. Ma esso è, in realtà, tutt’altro che un partito, inteso come portatore di una visione globale e come momento di sintesi di spinte sociali. Cementato al vertice dal presunto carisma del leader, e da una tendenza strutturale all’attendamento trasformistico attorno al tiepido falò del potere dispensatore di privilegi, alla base il Pd si nutre di una vasta ramificazione di meccanismi verticali di gestione del potere e di formazione di classi dirigenti basati sulla fidelizzazione clientelare. Più che un partito, una federazione di cacicchi locali, ognuno interessato a costruirsi un elettorato di riferimento per poi, da posizione di forza, meglio mercanteggiare col potere centrale e scalare i ranghi del partito - fino a poter ambire, nello sconclusionato assetto istituzionale che si va disegnando, addirittura al laticlavio.
Le assemblee elettive locali patiscono una manovra a tenaglia che dal basso, con l’elezione diretta dei sindaci, le svuota di potere legislativo e rappresentativo, e dall’alto le svilisce con la necessità di rispondere al patto di stabilità interno, via locale all’austerità. Le amministrazioni locali si fanno così mediatrici di esigenze contrapposte: garanti in piccolo dell’ordoliberismo, al contempo raggranellano consensi selettivi rispondenti a logiche di patronage. Le classi dirigenti periferiche sono a piene mani selezionate tra un ceto medio ipertrofico e necessitante, per la propria auto-preservazione, di un modo di produzione tutto interno alla politica: riproduzioni in sedicesimo degli azzeccagarbugli di regime che popolano i palazzi più alti. Ed anche l’opposizione finisce spesso per schiarissi lungo questo asse, canalizzando più il malcontento per l’esclusione da questo gioco che il conflitto sociale che scorre a valle, inascoltato e privo di traduzione.
Le ultime elezioni regionali hanno costituito, da questo punto di vista, un ampio campionario di spunti convergenti. La necessità di rispondere alle domande sorte dal basso e di cementarle in un “blocco storico” a cui dare risposte in termini di amministrazione e dunque di consenso, pratica virtuosa perseguita dalle sinistre in epoca repubblicana ed ancor prima, è stata così ribaltata nella fluidità di una pratica amministrativa porosa e frantumata, attraverso la quale hanno potuto scorrazzare indisturbate forze sociali retrive e parassitarie, che risalendo per li rami hanno dato la scalata al potere centrale, condizionandolo ben oltre l’abituale in una democrazia che si vuole rappresentativa.
Se si riconosce questo quadro come strutturale, ha poco senso una tattica tesa a valorizzare le pur reali differenze tra una realtà e un’altra, una giunta ed un’altra. I tempi impongono la messa in atto di una alternativa veramente complessiva.
Se la storia politica italiana dell’ultimo trentennio è storia della progressiva espulsione delle classi subalterne non solo dalla partecipazione, ma anche e soprattutto dalla rappresentanza politica diretta, proprio a livello locale questa pratica ha preso campo, facendo accompagnare il pieno dispiegamento del disegno trasformistico dall’immancabile formazione di un ceto politico interessato unicamente alla propria auto-preservazione. Di contro, proprio l’amministrazione locale dovrebbe favorire il sorgere di una classe dirigente nuova, espressione diretta del conflitto e della capacità di tradurlo in risposte di governo. Le elezioni della primavera prossima offrono dunque sia il rischio di rafforzare il ciclo localistico e trasformistico, sia l’opportunità di invertirne la rotta in senso nazionale e popolare. Un banco di prova non da poco per il nascente soggetto unitario della sinistra.