Sabato, 25 Maggio 2013 00:00

Cosa vuole dire restare comunisti? Alcuni punti fermi

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Nel dibattito politico attuale in corso a sinistra del PD c'è tantissima confusione e molta approssimazione. Purtroppo il grado di degenerazione tra i comunisti dipende in prima misura da uno degli errori storici del Partito della Rifondazione Comunista, ossia dal fatto di non aver dato attenzione con la dovuta organicità, negli oltre 20 anni della sua esistenza, al settore della formazione culturale-ideologica dei militanti.

Ciò ha impedito di poter costruire un bilancio storico condiviso (e trasmissibile a livello generazionale) delle esperienze storiche del socialismo del XX° secolo, con la conseguenza che oggi non solo c'è grande incertezza su cosa voglia dire il termine “comunismo”, ma si è arrivati anzi ad una proliferazione di strutture organizzative (spesso inconsistenti e autoreferenziali) corrispondenti alle varie culture politiche che si rifanno al comunismo. 

È pertanto problematico pensare di riuscire a superare d'incanto le divergenze politiche tra togliattiani governisti, togliattiani non governisti, berlingueriani, leninisti-trotzkisti, stalinisti, marxisti, marxiani, gramsciani, bordighisti, comunisti-libertari, generici anticapitalisti e chi più ne ha più ne metta... Tutte queste categorie hanno una proprio visione di fondo sulla società, sulla storia, sulla politica e sul metodo dell'organizzazione profondamente differenti tra loro.

Sarebbe certo auspicabile che prima o poi si cerchi di pervenire ad una sintesi cultural-politica, quanto meno per il buon senso derivante dal fatto che tutti coloro che si ritrovano in una di queste categorie partono quanto meno dal presupposto di volere una società radicalmente diversa da quella capitalistica. Finchè però tale processo non verrà svolto occorre prendere atto dell'impossibilità di una fusione a freddo non solo tra le organizzazioni comuniste esistenti, ma nemmeno tra i compagni più coscienti e “identitari”, incapaci, in un contesto di “presentismo” e di mancanza di disciplina di partito, di accettare il responso tattico-strategico decretato dall'intellettuale collettivo che dovrebbe essere il “partito”.

Se non c'è un'organizzazione strutturata in maniera valida e credibile non si sente il bisogno di entrare a farvi parte, né tantomeno di obbedirle anche qualora non se ne comprendessero fino in fondo le scelte per propri limiti cognitivi personali. È sotto gli occhi di tutti che una struttura del genere, capace di costruire un fronte di milioni di lavoratori nella lotta contro il Capitale, in Italia non è più esistita dopo il PCI e questo rappresenta senza dubbio il lato più fallimentare del tentativo della “Rifondazione Comunista” (così come di tutti i suoi epigoni).

Se questo è il contesto odierno occorre farsi tre domande: ha ancora senso essere comunisti? Se sì: come dovrebbero organizzarsi teoricamente e praticamente i comunisti? Infine: è possibile trascendere dalle diversità culturali attuali tra chi si richiama al comunismo?

La prima domanda richiede la risposta più rapida: finchè ci sarà il capitalismo sarà indispensabile rimanere comunisti e lavorare per la soppressione di un modo di produzione che fa dello sfruttamento e dell'anarchia produttiva la sua ragion d'essere. Nonostante i “nuovismi” e la ricerca di nuovi messia è riconosciuto da chiunque (anche dai settori della borghesia, per dire...) che il più grande conoscitore del capitalismo (e come tale colui che ne ha messo in rilievo le criticità strutturali e non mediabili) è stato Karl Marx, che assieme a Friedrich Engels ha fornito un metodo filosofico, una critica economica e un'analisi socio-culturale della realtà che nei caposaldi rimangono tutt'oggi fondamentali e imprescindibili. Non inserire questi due autori come i punti di riferimento culturali primordiali per chi voglia lottare contro il capitalismo è un errore strategico devastante. Ci sono molti compagni in Italia che in questa fase cercano di mascherare i propri errori politici come errori dell'ideologia in sè, che sarebbe vecchia o inapplicabile ai tempi attuali. Chi è incapace della pur minima autocritica e compie queste operazioni, rinunciando esplicitamente al marxismo, fa un errore madornale ed è un fiancheggiatore più o meno inconsapevole di quel grande Capitale che ci affama ogni giorno che passa. Ma gli errori dei comunisti non devono ricadere sul comunismo. Occorre chiedersi se il problema sia stato un'adesione esagerata all'ideologia, o piuttosto una superficialità nella sua conoscenza e nella sua messa in pratica da parte di compagni che spesso di Marx non hanno letto che qualche citazione sparsa...

Siccome essere comunisti ha ancora senso occorre capire come organizzarsi praticamente e teoricamente. Una cosa è certa: è impossibile mettere tutti d'accordo, specie in questi tempi di iper-individualismo che dopo il '68 ha invaso anche (soprattutto?) il mondo della sinistra. Credo però che si possano e si debbano mantenere quanto meno due punti saldi, anch'essi troppo spesso trascurati, banalizzati e/o misconosciuti: Lenin e Gramsci.

Lenin ha dato un metodo pratico che tutt'oggi è stato storicamente l'unico caso vincente nella lotta di classe della storia contemporanea. In lui sta la capacità di tenere unita progetto utopico e realismo politico, di predisporre le proprie azioni in seguito ad un'analisi concreta della realtà, svolta con una nitida logica di classe. In lui vi è la coscienza della necessità di avere un'organizzazione (partito) flessibile, adeguata al contesto storico del momento, da identificare quindi non in base al numero di aderenti, ma alle necessità dettate dalle condizioni circostanti. Di qui il prezioso esempio della semplicità con cui in un momento di crisi assoluta del sistema borghese (il 1917 in Russia) un partito d'avanguardia e di quadri ben strutturato possa riuscire a conquistare enorme consenso in tempi rapidi. Di qui la coscienza che non bisogna mai farsi guidare dalle masse (oggi diremmo dai “movimenti”), né tanto meno dai soli operai, ma che la parte più cosciente del proletariato, alla guida del partito, deve cercare di porsi alla guida di questi, senza cedere allo sconforto e alla difficoltà dell'opera. Non farsi tascinare da successi momentanei né da sconfitte rovinose, ma nemmeno stare dieci passi avanti, così da diventare incomprensibili per le stesse masse che si vorrebbe guidare alla propria emancipazione dal Capitale.

Gramsci è il maestro dell'egemonia. Anch'egli campione teorico della tattica, applicata però al contesto democratico-liberale, non dimentica che il partito deve essere guida del movimento operaio, cercando le adeguate alleanze sociali per costruire un blocco storico in grado di sconfiggere le classi dominanti. Il partito deve essere disciplinato e gerarchico, educando i suoi membri al centralismo democratico nella consapevolezza che le istituzioni borghesi sono un mezzo importante per la propria azione, ma non il mezzo esclusivo, tanto meno quindi il fine ultimo, che diventa invece la costruzione delle casematte su cui affermare l'ordine nuovo. Perchè l'obiettivo è la rivoluzione tesa ad abolire la proprietà privata dei mezzi di produzione (oggi come ieri: nazionalizzare le banche e la grande industria) e instaurare la dittatura del proletariato, quello stato proletario in cui cioè vengano messe al bando quelle organizzazioni che si propongano di riproporre il ripristino di forme liberal-capitalistiche tese al profitto privato.

La storia del movimento operaio offre decine di figure fondamentali oltre a Gramsci e Lenin, ma su di loro (Trotzky, Stalin, Fidel Castro, Mao Zedong, ecc.) il giudizio si è profondamente diviso, tanto da rendere il riferimento alle loro figure un ostacolo piuttosto che un aiuto all'odierno movimento comunista. Questa operazione di chiarificazione storica andrà prima o poi fatta, perchè è intollerabile che tuttora molti compagni siano schiavi dei pregiudizi, delle menzogne e delle categorie “occidentali” applicate ad alcuni compagni che hanno dedicato la vita alla costruzione del socialismo. Nell'attesa però si ritiene che si possa mettere in stand-by questo passaggio, concentrandosi su un rinnovamento politico incentrato sulle figure teoriche e pratiche condivise di Marx-Engels, Gramsci e Lenin.

La terza domanda posta era: “è possibile trascendere dalle diversità culturali attuali tra chi si richiama al comunismo?”

A mio avviso la risposta è negativa. Purtroppo per molte individualità troppi orticelli non sono ancora stati spremuti fino in fondo, e l'impressione è che manchino le condizioni e le volontà per compierne la “collettivizzazione forzata”.

Occorre prendere atto che l'Italia oggi sta vivendo una fase di estrema instabilità politica, sociale, economica e culturale, con rischi di derive istituzionali e perdita della residua (già scarsa) sovranità popolare. In questo contesto vogliamo tentare di distruggere le poche forze rimaste sul territorio capaci di intercettare questo malessere di massa e diventare un argine per l'emergere degli autoritarismi? Vogliamo rinchiuderci per diversi mesi a tentare di costruire un soggetto politico nuovo dai caratteri ambigui e confusi, avviando una scommessa dagli esiti imprevedibili, e che nel frattempo ci lascerebbe totalmente indifesi e sguarniti di fronte al nemico? Oppure non sarebbe più saggio cercare di rafforzare il poco rimasto di esistente (e alludo in primo luogo al partito della Rifondazione Comunista, l'unica struttura rimasta presente con un minimo tessuto nazionale) lavorando in questa fase temporanea per un suo rilancio? Non però la riproposizione del PRC visto negli ultimi 20 anni, che ha mostrato tutti i suoi limiti in fatto di organizzazione, analisi e proposta politica, quanto piuttosto di un partito che sappia ripensarsi su basi radicalmente nuove (in realtà “vecchie” ma mai attuate, se non parzialmente: tornare quindi a Marx-Engels, Lenin, Gramsci) allargando la partecipazione a tutti i compagni e a quelle organizzazioni che sarebbero disposti ad abbandonare il proprio piccolo orticello per cercare di realizzarne uno più grande, utile ed efficiente.

Occorre ricordarsi che ricostruire è sempre più difficile che costruire, ma è un processo faticoso a cui non si può né si deve sfuggire. Si lascino perdere mirabolanti e avveniristiche soluzioni miracolose (qualcosa dovrebbero averci insegnato le lezioni storiche fallimentari di Occhetto e Vendola) e ci si metta al lavoro. Prima si inizia meglio è.

Ultima modifica il Domenica, 27 Ottobre 2013 22:18
Alessandro Pascale

Nato nel 1985, laureato in Scienze Storiche, lavoratore precario e aspirante professore di Storia e Filosofia con certificazione TFA già ottenuta. Tesi e tesine svolte su "Berlinguer e il compromesso storico", "Popular Music politica. Un'analisi storico-sociale sul contesto italiano", "Stalin e l'URSS (1922-1953)", valutate sempre con il massimo dei voti. Dal 2008 faccio militanza nel PRC tra Valle d'Aosta e Lombardia. Convinto che il 90% delle risposte del presente si trovino nello studio attento e ponderato del "nostro" passato.

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