Poi quando di orientamenti di politica economica si cominciò nell’Europa occidentale a parlare, grosso modo attorno al 1950, le sue economie essendo state nel frattempo ricostruite non poterono che consistere in politiche basicamente keynesiane. C’era, dal lato della loro credibilità, il fatto di aver consentito di avviare a superamento la Grande Crisi del 1929, e soprattutto c’era da recuperare consenso popolare al capitalismo, alla borghesia, ai suoi partiti, dunque politiche orientate radicalmente alla crescita economica, salariale, dell’occupazione e dello “stato sociale” avrebbero potuto funzionare in tal senso. Protagonisti politici della gestione di questo corso furono così tutte le principali famiglie politiche europee di allora, pur ciascuna in modo particolare: i democristiani-popolari come i socialisti-socialdemocratici-laburisti, i liberali come gli stessi comunisti, benché allontanati dagli immediati governi postbellici in ragione del loro rapporto con l’URSS e la loro contrarietà ai progetti dell’UEO e della NATO.
Un ulteriore ordine di motivazioni, molto importante anch’esso in quel periodo, fu quello europeista, consistente nell’obiettivo della costruzione di Stati Uniti d’Europa, prima di tutto allo scopo di impedire che proseguisse la storia di 1.500 anni di guerre e massacri tra europei (più concretamente, allo scopo di impedire una nuova puntata delle guerre più o meno recenti che avevano impegnato da una parte la Germania e dall’altra la Francia). Si può dire che le classi dominanti presero atto realistico della situazione sociale e di ciò che minacciava il capitalismo stesso e stettero al gioco, comprendendo che avrebbero potuto continuare a gestire lo stato e l’economia solo effettuando concessioni materiali importanti alle classi popolari.
I paesi sconfitti erano stati colpiti, sul finire della guerra e nell’immediato dopoguerra, da inflazioni più o meno galoppanti, che ne avevano distrutto, in modo assolutamente devastante in Germania, risparmi e pensioni popolari. Nel keynesismo il rimedio era la forzatura con tutti i mezzi possibili della ripresa delle economie, non, al contrario, misure anti-inflative pesanti e tagli alla spesa sociale. Ed è ciò che avvenne in Europa occidentale. Fu grazie prima di tutto a questo, e al grande impegno delle classi operaie nella ricostruzione dell’industria e al compromesso sociale in questione, che il rilancio economico poté snodarsi rapidamente, i salari e i consumi progressivamente crescere, la situazione sociale tendere a tranquillizzarsi, i governi centristi reggere e, si noti, le socialdemocrazie cominciare a rafforzarsi quasi ovunque bloccando o riducendo l’influenza dei partiti comunisti.
Nel complesso la Comunità Europea aveva funzionato come una sorta di politicamente coordinata area di libero scambio. Il passaggio all’UE, con il Trattato di Maastricht del 1992, costituì un salto qualitativo rispetto alla situazione precedente, esso infatti consegnò vasti poteri non solo alla coordinazione politica tra stati ma a istituzioni politiche comuni. Al tempo stesso l’UE sotto il profilo istituzionale volle essere una realtà sui generis, in quanto a distribuzione segmentaria del potere statale, poiché in parte affidato al Consiglio e alla Commissione, in parte di pertinenza degli stati nazionali, in parte affidato a trattative nell’ambito di Consiglio o Commissione, non a caso composti dai rappresentanti di tutti i paesi membri. Dunque non retoricamente l’UE si definì come “unione di stati sovrani”.
Il fattore decisivo, che sbloccò una discussione infinita su come sviluppare l’unità politico-istituzionale dell’Europa occidentale, fu decisamente il collasso del campo a “socialismo reale”, da cui derivava la possibilità di una riunificazione su indirizzi occidentali della Germania. Il complesso massmediatico europeo, gli economisti prosistemici e gli esponenti delle fondamentali forze politiche europee pretenderanno (e continuano a tutt’oggi a pretendere) la qualità rigorosamente scientifica degli obiettivi di politica di bilancio ed economica cui avrebbe dovuto conformarsi, opportunamente, non solo obbligatoriamente, il complesso dei paesi membri. Si tratta quanto a politica di bilancio dei famosi “parametri di Maastricht”. Ma di scientifico non ci fu (né c’è) nulla in essi. Ciò che davvero faceva problema non erano le condizioni pessime di bilancio dell’Italia o del Belgio, era invece l’allarme creato in molti governi occidentali dalla possibilità di una riunificazione della Germania ovvero dalla possibilità della ricostituzione della potenza tedesca. Non si trattava, ovviamente, della possibilità di un rilancio militarista e aggressivo della politica della Germania, ma del timore che essa si smarcasse dal rimanente dell’Europa occidentale, intendendo recuperare la sua storica vocazione ad allargarsi a est, stavolta non con i cavalieri teutonici o con i carri armati ma con la forza della sua economia. Questo timore era principalmente francese, ma era anche britannico, italiano, belga, olandese e persino statunitense. Sicché il cancelliere tedesco Kohl e il presidente francese Mitterrand si riunirono alla ricerca di una quadra: il cui risultato fu la decisione di portare l’UE a creare rapidamente una moneta unica europea, superando così la soluzione intermedia e debole del “serpente monetario”. Da parte della Germania fu posto il problema del debito italiano, molto elevato, in quanto contraddiceva l’intenzione popolare tedesca di una moneta unica “forte” tanto quanto era il marco. La richiesta tassativa della Germania fu quindi che, a tutela della propria condizione economica globale, venissero immediatamente concordati vari “parametri”, obbligatori per il complesso dei paesi membri UE, tra i quali due che per essa erano particolarmente importanti. I due parametri, com’è ben noto, dovevano definire i massimi in percentuale sui PIL nazionali che non avrebbero potuto essere superati, o entro in quali si sarebbe dovuto rientrare, a proposito sia di deficit pubblici che di debiti pubblici; e ovviamente la Germania chiese che fossero collocati a livelli molto bassi, molto restrittivi. La Francia pretendeva il contrario, temendo che tali parametri portassero a un rilevante rallentamento del proprio processo economico. Kohl e Mitterrand concordarono una posizione intermedia, che il parametro del deficit fosse al 3% e quello del debito al 60%. La strada al Trattato di Maastricht e alla successiva moneta unica era stata aperta. Anche il massacro dell’economia italiana e di quella francese e la colonizzazione tedesca delle future entrate orientali nell’UE. L’Italia, in mano a un ceto politico da tempo a larghissima maggioranza europeista nel senso più insensatamente ideologico del termine, incapace di ragionare criticamente sulle condizioni in cui l’UE veniva a partire e sui danni enormi che esse avrebbero recato all’Italia, si affannerà a tagliare spesa pubblica e a svendere (alias “privatizzare”) il proprio patrimonio industriale pubblico, avviando così una stagione infinita di smantellamento di grandi unità produttive e di stagnazione e arretramento qualitativo della sua economia. Concorreranno a ciò inoltre varie misure aggiuntive dentro al Trattato di Maastricht, tra le quali soprattutto il divieto posto agli aiuti di stato all’industria.
Giova notare come, però, si fosse ancora ben lontani dalle frenesie tedesche in tema di “rigore”, “austerità”, ecc. e alla loro imposizione brutale al complesso dell’UE, e prima di tutto ai paesi della zona euro. Kohl e Mitterrand facevano parte di quella leva più o meno nettamente keynesiana della politica europea ed inoltre facevano parte di una generazione che aveva vissuto direttamente la seconda guerra mondiale, visto le città, le fabbriche, le infrastrutture distrutte dai bombardamenti, vissuto le decine di milioni di esseri umani macellati, i crimini nazisti, l’impoverimento estremo delle popolazioni, l’inflazione postbellica. L’obiettivo primario, politicamente e psicologicamente, di questa generazione, non solo tedesca e francese ma di tutta Europa, era la sua pacificazione stabile. L’unificazione tedesca avrebbe significato oneri enormi di bilancio e un’economia a rallentatore, quindi deroghe tedesche ai parametri: e nessun governo degli altri paesi europei si sognò di non consentire. Il “rigore” tedesco interverrà successivamente, cioè a Germania da tempo sistemata. Esso, inoltre, verrà imposto agli altri paesi UE più pesantemente o meno pesantemente, per esempio meno alla Francia e di più all’Italia, sulla scia di considerazioni tedesche tutte politiche, facilmente imposte alla Commissione Europea. Giova considerare anche la generalizzazione di una convinzione inamovibile: l’UE era altresì una grande opportunità economica, per il semplice fatto di essere ormai diventata l’area più sviluppata del pianeta, la più ricca, la prima nella classifica mondiale dei PIL, ecc. Nella competizione internazionale essa avrebbe sconfitto i grandi competitori. Il tempo avrebbe rapidamente chiarito che la competizione funzionava se era portata da sistemi economici guidati da un forte e organico potere statale, capace come tale di orientarsi rapidamente e di agire pragmaticamente senza andare in tilt, parimenti che essa funzionava se non veniva bloccata o dirottata da politiche economiche consideranti reati gravi deficit pubblici elevati, politiche industriali rette da investimenti pubblici, sistemi di “stato sociale” a carico dello stato, sistemi fiscali fortemente progressivi, ecc. Tornando alle illusioni, non si comprendono l’ossessione dei governi italiani del tempo, da quello di Amato a quello di Ciampi, i loro tagli furibondi all’industria pubblica al fine di fare cassa, quelli altrettanto furibondi al deficit, onde entrare immediatamente nell’UE, cioè insieme a Germania e Francia, né si comprendono adeguatamente gli orientamenti ultraliberisti successivi della Commissione Europea guidata da Prodi (la cui politica economica era nelle mani di Monti), se non si tiene ben presente il peso condizionante assoluto di un’ideologia astrattamente convinta di uno straordinario futuro europeo, e naturalmente italiano. Le canagliate antisociali erano dall’insieme delle figure politiche apicali di quel periodo giustificate dalla convinzione ferrea che l’inevitabile rapidissimo e avanzatissimo processo di sviluppo europeo, e naturalmente italiano, avrebbe consentito di recuperare più che ampiamente gli immediati effetti drammatici di tali canagliate.
I “trenta gloriosi” si erano esauriti da un pezzo e tra gli effetti di questo rallentamento e di questa recessione il dominio culturale keynesiano in politica economica poté essere rapidamente sopraffatto in Gran Bretagna e negli Stati Uniti da un neoliberismo guidato da figure radicali, Margaret Thatcher (che divenne primo ministro britannico nel maggio del 1979) e Ronald Reagan (che divenne presidente degli Stati Uniti nel gennaio del 1981), forti del passaggio a destra di classi medie wasp impaurite da erosioni al loro tenore di vita e diventate perciò estremamente ostili alle tasse elevate ereditate dal passato laburista o rooseveltiano. Giova rammentare che Reagan e Thatcher fecero della liquidazione del potere sindacale un loro obiettivo decisivo: esso era rimasto l’unico ostacolo sociale dotato di una certa forza. Gli 11 mila lavoratori statunitensi del comparto aereo che nell’agosto del 1981 aprirono una vertenza salariale trovarono l’amministrazione indisponibile alla trattativa e finirono tutti licenziati; i minatori del Galles, che si erano ribellati al ridimensionamento della produzione del carbone, con una straordinaria mobilitazione che perdurò per dodici mesi, fecero sostanzialmente la stessa fine.
Nel dicembre del 1991 cominciò il collasso, a sorpresa di tutti, dell’URSS: la discussione nell’UE sul Trattato di Maastricht stava per terminare, e i suoi contenuti ne saranno complessivamente condizionati, consentendo che venisse data piena forma neoliberista ai “parametri” su deficit e debito e all’iniziativa sui versanti dello “stato sociale”, del trattamento del mondo del lavoro, di grandi comparti delle industrie di stato, primi fra tutti siderurgia e cantieristica navale. L’adozione di tali orientamenti antisociali, oltre che, ma si riteneva il contrario, anti-economici, apparve infatti subito alle borghesie dell’intera Europa occidentale e alla parte moderata dei loro ceti politici, cioè a quelli democristiani-popolari-conservatori e liberali, come una possibilità che prima non esisteva, e tutta da praticare. Una grande quantità di fatti favorevoli era infatti venuta a favorevole congiunzione: non solo l’attrattiva dell’URSS e del suo tipo di socialismo era stata ridimensionata nel tempo ma essi non esistevano più, i partiti comunisti europei occidentali non solo avevano visto bloccato il loro sviluppo ma erano da più o meno tempo colpiti da pesanti crisi interne, non solo di consenso sociale ma anche di identità, infine stava venendo meno ai proletariati europei ogni disponibilità dal lato delle classi medie. Come, pragmaticamente, dopo la guerra le borghesie e i loro ceti politici avevano accettato un compromesso con i proletariati organizzati, adesso, altrettanto pragmaticamente, si trattava dal loro punto di vista di passare a un contrattacco demolitore. E così avverrà e il Trattato di Maastricht sarà uno strumento per molti aspetti fondamentale di questo contrattacco.
Veniamo alle socialdemocrazie, cui sarà affidato un ruolo fondamentale dal punto di vista degli obiettivi capitalistici, e all’affine neonato PDS. Della grande pericolosità antisociale del Trattato di Maastricht queste forze politiche, intanto, non si accorsero, o fecero finta di non accorgersi. Il PDS era in stato confusionale acuto e in piena furia di accreditamento presso il complesso dei potentati economici, dei governi europei, democristiani-popolari o socialdemocratici che fossero, e dell’ambasciata degli Stati Uniti, e tutto gli andava bene ed era oggetto quasi sempre di grandi entusiasmi. Ma c’è pure il fatto che anche i settori socialdemocratici più avveduti e più a sinistra ritennero, a larghissima maggioranza, che ci fosse spazio politico e istituzionale per azioni che tutelassero “stato sociale”, classi popolari, mondo del lavoro, sistemi industriali, politiche industriali di ampia portata e capaci di unire proficuamente investimenti pubblici e investimenti privati.
La loro illusione faceva capo a quel libro dei sogni che diverrà rapidamente il “piano” (giugno 1989), orientato alla costruzione di grandi “reti” europee (ferroviarie, aree, informatiche), proposto all’UE dal presidente della Commissione Europea Jacques Delors, consistente complessivamente in 300 miliardi di dollari, composti al 20-40% da investimenti coperti dall’UE e da un 60-80% di investimenti privati, trascinati da quelli UE e da condizioni di favore di vario tipo. In realtà gli investimenti privati non avverranno che in misura ridotta e in tempi lunghissimi, tali da annullarne ogni effetto moltiplicatore di sviluppo. Per i primi quattro dei suoi cinque anni la IV Legislatura europea (1994-99) fu caratterizzata da un Parlamento Europeo che le cose peggiori in campo sociale tendeva, pur a stretta maggioranza, a contrastare. Ciò aveva a fondamento la prevalente presenza in seno al gruppo socialista di figure orientate a sinistra (britanniche, tedesche, francesi, olandesi) e nella capacità di iniziativa non solo del GUE-NGL ma anche e soprattutto di alcune straordinarie figure socialiste, tra le quali campeggiava il britannico Ken Coates. Questi si inventò una sorta di gruppo politico trasversale inteso a dibattere e a effettuare al Parlamento e alla Commissione proposte di politica economica, industriale e sociale, la cui base teorica era un keynesismo molto attento alla difesa e allo sviluppo delle condizioni di vita e di lavoro popolari. Vi si affrontarono, per esempio, grandi temi come il “controllo operaio”, l’abbattimento della settimana lavorativa, la piena occupazione, l’affidamento dello sviluppo industriale a piani e finanziamenti prima di tutto europei e pubblici. La presidenza di questo gruppo fu affidata a Ken Coates, a Friedrich Wolf e al sottoscritto (beninteso la figura guida e di gran lunga più influente fu quella di Coates). L’attuale presidente del Parlamento Europeo Martin Schulz, allora presidente della delegazione socialista nella commissione Affari Interni (commissione competente in tema di diritti sociali, diritti umani, ecc.), si professava marxista ed erano istruttivi i suoi scontri in questa commissione con i popolari e i liberali sui diritti sociali. Il passaggio del gruppo socialista al neoliberismo avvenne verso la fine del 1998, a meno di un anno dalle elezioni europee. Il primo atto orientato a questo passaggio fu l’intervento brutale del gruppo dirigente laburista britannico, guidato dal luglio del 1994 da Tony Blair, sui suoi parlamentari europei, orientato a imporgli di agire sulla scia delle indicazioni anche di dettaglio che avevano cominciato a venire da Londra. Tony Blair, e a suo seguito la destra neoliberista radicale, quasi thacheriana, del suo New Labour, era forte della grande vittoria ottenuta alle elezioni britanniche del maggio del 1997. Non a caso l’intervento sul gruppo parlamentare avvenne in vista delle elezioni europee: esso significò che chi nella delegazione laburista al Parlamento Europeo non si fosse allineato non sarebbe stato ricandidato. Gran parte dei parlamentari di questa delegazione borbottò, ma al tempo stesso piegò la schiena, non la piegarono solo due, uno era Coates: furono immediatamente espulsi dal partito e subito dopo, su richiesta di Londra, anche dal gruppo parlamentare socialista. Va da sé che buona parte di quei parlamentari non sarà ricandidata. Contemporaneamente avveniva la stessa cosa, più o meno, in Germania. Oskar Lafontaine, diventato presidente della socialdemocrazia nel novembre del 1995, aveva portato il suo partito alla vittoria alle elezioni del settembre del 1998. A capo del governo fu posto Gerard Schröder, Lafontaine divenne ministro delle finanze: ma nel marzo del 1999, a tre mesi dalle elezioni europee, questi si dimetterà sia dal governo che dalla presidenza del partito, accusando Schröder di tentare una svolta in sede di politica economica, di bilancio e sociale sostanzialmente neoliberista, sulla scia britannica. Fatti analoghi avvennero in quasi tutti gli altri paesi, dalla Svezia all’Olanda ecc. Il Parlamento Europeo eletto nel 1999 avrà grosso modo la medesima composizione formale di quello eletto nel 1994: ma la composizione politica sostanziale risulterà sconvolta, in quanto ora allineata a larga maggioranza al neoliberismo. Le grandi spaccature in Parlamento Europeo degli anni precedenti si erano ridotte a sfumature di scarsa consistenza, solo il GUE-NGL tenterà di portare avanti i temi sociali ed economici, spesso prevalenti, della legislatura precedente. Anche parte dei verdi, su iniziativa di Daniel Cohn-Bendit, evolvette analogamente. Persino Marco Pannella, uomo di grandi meriti democratici, ebbe in quel momento a dichiarare che i radicali erano “liberali, libertari e liberisti”. In breve, le condizioni politiche perché le “riforme” neoliberiste accelerassero erano venute tutte a quagliare nell’UE, il Parlamento Europeo si era finalmente allineato alla Commissione, al Consiglio, ai governi di tutti, concretamente, i paesi membri.
Nell’ottobre del 2004, all’inizio della VI Legislatura europea, il Consiglio dei Capi di Stato e di Governo approvò il testo del Trattato di Lisbona, che era stato di lunghissima e complicata elaborazione nel corso della legislatura precedente. Il testo di questo trattato era stato attentissimamente confezionato e la sovrabbondava di diritti sociali, umani, di libertà portò alla sua adesione entusiasta da parte di socialdemocrazie e dei DS. Tuttavia, guardando specificamente ai diritti sociali, essi erano stati declinati come “diritto a lavorare”, “diritto a farsi curare”, “diritto a poter andare a scuola”, ecc.: quei diritti erano dunque stati derubricati, dalla natura loro riconosciuta nelle varie Costituzioni europee, da diritti universali garantiti (materialmente e organizzativamente sostenuti) dallo stato a meri diritti individuali; in breve, primariamente affidati alle capacità economiche degli individui o delle famiglie (pardon, dei “consumatori”).
Di lì a due-tre anni esploderà la crisi, sulla scia della crescita esponenziale delle attività e della potenza della grande finanza speculativa, avviate negli Stati Uniti dalla presidenza del repubblicano Reagan e completate organicamente dalla presidenza del democratico Clinton, cioè dalla posizione statunitense più vicina alle socialdemocrazie europee. Questa presidenza molto giocò essa pure a favore del passaggio di questa parte delle sinistre europee dal lato del neoliberismo. Ci si chiederà perché in condizioni di crisi che evolvevano addirittura nel senso della deflazione si sia rafforzata nell’UE l’attitudine a politiche pesantemente anti-economiche. C’è chi ha insistito sulla particolare ideologia tedesco-luterana, che fa del debito un peccato, oltre che sulle paure tedesche dinanzi a rischi anche presunti o improbabilissimi di inflazione. Ma questi dati, certo reali, non rappresentano un’argomentazione sufficiente. Il fatto è che la crisi, anche in quanto sociale e di credibilità del complesso dei sistemi politici e istituzionali, ha fatto saltare ogni elemento di complicità tra i governi dell’UE, pur nella loro larga prevalenza tuttora neoliberisti, per via dell’impossibilità di proseguire il metodo precedente di transazioni attraverso le quali ciascun paese portava a casa qualcosa. Nella crisi, in altre parole, il “qualcosa” non bastava più. Sicché anche la Germania generalizzò ed estremizzò una sua radicalizzazione “rigorista”. È solo tenendo conto di ciò che è dato comprendere anche azioni tedesche come quelle ossessivamente orientate al controllo della Commissione Europea, dell’Eurogruppo, dei vertici degli apparati comunitari. Di questo allora si tratta: del fatto che l’unità in questi anni tra crisi e “rigore” ha allargato il trasferimento di valore verso la Germania dal resto dell’UE e ha consentito il ridimensionamento drastico o la succursalizzazione all’industria tedesca di buona parte degli apparati industriali dell’Italia, soprattutto, e della Francia. E si tratta, infine, del fatto che questi processi sono da concepiti dall’establishment tedesco come condizioni fondamentali del suo obiettivo di un’egemonia sull’Europa che restituisca alla Germania quel rango di grande potenza planetaria che ha perduto perdendo la seconda guerra mondiale.
Ha operato, anche questo è importante porlo, una base sociale d’una certa ampiezza, in Europa come negli Stati Uniti, favorevole non solo al passaggio neoliberista degli anni ottanta e novanta ma anche al fatto più recente dell’enorme crescita della grande finanza speculativa e del suo dominio assoluto sull’economia “reale”? Indubbiamente la risposta è sì, e ha come base il fatto che parte delle classi medie e quelle abbienti hanno potuto per quindici o vent’anni incrementare abbondantemente la loro posizione economica proprio grazie alla loro partecipazione alla speculazione, oltre che grazie al sistematico abbattimento delle fiscalità progressive, al sistematico privilegio fiscale degli introiti finanziari, alla facilità dell’evasione fiscale, tutte cose richieste dalla possibilità di tirare per le lunghe la speculazione. E anche tutto questo ha operato nel senso di una lacerazione delle socialdemocrazie e poi del loro passaggio liberista, così come del DS-PD italiano e del partito democratico statunitense: poiché dire passaggio a destra di grandi porzioni di classi medie è anche dire passaggio a destra della gran parte delle stesse élites di queste formazioni politiche (dei loro gruppi dirigenti, delle loro rappresentanze nelle istituzioni apicali dello stato, di parte dei loro apparati: tutti quanti infatti provenienti infatti largamente dalle classi medie). Non è questa una scoperta straordinaria: lo notarono a cavallo del Novecento Weber, Mosca, Pareto, Michels, Sorel, Gramsci.
Ma ecco un ulteriore grande passaggio, appena iniziato. La crisi del 2007 ha teso da un certo momento in avanti ad annullare i benefici portati dalla finanza speculativa a parte ampia delle classi medie; esse pure sono state coinvolte da processi di impoverimento analoghi a quelli che, da ben più lungo tempo e assai più dolorosamente, hanno colpito le classi popolari occidentali. Ciò ha aperto la strada a populismi semifascisti, fascisti, nazisti ecc.: i profili antropologici essendo rimasti in tale parte delle classi medie i medesimi, individualisti, cinici, quando non sociopatici. Il venir meno della tutela socialdemocratica e l’inerzia delle stesse grandi organizzazioni sindacali, i cui legami subalterni a socialdemocrazie e dintorni sono rimasti significativi, per quanto sempre più logorati, ha comportato anche il passaggio alle destre radicali di quote crescenti di classi popolari, e in esse dello stesso mondo organizzato del lavoro.
L’UE è entrata da poco meno di un decennio in quella che lo studioso argentino Ernesto Laclau chiama “situazione populista”. Si tratta di una situazione capovolta rispetto a quella del periodo iniziale della crisi, la quale tende a nuovi sistemi politici e a forme diverse di esercizio della politica, appunto populiste, basate sulla movimentazione di atteggiamenti e comportamenti popolari, sulla sfiducia nella politica e sugli assetti istituzionali, sul rapporto diretto tra seguaci e leadership, sulla banalizzazione del discorso politico e sulla centralità del richiamo emotivo. La condizione della ripresa della sinistra e in generale del movimento operaio stanno molto nella capacità di capire queste cose e di tenerne conto nell’operatività, chiudendo con il monopolio ossessivo dell’azione parlamentare e dei momenti elettorali, anche in quanto largamente svuotati di effettive possibilità.
Data questa realtà vengono anche emergendo nella socialdemocrazia europea e nel partito democratico statunitense posizioni valide ed efficaci di sinistra, sorrette soprattutto dalle nuove generazioni. Analoghe cose importanti stanno avvenendo in una parte dell’Europa meridionale. Difficilmente le socialdemocrazie, fratte ormai apertamente in tendenze aventi basi opposte di classe, sapranno evitare ulteriori ridimensionamenti e rotture.