Il 1848 ad esempio fu un anno cruciale, non solo per la rivoluzione macroscopica europea, ma anche per il ruolo decisivo, ma come vedremo, molto contraddittorio da un punto di vista di reale felicità della politica, che ebbero le donne all’interno di quella stessa rivoluzione, e soprattutto durante il suo preludio, “sia in quanto voci e presenze reali, sia in quanto indispensabili incarnazioni – reali e simboliche – di una comunità nazionale presentata e vissuta come una «grande famiglia», genealogica e affettiva”1.
Non è lontano il concetto di felicità e il sentimento di felicità se leggiamo i diari lasciati da alcune protagoniste di quell’epoca, come si evince dalle parole di una giovane borghese di Pistoia, Anna Corsini che nel suo diario commentava così la festa per la guardia civica (6 settembre 18479) e quella “delle bandiere” a Firenze qualche giorno dopo: “Ieri è stato il più bel giorno della mia vita […] con quel trasporto univo la mia debole voce ad esprimere il tumulto del mio spirito… con qual entusiastico giubilo contemplavo le sventolanti bandiere, simbolo di unità e di vita… Che emozione poter finalmente confessare di avere una Patria, vedere abbracciarsi persone d’ogni ordine, dimentiche delle loro diverse condizioni sociali!”2
La stessa animazione la ritroviamo nella principessa Cristina di Belgioioso quando entra trionfante a Milano nell’aprile del ’48 sventolando una bandiera tricolore “alla testa di 200 giovani volontari napoletani vestiti ed armati a sue spese e che subito dopo, affacciatasi al balcone del palazzo del governo provvisorio per arringare la folla, sopraffatta dall’emozione e dalla felicità, non può far altro che scoppiare in un pianto dirotto.”3 La stessa Belgioioso non mancò però di sottolineare pochi mesi dopo, nella rivista milanese da lei fondata, finanziata e diretta, “Il Crociato”, la disparità e la sproporzione di quella liberazione che privilegia soltanto alcune classi mentre ne esclude delle altre: “«La libertà individuale puramente politica è favorevole solo alla liberazione di alcune classi privilegiate»; o meglio, anche in tale ambito, solo a chi poteva essere identificato come un individuo autonomo. E le donne – per definizione, prima ancora che per costumi e per leggi – non erano né individue, né autonome.”4
Non considerate nemmeno cives (ma semplicemente riconosciute come appartenenti alla comunità e in quanto atte a procreare futuri cittadini), nella lotta all’indipendenza e nel sentimento di appartenenza “in modo organico ad una comunità per il riscatto e la dignità di nazione”5 le donne poterono assaggiare “inusitati momenti di felicità”6. Naturalmente occorre mantenere diecimila cautele prima di poter parlare di felicità della politica relativa alle donne in questo contesto, “innanzitutto perché il loro coinvolgimento nel movimento rivoluzionario avviene sotto l’egida di alcuni suoi tratti decisamente premoderni – il carattere semi-teocratico degli inizi e la rilevanza del mito di Pio IX papa liberale e nazionale, ma anche il marcato municipalismo – che attirava le donne a sentirsi e a dirsi appartenenti alla civitas non in quanto titolari di diritti individuali, ma in quanto partecipi dei suoi privilegi e delle sue tradizionali libertà. Ma soprattutto perché la loro presenza era richiesta, agita e celebrata in nome di una idea di nazione intesa come organismo collettivo pregno di valori generativi e comunitari, anti-individualistici, vissuto come intrinseco e omogeneo ad altri corpi collettivi quali la famiglia e la patria: entrambe comunità di sangue e di territorio, di tradizioni e di destini. […] Le voci che ci giungono dal Quarantotto ripetono che le donne non sono fatte per la politica.”7
Tuttavia, quello che le donne istruite facevano nei primi decenni dell’Italia unita era comunque politico, sebbene ovviamente inserito in una cornice pre-moderna basata sulla triade Dio-patria-famiglia (introiettata dalla maggioranza delle donne) che più o meno indirettamente riconfermava il loro ruolo subalterno e marginale all’interno della società, o funzionale a determinati scopi. Le donne (borghesi e colte) facevano politica scrivendo su giornali e piccoli testi educativi, insegnando nelle scuole o in famiglia “le virtù di un patriottismo chiamato a privilegiare le modeste e umbratili stanze della quotidianità e non i fasti dei salotti e del successo […] e che all’orgoglioso […] linguaggio dei diritti preferiva – come le protagoniste stesse amavano ripetere – quello sommesso e impegnativo dei doveri da onorare”.
Qui, naturalmente il termine stesso di “politica” va preso con le pinze considerato appunto questo ruolo di pedagogia nazionale incarnata dalle donne che si presentavano ed erano presentate come madri modello o come insegnanti devote ai dogmi della religione e della patria. Anzi, paradossalmente (ma neanche troppo) questa investitura simbolica e pragmatica di “una missione cruciale come quella di affrettare con la loro opera educativa di base l’edificazione di un sentimento di comunità nazionale, di appartenenza alla grande patria italiana […] finì non solo per tenere lontane le donne italiane da altre sfere e modalità della politica, ma per favorire la loro duratura esclusione «dall’alto e dall’esterno» dai suoi luoghi e dai suoi rituali.”8 Restano tuttavia quei sentimenti di slancio e di felicità che almeno a livello spirituale hanno fatto sentire le donne pre e post unità d’Italia un po’ più protagoniste rispetto al silenzio cui erano relegate.
Nel corso del Novecento ci sono altri episodi in cui si riconosce un peso femminile, come quelli citati in apertura. Basterebbe ricordare la partecipazione in massa al Referendum del 1946 delle donne che per la prima volta poterono votare tra Monarchia e Repubblica e poco dopo, allo straordinario lavoro delle 21 donne (tra cui le famose Teresa Mattei, Nilde Iotti, Angelina Merlin) elette nell’Assemblea Costituente (certo, sempre poche rispetto ai 506 membri) che hanno contribuito, insieme agli altri padri costituenti a dettare le linee guida dell’assetto giuridico e socio-politico del nostro stato, dimostrando un impegno costante per far emergere la parità tra i sessi, in ogni ambito della vita pubblica e privata, come chiarisce l’articolo 3, che all’epoca fu davvero dirompente: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Parità di genere che è ribadita con fermezza, soprattutto per volontà delle donne elette nell’Assemblea, in diversi altri articoli, come nell’articolo 29 che riconosce l’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi, nell’articolo 37 – importantissimo – sulla parità di diritti nel mondo del lavoro (“La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore”), nell’articolo 48 sul diritto di voto esteso a tutti i cittadini, uomini e donne, e che abbiano raggiunto la maggiore età, o nell’articolo 51 che concede anche alle donne l’accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive.
Sempre rimanendo nel panorama storico del dopoguerra, possiamo anche ricordare l’attività politica nel secondo dopoguerra del gruppo dei giovani comunisti che qui filtriamo attraverso le testimonianze autobiografiche della militante Luciana Castellina, la cui vicenda e la cui figura “sembrano incarnare perfettamente il tipo ideale della «felicità della politica», mostrandone al tempo stesso la collocazione storica delimitata e contestuale. La cornice storica è infatti di grande importanza: la fine della Seconda guerra mondiale, il passaggio dal fascismo a un nuova libertà, e l’ondata di vitalismo ottimista del dopoguerra segnano il quadro. Non siamo dunque di fronte a un’esplosione di vitalità politica che segue un ciclo di ripiegamento nella felicità privata, ma alla reazione collettiva alla fine di un mondo, materiale e valoriale, pubblico e privato, preesistente, e a una risposta ai suoi errori distruttivi.”9
Nell’autobiografia della Castellina è tangibile il moto di felicità che la sua azione politica, inserita in una collettività politica fortemente connotata, le dava modo di provare: “le parole del suo diario di adolescente rivelano un ciclo di avvicinamento alla politica che culmina in un esplicito riconoscimento della propria felicità, dirompente soprattutto nel racconto di un incontro internazionale della gioventù comunista, nel cui ambito partecipa come un uomo alla costruzione di una ferrovia nella Jugoslavia di Tito, fiera del suo immenso sforzo.”10
Questo è un esempio limitato ma rappresentativo di un legame tra politica e felicità vissuto non solo dagli uomini di quel periodo ma appunto anche dalle donne e inserito all’interno di un progetto politico come quello comunista che ebbe la capacità di plasmare in maniera totalizzante la vita pubblica e al contempo privata del gruppo di giovani comunisti e comuniste, il cui impegno si radicalizzò ancor di più negli anni cinquanta e sessanta. È infatti nel ’68 che possiamo trovare un altro modello di felicità della politica relativo anche a una larga partecipazione femminile – “significativo il dato citato da Luisa Passerini secondo cui nel marzo del 1968 la percentuale di giovani donne sugli studenti denunciati per aver partecipato alle manifestazioni fu del 34,5, una quota altissima rispetto all’abituale partecipazione femminile alla politica tradizionale.”11
L’innovazione politica portata dalla generazione che nel ’68 aveva vent’anni fu “la politicizzazione della totalità delle sfere di vita, dal privato al pubblico, che implicò per le giovani donne una netta rottura col passato; la politica entrò nella loro vita sessuale e familiare, ancora regolata da norme morali rigide e segreganti.”12 La frattura col passato fu infatti per le ragazze ancor più radicale rispetto a quella percepita dai coetanei maschi e la sua intensità fu particolarmente evidente proprio nell’intima dimensione del corpo fino a quel momento sotto controllo della famiglia o dai partner ed escluso dagli spazi e dai momenti di socialità pubblica riservati alla sola sfera maschile: “partecipare alle lotte universitarie significò invece scoprire un mondo nuovo, in cui la libertà era insieme privata e pubblica, e legittimata da una nuova visione della società.”13 Legittimazione da parte dei loro pari, che fu fondamentale per le giovani donne che si sentirono libere di assumere un comportamento privato e pubblico simile a quello degli uomini e libero dai condizionamenti delle fonti di autorità morale (chiesa, genitori, scuola…).
Pur rendendosi simili nella propria liberazione dei corpi e della propria sessualità ai maschi, quella fase di cambiamento e trasformazione delle proprie condizioni, delle proprie libertà e del proprio ruolo sociale agita e vissuta da parte delle donne fu nella loro percezione così dirompente e maggiore rispetto a quella dei loro coetanei che presto si concretizzò in una netta contrapposizione rispetto a questi ultimi. “Vi fu una divaricazione fra i ragazzi e le ragazze, che avvertirono dopo pochi anni il peso di questa diversità, contrapponendosi negli anni settanta, oltre che ai genitori, ai coetanei maschi. La nascita del femminismo secondo Anna Rossi Doria diede luogo a «una rarissima stagione di felicità pubblica».”14
Non basterebbe poi una pagina intera per citare tutte le riflessioni, le nuove teorizzazioni, le battaglie e le conquiste intraprese dalle donne negli anni che attraversano tutti gli anni ’70, pertanto ci limiteremo a menzionare soltanto alcuni dei passaggi legislativi più importanti. Alla base di queste battaglie sociali e di conquiste legislative vi è un cambiamento culturale enorme, senza il quale non sarebbe stato possibile garantire il dovuto impatto su una legislazione che allargava i diritti alle donne. Come spiegava Montesquieu nel 1748 “affinché la legislazione possa avere un impatto sulla società deve sempre essere accompagnata da numerose azioni sociali ed educative”. È avvenuta dunque una trasformazione culturale che prima di tutto ha portato alla presa di coscienza che «il personale è politico» e che il controllo sessuale e sociale che il dominio maschile esercita sui corpi della donna investe tutte le sue sfere, prima private e poi pubbliche, relegandola a ruoli di subalternità e marginalità; il rifiuto della società patriarcale e dell’oppressione della donna; la liberazione del proprio corpo e della propria sessualità.
Questa nuova percezione di sé stesse e della società in cui esse vogliono incidere attivamente han portato ad alcune delle conquiste più significative per tutte le donne, conquiste che mai andrebbero rimesse in discussione o aggirate in maniera subdola e ipocrita per ostacolarne, di fatto, l’applicazione. Tra questi traguardi possiamo citare il diritto al divorzio, sancito nel 1970 dalla legge Fortuna-Baslini e riconfermato al referendum abrogativo del 1974; la legge del 1975 sul diritto di famiglia che ribadisce che i coniugi sono uguali di fronte alla legge, che i diritti dei figli nati fuori dal matrimonio sono gli stessi di quelli dei figli legittimi e che finalmente abolisce la patria potestà e afferma la condivisione del patrimonio familiare attraverso la comunione dei beni; il diritto alla «parità di trattamento tra uomo e donna» in ambito lavorativo, come recita la legge 903/’77 (“È vietata qualsiasi discriminazione fondata sul sesso per quanto riguarda l’accesso al lavoro […] la lavoratrice ha diritto alla stessa retribuzione del lavoratore […] È vietata qualsiasi discriminazione fra uomini e donne per quanto riguarda l'attribuzione delle qualifiche, delle mansioni e la progressione nella carriera […]”) emanata da Tina Anselmi, prima donna a diventare ministro nel 1976 e approvata dal Senato l’anno successivo; infine, una delle conquiste più importanti e combattute per le donne e per la loro libertà di scelta e di uso autonomo del proprio corpo quale fu il diritto all’aborto, ottenuto a gran fatica nel 1978.
Oggi non siamo più abituati a pensare in termini di cambiamento sociale e di lotta collettiva, avviliti e rassegnati di fronte a un malessere sociale e personale che ci impedisce di immaginare orizzonti politici diversi e nuovi sistemi di pensiero, di costruire nuove narrazioni, di incidere sul reale, così deprimente, attraverso un’azione che divenga davvero collettiva e radicale. Ci sentiamo agiti e incapaci di agire, disincantati da una politica che ha perso ogni suo valore, ogni sua aura positiva e da cui sempre più persone rifuggono, isolandosi nel proprio ovattato microcosmo o cercando appiglio nel populismo becero che cavalca e strumentalizza il loro scontento o scaricando odio e violenza su altri individui.
“Parlare di felicità, soprattutto di felicità della politica potrebbe sembrare piuttosto singolare in un contesto in cui, sia a livello nazionale sia a livello globale la politica […] sembra arrivata alla sua fine, incapace di dare risposta alle istanze provenienti da processi di trasformazione epocali che stanno producendo sempre più infelicità, dolore e sofferenze: impoverimento collettivo, grandi diseguaglianze sociali ed economiche, ripresa di forme di autoritarismo, violazione dei diritti umani, senso pervasivo di insicurezza […]. Altri sono i termini, quindi, che associamo al termine politica: inadeguatezza, incapacità di rappresentare il bene comune, di assolvere al compito di garantire giustizia, uguaglianza, libertà. Tutt’al più la politica viene intesa come «tecnica della politica».”15
Ma allora è forse proprio in questi tempi che dobbiamo riscattare la politica, contro la sua brutalizzazione, contro chi ne fa una bandiera per perseguire obiettivi di disgregazione sociale costruendo fittizi nemici interni e alimentando odio, razzismo, sessismo, violenza. A pochi giorni dai risultati elettorali è infatti difficile vedere spiragli di felicità della politica ma forse, a maggior ragione, proprio per questo, dobbiamo riscoprire la reale dimensione politica delle nostre esistenze e delle nostre azioni e relazioni umane, che non si limita solo alla rappresentanza di governo (qualsiasi esso sarà) ma che si esplica anche nella riscoperta della partecipazione, del restare attivi e vigili contro qualsiasi forma di violenza, non solo fisica ma anche sociale, psicologica e politica appunto. Riscoprire l’importanza della partecipazione e della lotta significa non rimanere spettatori passivi e quindi indiretti complici di quello che ci accade intorno.
Il movimento globale delle donne (ma che, come abbiamo detto, non comprende né riguarda soltanto loro) dimostra proprio questo, “l’importanza dell’agire collettivo come elemento di trasformazione e, perché no, anche di rivoluzione, intesa come processo che non solo spazza via forme di oppressione e schiavitù, ma è anche in grado di ispirare immaginazione politica, ampliare lo spettro dei diritti e dei desideri, allargare le forme della partecipazione politica e del riconoscimento delle soggettività individuali e collettive. […] La politica, dunque, come terreno e strumento di felicità pubblica.”16
1 S. Soldani, Per un lessico dei sentimenti della politica. Le donne nel Regno d’Italia, in Felicità della politica, politica della felicità. Cittadinanza, giustizia, benessere in una visione di genere, a cura di E. Asquer, A. Scattigno, E. Vezzosi, Eut Università di Trieste, Trieste 2016, p. 33.
2 Ibidem, cit.
3 Ibidem.
4 Ivi, p. 35.
5 Ivi, p. 34.
6 Ivi, p. 36.
7 Ivi, p. 34.
8 Cfr. M. Meriggi, Privato, Pubblico, Potere, in Innesti. Donne e genere nella storia sociale, a cura di G. Calvi, Viella, Roma 2004, pp. 39-51.
9 A. Pescarolo, Passione politica e felicità privata nell’Italia del secondo Novecento, in Politica della felicità, felicità della politica, op. cit., p. 51.
10 Ibidem.
11 Ivi, p. 53.