A parole tutti si scagliano contro le politiche di austerità ma, nei fatti, si collocano sulle posizioni di chi, con un'arroganza dogmatica per me incomprensibile, continua a propinarci le medesime ricette. Ci si è seduti al tavolo con un governo neoeletto, quello greco, che aveva un mandato chiarissimo contro le politiche di austerità e si è detto: "noi siamo disposti non a cambiare le ricette ma solamente il dosaggio".
Il problema, però, non è il dosaggio ma la direzione in cui queste ricette vanno. Le politiche economiche e sociali che l'Europa ha portato avanti in questi anni hanno prodotto un ulteriore aggravamento della situazione non solo in Grecia ma in tanti altri paesi. Queste politiche hanno prodotto, si potrebbe dire, una recessione nella recessione. Mi chiedo cosa serve ancora alla socialdemocrazia europea per capire che bisogna immediatamente cambiare passo. Se si pensa ai luoghi nei quali la crisi è partita, gli Stati Uniti, notiamo come, paradossalmente, essi hanno, più velocemente di noi europei, reagito alla crisi. Queste perché hanno seguito politiche di stampo diverso: politiche espansive e di investimento. Probabilmente anche da noi si sta arrivando a conclusioni simili, ma zoppicando e troppo tardi.
2) Dalle pagine de l'Unità Massimo D'Alema ha parlato di una "rivolta di due segni opposti" - uno di stampo nazionalista, di destra, e l'altro populista, di sinistra - che sta logorando i pilastri fondamenti su cui si è fondata l'Europa: il Partito Popolare e il Partito Socialista. In che modo rispondere all'impulso dell'euroscetticismo che soprattutto dopo la vicenda greca sembra conquistare l'opinione pubblica?
L’euroscetticismo è un fenomeno che purtroppo sta crescendo ed è riscontrabile in quasi tutti i paesi europei. Il problema di fondo è stata la mancanza di risposte: l'Europa non è riuscita a reagire alla crisi che colpisce profondamente i cittadini europei, ed in particolare le fasce più deboli della società.
Bisogna comprendere che senza sostenere le fasce più deboli l'intera società non può ripartire. Occorre, dunque, mettere al centro del dibattito quella che reputo la questione più importante dei nostri tempi, ovvero la diseguaglianza sociale. Io sono un umile giurista ma gli economisti più brillanti, penso ad esempio ad un autore molto impegnato su questo tema come Piketty, dicono chiaramente questo. Oltre agli economisti anche l’OCSE, e dunque istituzioni di un certo rilievo ed ideologicamente distanti dal pensiero socialdemocratico, stanno giungendo a considerazioni simili. Con questo livello di diseguaglianza sociale, è evidente, non è possibile far ripartire l’economia europea. Eppure, purtroppo, non si vede, da nessuna parte, l'intenzione di attuare delle politiche che siano davvero redistributive.
Credo che l'euroscetticismo sarà tanto più forte quanto più l'Europa mancherà di fare ciò che andava fatto sin dal principio. Anche in questo caso bisogna però distinguere le responsabilità. Io sono un europeista convinta e sono sicura come nel mondo di oggi - un mondo infinitamente interconnesso e che registra l’ascesa di nuove potenze - sia impensabile credere che la soluzione stia in un ritorno ai ristretti confini nazionali.
Il punto è chiedere all’Europa di impegnarsi maggiormente sul tema dell'integrazione. Non, quindi, fare un passo indietro rispetto al processo di integrazione, ma, al contrario, lavoravi seriamente.
I governi europei - perché è a loro che imputo questa responsabilità - sono stati sempre molto bravi a stringersi una mano sul tavolo di Bruxelles e con l'altra tenere incrociate le dita dietro la schiena perché non hanno mai voluto cedere quelle competenze necessarie a trovare soluzioni comuni. Questo atteggiamento, ad esempio, è stato assunto sulle politiche migratorie e non è mai stato così evidente come negli ultimi mesi.
Da questo punto di vista l’euroscetticismo va a braccetto con forme di xenofobia a cui stiamo assistendo, con degenerazioni violente in molti paesi d’Europa. In tal senso Italia, Germania e Grecia sono casi emblematici ma la xenofobia è in fase di crescita in tutto il continente. Su questo vorrei ricordare che i trattati europei dicono chiaramente che sull’immigrazione e sull’asilo serve solidarietà tra Stati membri. Chi, come me, lotta per un meccanismo di quote in grado di ripartire meglio gli sforzi tra Stati membri, non sta facendo altro che chiedere l’attuazione dei trattati così come sono già stati scritti.
L’euroscetticismo vive del fatto che i governi hanno sempre nazionalizzato i successi ed europeizzato le sconfitte. I governi nazionali hanno sempre reso l’Europa un capro espiatorio delle politiche che andavano ad incidere negativamente sulla vita dei cittadini nascondendo le proprie responsabilità. Un altro esempio palese dei limiti dell’Europa riguarda la politica estera. La risposta alla celebre domanda di Kissinger "chi devo chiamare se voglio parlare con l'Europa?” rimane ancora inevasa. Su ogni tema, oggi, occorre sentire 28 diversi ministri degli esteri, in quanto la figura ricoperta da Federica Mogherini è svuotata del proprio significato dai governi nazionali gelosi delle proprie competenze. Un altro esempio ancora riguarda le politiche fiscali. Come si può pensare di fare l'Europa se si permette che vi sia una concorrenza fiscale spietata tra gli stati membri come nel caso, scandaloso, del Lussemburgo? Ci si prende in giro.
Io credo che la soluzione sia europea ed il destino sia comune, ma non è questa l'Europa in grado di funzionare e dare ai cittadini le risposte che servono per convincerli della bontà dell'integrazione.
3) Proprio in tema di politiche fiscali, con 550 voti a favore e 57 contrari, nel luglio scorso è stata approvata la risoluzione Schlein del Parlamento Europeo sulla lotta contro l'evasione, l'elusione e i paradisi fiscali nei Paesi in via di sviluppo. A che punto siamo e quanto lunga ancora sarà la strada che porta alla fine del dumping fiscale all'interno dell'Unione?
La strada è ancora lunga ma c'è qualche motivo per essere ottimisti. Credo che sorprendersi delle politiche fiscale del Lussemburgo sia errato perché tutti sapevano che molti Stati, non solo il Lussemburgo, concordano con alcune multinazionali aliquote bassissime, a scapito del fisco di altri partner europei.
Il problema dell'evasione e dell'elusione su larga scala è un problema europeo, in quanto mina le condizioni di base che dovrebbero tenere insieme l’Unione. Lo scoppiare di questo scandalo agli inizi dei lavori della commissione Juncker (quest’ultimo, in quanto ex Premier del Lussemburgo è stato particolarmente attaccato) costringe la Commissione a lavorare nel senso dell'armonizzazione fiscale.
È necessario lavorare a misure in grado di evitare che le multinazionali siano in grado di fare ciò che vogliono.
Si può ovviare al problema con alcuni strumenti non difficili da adottare, qualora non manchi, come è mancata, la volontà politica di risolverlo. Uno dei possibili strumenti è lo scambio automatico di informazioni.
Da qualche anno l'OCSE, su incarico del G20, sta lavorando ad un piano contro l’evasione e l’elusione che prevede, entro il 2017, l'entrata in vigore del piano di scambio automatico di informazioni tra le autorità fiscali dei Paesi.
Credo però che la Commissione debba fare una proposta ancora prima e ancora più forte. L'altro strumento fondamentale su cui sta lavorando la Commissione è arenato da anni per precisa volontà dei governi. E’ la cosiddetta CCCTB, ovvero una direttiva che imponga un criterio comune per il calcolo delle basi imponibile. E’ ovviamente impensabile che le aliquote fiscali siano fissate a livello europeo - poiché gli Stati membri hanno la loro competenza in materia - si possono però stabilire criteri comuni con cui vengono calcolate le basi imponibili.
Questo aiuterebbe ad evitare gli episodi di elusione fiscale a cui assistiamo quotidianamente. La risoluzione Schlein che è stata votata a luglio si occupa di strumenti analoghi per i Paesi in via di sviluppo. In un mondo in cui, con un semplice click, è possibile spostare facilmente grandissimi capitali da una parte all’altra del pianeta, è evidente che non si può risolvere la questione adottando un approccio a livello nazionale.
E’ necessario adottare strumenti non solo al livello europeo ma anche a livello globale. Il dramma dell’evasione e dell’elusione fiscale, oltretutto, va ad inficiare le politiche dello sviluppo.
Esistono dei calcoli molto precisi che illustrano come il flusso dei capitali illeciti in uscita dai Paesi in via di sviluppo superi di quasi dieci volte quello degli aiuti da essi ricevuti.
Diventa dunque una questione di coerenza delle politiche europee. Nella risoluzione abbiamo ottenuto molte cose importanti, tra cui lo scambio automatico di informazioni che, attraverso una fase di transizione, superi le difficoltà dei Paesi in via di sviluppo che non hanno la capacità di raccogliere tutte le informazioni ed i dati che sono invece a disposizione dei Paesi europei. E’ importante ricordare che in questi Paesi investono moltissime aziende europee, le quali approfittano del fatto che spesso per attrarre investimenti quei governi accordano benefici e privilegi fiscali che si risolvono in un grande guadagno per tali aziende e nessuno per le casse di quegli Stati. Con i soldi sottratti all’evasione ed all’elusione si potrebbero attuare politiche di contrasto alla povertà e alla disuguaglianza e miglioramento dei servizi per la salute e l’istruzione. Vi è un ultimo punto della risoluzione che reputo importante. Abbiamo chiesto che finalmente vi fosse un corpo intergovernativo in grado di far partecipare, in condizione di parità, i Paesi in via di sviluppo alla ridefinizione delle regole fiscali globali. Purtroppo la Conferenza Internazionale delle Nazioni Unite sui finanziamenti allo sviluppo - tenutasi ad Addis Abeba dal 13 al 16 luglio scorso - non ha dato l’esito sperato. Vi è poi uno strumento che è stato votato sia nella risoluzione Schlein che nella risoluzione Cofferati - che riguardava una materia diversa - che è il “country by country reporting”, ovvero la rendicontazione Stato per Stato. E’ un ulteriore strumento di lotta all’elusione fiscale, in quanto impone a tutte le multinazionali di specificare in quali Paesi esse sono attive, quanti profitti realizzano e quante tasse pagano in ogni nazione. Questo strumento fa emergere, con trasparenza, dove le multinazionali approfittano delle differenze delle normative fiscali.
Io credo che questo sia uno dei temi su cui l’Europa si gioca la propria credibilità. Credo, inoltre, che la nostra generazione sia quella che è nata e cresciuta, per prima, europea ma, ugualmente, non possa dare per scontata l’Unione e i grandi benefici che ha portato.
Il processo di integrazione non deve però fermarsi, perché se rimane realizzato a metà per mancanza di coraggio dei governi europei o del PPE, piuttosto che del PSE, questa Europa rischia di sgretolarsi.
4) Nel Maggio scorso ha abbandonato il Partito Democratico in polemica con il segretario Renzi. Il 21 Giugno si è tenuta la prima assemblea nazionale di Possibile, il nuovo movimento politico lanciato dall'ormai ex dem Pippo Civati, e pochi giorno dopo si è svolta l'assemblea nazionale di Sel in cui si è discusso apertamente della necessità di aprire una nuova stagione a sinistra. Nonostante questi presupposti, vecchi rancori e nuovi protagonismi sembrano sbarrare la strada a qualsivoglia processo unitario. Quali prospettive per chi a sinistra non si riconosce nel Partito Democratico di Renzi?
Credo che ci sia uno spazio enorme lasciato a sinistra dal PD di Renzi. Ho lasciato il Partito Democratico per molti motivi ma principalmente ritenevo non più tollerabile la totale contraddittorietà tra quello che ci eravamo sempre impegnati a fare - compreso il programma elettorale per realizzare il quale i parlamentarli del PD sono stati eletti - e quello che sta attuando l’attuale maggioranza. Le riforme votate in quest’ultimo anno vanno nel senso esattamente opposto a quelle che erano state le nostre battaglie.
Queste riforme, penso ad esempio a quella sul lavoro, fanno contenti personaggi come Sacconi o, come nel caso della scuola, compattano contro tutto il mondo della conoscenza in un modo ancora più forte di quanto si era visto con Gelmini e Moratti.
Dunque c’è uno spazio enorme: la domanda è come riempirlo. Come provare, con umiltà, a riavvicinare i tantissimi che non si sentono più rappresentati da nessuno nemmeno a sinistra.
Credo che la strada giusta sia quella di ripartire dal basso. Ripartire intercettando quelle spinte di partecipazione che nella società sono già presenti ma si muovono al di fuori dei partiti tradizionali. C’è un mondo che si muove al di fuori dei meccanismi della politica tradizionale in quanto vi è molta delusione per processi che, in passato, sono falliti.
Penso che vadano evitati gli errori del passato ed è il motivo per cui noi insistiamo sul fatto che la strada giusta da seguire non sia quella di una fusione a freddo tra pezzi di gruppi dirigenti di partiti già esistenti nell’orbita della sinistra.
Abbiamo proposto otto referendum su quattro temi - che sono il lavoro, l’ambiente, la scuola e la democrazia - perché ci è sembrato l’unico modo per ridare in mano ai cittadini il potere di esprimersi su queste riforme che non erano contenute in nessun programma.
La ragione per cui riteniamo importanti i referendum parte, inoltre, da più lontano. L’ultimo momento di grande partecipazione democratica in Italia si è realizzato con i referendum del 2011 quando milioni di cittadini andarono a ribadire principi fondamentali sui beni comuni.
Mentre viviamo una fase di grande crisi della rappresentanza e dei corpi intermedi, davanti al referendum il cittadino sente di poter, di nuovo, decidere.
Con grande umiltà, se la sinistra vuole ripartire insieme, anziché anteporre personalismi, antipatie e diffidenze reciproche, dovrebbe rimboccarsi le maniche e ritornare per strada ad ascoltare ciò che si muove nel Paese, cercando di accompagnare le spinte partecipative, che già si muovono in mille forme diverse: dall’associazionismo ai tanti comitati locali.
Se ci pensiamo c’è politica dappertutto. Per me è un atto politico anche quello dei ragazzi che a Genova sono scesi in piazza per pulire il fango.
Non credo che l’astensionismo, che è sempre più forte nel nostro Paese, sia un sinonimo di mancanza di voglia di partecipare alla vita pubblica, credo, al contrario, che ci sia ancora un tessuto sociale ricco e pieno di potenziale ma che non ha più fiducia nella politica.
La strada non è, dunque, quella degli accrocchi tra ceti politici ma una ripartenza dal basso e dalla partecipazione reale.
Nel nostro piccolo stiamo provando a dare questo tipo di contributo. Sarà un processo lungo e difficile che non si realizzerà dalla sera alla mattina, ma, ugualmente, abbiamo l’ambizione di riportare al voto quei tantissimi che hanno smesso di votare perché non si sentono più rappresentati.
Immagine liberamente tratta da Formiche.net