Pillole dal Giappone #259 – Nuovi progressi per la pace nell'Asia del Nord-Est
Questione palestinese all'ombra di Argentina-Israele
Ha suscitato un certo clamore la decisione della nazionale di calcio argentina di non disputare un match amichevole con Israele che si sarebbe dovuto tenere lo scorso nove giugno, decisione giunta dopo che la ministra della cultura israeliana aveva suggerito lo spostamento della partita dalla città di Haifa a Gerusalemme.
La Terra promessa mancata׃ settant’anni dalla fondazione di Israele
Il raduno degli esiliati e la pace del popolo ebreo. Era questa nella tradizione ebraica messianica la principale speranza per gli ebrei di tutto il mondo. Un ideale fisso sempre rimasto al centro dell’immaginario collettivo di questo popolo, nonostante le esperienze di vita ebraica differente.
Verrebbe quasi da sorridere, se la situazione non fosse così drammatica, a ripensare a quanti, in occasione dell’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca, prevedevano un mandato in netta discontinuità con quello di Obama, all’insegna di una politica estera meno invasiva e di un totale interesse per le questioni interne agli Stati Uniti.
Attacco alla Siria: il déjà-vu di cui il mondo non aveva bisogno
Dopo due settimane di propaganda di guerra sul presunto utilizzo di armi chimiche in Siria, a cui hanno partecipato esponenti della sinistra parlamentare, è arrivato puntuale il bombardamento "umanitario".
Nella notte tra venerdì e sabato, statunitensi, francesi e britannici hanno scatenato un bombardamento di missili sul territorio siriano. La promessa di Trump, il suo "arriveranno" (i missili), è stata mantenuta. La Russia invece ha preferito non rispondere, almeno per ora. Vista l'alta densità di eserciti stranieri presenti in Siria il pericolo principale resta il possibile incidente, tanto più che l’amministrazione statunitense potrebbe non essere interessata a fermare l’escalation seguendo la scia di odio e volontà di dominio israeliana.
Quindici anni di guerra in Iraq. Il paiolo rotto
1988, Kurdistan Iracheno. Durante le battute finali della guerra con l'Iran, le forze armate di Saddam Hussein scatenano una campagna genocida contro curdi e assiri nel nord del Paese. La cittadina di Halabja viene attaccata con un gas tossico, forse gas mostarda o un gas al cianuro; l'attacco costa la vita a circa cinquemila persone, che si vanno a sommare ai più di centomila (il numero non verrà mai stabilito con precisione) morti dell'intero parossismo genocida. Nonostante l'evidente responsabilità del governo iracheno la CIA statunitense addossa – in una girandola di versioni – la colpa all'Iran.
2002, l'amministrazione Bush inizia l'escalation diplomatica che di lì a pochi mesi porterà all'invasione dell'Iraq.
Afrin ci interroga (2 di 3)
Siamo dentro a qualcosa che tende sempre più a essere una terza guerra mondiale
Grande è il disordine sotto il cielo; tuttavia, a differenza di quel che tendeva sempre a opinare Mao, la situazione non è per nulla eccellente, è un grande ingestibile disastroso casino. L’umanità rischia grosso, su più piani. Come al solito, cresce il ricorso a ogni forma di guerra.
Già ciò risultava chiaro a partire dagli interventi esterni sulla crisi siriana. Poi è diventato più netto e preoccupante quando al conflitto di più attori statali fondamentali (Stati Uniti, Regno Unito, Francia, in un secondo momento Russia) contro al-Qaeda/al-Nusra e contro Daesh e alla finzione turca di parteciparvi si è sostituito il conflitto, per interposti stati minori o gruppi armati loro alleati, tra Stati Uniti, loro partner occidentali e mediorientali, da una parte, e Russia, potere siriano, Iran, varie milizie sciite, dall’altra, più la Turchia per così dire in mezzo, più Israele in proprio.
Afrin ci interroga (1 di 3)
Die Toten mahnen uns, i morti ci interrogano, recita la stele che a Berlino sovrasta la tomba di Rosa Luxemburg e di Karl Liebknecht assassinati da soldati nazionalisti al servizio di un governo di destra socialdemocratica che aveva posto su di essi una taglia, “rei” di aver appoggiato un’insorgenza operaia.
Molto altro inoltre nel corso del Novecento e di questo primo scorcio di Duemila ci ha direttamente interrogato. In questo momento a interrogarci sono soprattutto i curdi, vittime storiche speciali della Turchia. Sono essi a sconvolgere le nostre coscienze, a contestarvi incertezze e opportunismi. Non solo i curdi, beninteso: ci interrogano e sconvolgono da gran tempo i palestinesi, abbandonati a un colonialismo israeliano che sta completando la conquista del loro territorio e della loro acqua, come ci sconvolgono i milioni di profughi mediorientali e di povera gente che fugge dall’Africa o dall’Afghanistan, o la persecuzione e massacri a danno di rohingya, mapuche e tante altre popolazioni in tutto il mondo.
Non è facile capire cosa fare di più adeguato, ma occorre inventarlo anche attraverso approssimazioni. Bisogna riuscire urgentemente a colpire, non solo a manifestare e a scrivere articoli. Ho letto l’appello al boicottaggio economico della Turchia, è una buona idea, si presta anche a iniziative popolari sul piano del turismo, dell’uso della compagnia di bandiera, dell’import di beni di consumo, di tessile, ecc. Bisogna denunciare pubblicamente i gruppi economici che investono (in altre parole, delocalizzano) in Turchia, commerciano con essa, ecc. Soprattutto occorre denunciare la vendita di armi a questo paese, cui prende parte anche l’Italia.
La guerra dimenticata: Afghanistan frontiera di un nuovo conflitto tra potenze mondiali
In questi ultimi mesi, il conflitto ripreso con violenza in Siria ha posizionato i riflettori di tutto il mondo sulla mezzaluna costiera del Medio Oriente.
Per quanto feroce sia lo scontro in atto tra l’esercito turco e la resistenza curda, il conflitto è ormai segnato: in Siria è stata adottata la politica del laissez-faire nei confronti delle mire espansionistiche della Turchia, uno degli attori principali e responsabili delle vicende nel teatro mediorientale di questi ultimi anni.
Le proteste in Iran: un tentativo di analisi
Il 28 dicembre a Mashhad, una città dell’Iran occidentale che conta circa due milioni di persone, è scoppiata una protesta spontanea destinata a diffondersi rapidamente e in maniera capillare in quasi tutto il paese, soprattutto nelle zone di provincia, mentre è rimasta più marginale nella capitale Tehran. La rivolta, che secondo alcuni giornalisti sembra sia stata organizzata inizialmente da gruppi ultraconservatori – i cosiddetti principialisti, frangia più estrema della “destra”, per usare una semplificazione – in opposizione al governo di Hassan Rouhani, ha preso una piega anti-sistema e trasversale contro tutto l’establishment politico e religioso iraniano. Le notizie che ci giungono dall’Iran sono poche e incomplete, il che rende difficile elaborare un quadro esaustivo e adeguato della situazione; ciò è dovuto anche alla censura apposta sulla stampa locale e all’oscuramento di alcuni social network. Le manifestazioni popolari, oltre ad essere silenziate mediaticamente sono state soffocate nel sangue dalle autorità, portando il drammatico bilancio a 22 vittime. Uno dei motivi di questa campagna repressiva è da ricercarsi anche nel fatto che il movimento di rivolta, privo di un’organizzazione e di una leadership che lo guidi, risulta totalmente esterno e ostile a qualsivoglia partito politico.
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