Sull'episodio che 7 anni fa fece molto scalpore vennero scritte canzoni, numerosi articoli, inchieste e vennero girati persino alcuni servizi televisivi. Oggi siamo al silenzio. All'accettazione passiva del lavoro schiavistico che non è più marginalmente rinchiuso nelle campagne adiacenti ai luoghi di sbarco della manodopera.
Il salto quantitativo del lavoro schiavistico viene ormai percepito anche al Nord, dove si possono chiaramente notare delle figure ectoplasmatiche aggirarsi in mezzo alla nebbia, incappucciate e avvolte in stracci, intente ad operare nei campi, con scarpe logore, senza guanti, pagati a cottimo e militarizzati da schiere di caporali.
Vita e lavoro
Dal Primo Rapporto su agromafie e caporalato realizzato dalla Flai Cgil a cura dell’Osservatorio Placido Rizzotto emerge un quadro raccapricciante di degrado delle condizioni lavorative nel nostro paese. Anzi, definirle condizioni lavorative è etimologicamente sbagliato, poiché sono vere condizioni schiavistiche: “circa -50% della retribuzione prevista dai contratti nazionali e provinciali di settore, con un salario giornaliero che sfiora a stento i 25 Euro per una media di 10-12 ore di lavoro”.
Come sempre il lavoro agricolo è scandito dai ritmi delle stagioni e la vita degli schiavi diventa quindi una vera e propria “transumanza”: vivono sotto tendoni come profughi o accucciandosi in vecchie abitazioni diroccate. Usati da un traffico silenzioso di carne umana si spostano per il paese a seconda ci sia la raccolta delle arance a Rosarno (RC), dei cocomeri a Nardò (SA) o delle pesche e dei kiwi a Saluzzo (CN). Lavorano d'inverno con le temperature sotto zero e d'estate con 40 gradi all'ombra, sottoposti ad ogni tipo di sfruttamento: dalla violenza sessuale, alle percosse, all'omicidio. La barbarie dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo si materializza nelle forme più estreme e i padroni non si fanno mancare proprio nulla. Per evitare ribellioni utilizzano i caporali che reclutano direttamente nei paesi d'origine dove spesso le famiglie dei migranti vengono minacciate. Sono 700.000 le persone interessate di cui - sempre secondo le stime dell'ultimo rapporto Flai Cgil - almeno 400.000 in regime di caporalato. Le Regioni interessate sarebbero 14 e 65 province, con una quarantina di epicentri ad alto tasso di sfruttamento lavorativo.
(Mappatura: http://www.slideshare.net/ilfattoquotidiano/caporalato-mappe)
I Padroni
Ad una prima occhiata sembra di essere tornati alla servitù della gleba, ma approfondendo gli studi si capisce chiaramente che la filiera dello sfruttamento è lunga e che i padroni non sono feudatari, ma Corporations. Questi ragazzi non sono legati alla terra di un rentiers, ma sono sottoposti a sfruttamento da multinazionali che li usano a seconda delle richieste del mercato: prima li affamano nelle loro terre d'origine, costringendoli ad affollare con le carrette un Mediterraneo gonfio di morte e disperazione, e poi li usano, come strumenti, da spostare da baracca in baracca. Il salario di questi non-cittadini perde ogni collegamento con l'art.36 della nostra Costituzione e di conseguenza l''uomo lavoratore arriva a perdere la “dignità” e la propria “esistenza libera”. Il sindacato non si concepisce neppure nelle più fervide fantasie dei lavoratori, poiché i caporali esercitano il più ferreo controllo, disperdendo e punendo chiunque si accinga anche solo ad associarsi e a solidarizzare.
I lavoratori che riescono ad unire le forze e ad avanzare le più timide rivendicazioni vengono licenziati e rapidamente sostituiti, tramite il sistema di reperimento facile della manodopera che garantisce il caporalato legato alla mafia internazionale. È, ad esempio, il caso di quanto accaduto quest'estate a 40 braccianti delle Aziende Agricole Lazzaro di Castelnuovo (AL) che chiedevano semplicemente di essere pagati per il lavoro già svolto, non rivendicavano nemmeno il salario sindacale, ma il sotto-salario pattuito: “4 euro all'ora per una lunga giornata di lavoro di tredici ore, senza garanzie e senza tutele”.
Il lavoro, tratto comune di tutte le migrazioni viene così umiliato a mero sfruttamento. Le rivendicazioni e il desiderio di avanzamento sociale arrivano solo in un secondo momento e non sempre. In un contesto di assenza del welfare anche per chi gode dello status di cittadino, rischia di essere deviante continuare ad associare gli immigrati a concetti astratti come accoglienza e integrazione. L'assenza dei diritti è una condizione barbara alla quale siamo sempre più sottoposti tutti quanti, cittadini e non, a tal punto che è ormai stato coniato il termine “post-democratico” proprio per descrivere la condizione di chi – circa il 75% delle nuove generazioni al lavoro – vive dovendo pregare il proprio salario e i propri diritti. Infatti, etimologicamente, il precario è colui che implora il proprio padrone per ottenere delle concessioni. La dignità del lavoro e del lavoratore, come si può facilmente intuire, viene calpestata oltre ogni limite, ossia al punto da mettere in discussione la stessa base sociale della democrazia. L'altro lato di questo arretramento complessivo della democrazia arriva dalla dismissione della dimensione pubblica dello Stato, dovuta all'annientamento delle funzioni di welfare, che fa venir meno la principale giustificazione del prelievo fiscale e di conseguenza ogni istanza redistributiva. La democrazia diventa così un sistema anomico che si ripercuote sulla base sociale con l'assenza di diritti. Il cittadino stesso è ridotto a suddito, mentre il lavoratore è merce. I diritti in questo quadro non sono contemplati. La solidarietà diventa allora il fenomeno pericoloso che attiva uno stridente contrasto con la concezione capitalistica della mercificazione del lavoratore, fa emergere l'uomo e assopisce l'automa, dunque va stroncata.
Ad esempio, in Francia il governo Sarkozy, incalzato da Le Pen, è arrivato a introdurre il "reato di solidarietà", una misura che introduce il carcere fino a 5 anni per chi aiuta un migrante irregolare. È dunque evidente la volontà politica opposta all'integrazione, ossia rivolta alla ghettizzazione. D'altra parte il muro invisibile è ben rappresentato dalle favelas che da Rio a Bombay affollano le principali metropoli dei paesi emergenti e che rivelano il problema dello squilibrio dello sviluppo economico, elevandolo a paradigma di ciò che accade a scala più generale nel globo.I migranti, cuore del sistema produttivo, restano ai margini della società, della politica e del tessuto urbano, vivendo degli scarti di ciò che producono per altri.
La contraddizione tra ciò che i lavoratori migranti producono nei paesi più ricchi e le condizioni di vita che vengono loro riservate è la misura dello sfruttamento che viene esercitato e mantenuto da una logica ispirata a politiche migratorie che prevedono la militarizzazione dei confini.
Dal punto di vista normativo, il meccanismo che lega formalmente ingressi e contratti di lavoro spesso impone il lavoro a tempo indeterminato come premessa per la regolarizzazione, diffondendo l'uso della `clandestinità` come risorsa indispensabile per avere braccia a basso costo non sindacalizzabili. Così, l`ossessione securitaria che accomuna l'intero occidente a cosiddetto “capitalismo sviluppato”, diventa l'arma principale per instaurare il sospetto e le divisioni tra la popolazione, creando una solida base di partenza su cui instaurare il sistematico annullamento dei diritti lavorativi e sindacali. Dai messicani sfruttati in Texas agli africani in Italia la logica resta identica: il lavoro migrante è la base della crescita economica, il motore della produzione di merci e servizi che non viene riconosciuto, ma solamente sfruttato. Riconoscere questo motore vorrebbe dire mettere a rischio la possibilità di sfruttamento della manodopera salariata, un errore non concepibile dopo i rischi corsi nel '900.
Immagine tratta da liminalvision.wordpress.com