Il libro entra in polemica diretta con chi ritiene il web 2.0 uno strumento di libertà: una posizione propria dell’amministrazione Obama ma lambita anche dalle organizzazioni che ruotano attorno a Bush jr., che nel libro ritroviamo nelle vesti di pensionato filantropo ancora attivo nel campo dell’exporting freedom.
In alcuni residui della sinistra italiana si rischia spesso di finire per demonizzare i social network, denunciando presunti complotti tesi al controllo delle nostre vite. In una larga parte dell’opinione pubblica è invece egemone la certezza che internet sia portatore di capacità taumaturgiche. L’Italia è quindi decisamente parte di quella illusione collettiva che Morozov vuole denunciare, con alcune peculiarità a cui l’autore ovviamente non si riferisce (su tutte il successo del Movimento 5 Stelle, legato alle tragicomiche visioni futuristiche della Casaleggio Associati - vedi video qui).
Il libro ha seguito a stretto giro le proteste in Iran del 2009-2010 (quella che i media hanno chiamato Rivoluzione verde) e fa spesso riferimento a questi eventi per denunciare il livello di superficialità con cui si analizza l’impatto delle nuove tecnologie rispetto ai processi reali (sia globali che nazionali). Le contestazioni all’allora primo ministro iraniano Ahmadinejad hanno registrato una presa di posizione ufficiale da parte del dipartimento di stato USA a favore di Twitter, così come a sostegno di questo strumento si è schierata la quasi totalità dei mezzi di informazione italiani. Morozov spiega che nel 2009 solo lo 0,027% degli iraniani risultava iscritto ufficialmente alla piattaforma.
“Se un albero cade nella foresta e tutti lo twittano, è possibile che non siano stati i tweet a farlo cadere”. Se i social network sono stati utili per riportare le notizie all’esterno, questo non significa che sia un loro merito quello che è accaduto. Anzi, le nuove tecnologie possono essere utili ai “regimi” per aumentare l’efficacia del controllo e della propaganda. La Russia e la Cina sono esempi che ricorrono frequentemente, per illustrare casi concreti in cui internet è utile a quei “nemici” che l’Occidente dichiara di voler combattere a suon di blog e Google.
“Il problema maggiore dell’attuale concettualizzazione della libertà di internet è che essa è legata a una lettura trionfalistica della fine della Guerra fredda. […] Il fatto che la fine del comunismo dell’est abbia coinciso con l’inizio di una nuova fase della rivoluzione dell’informazione in Occidente ha convinto molta gente che l’una avesse provocata l’altra”.
Morozov insiste nel denunciare come l’illusione della fine della storia abbia frammentato ulteriormente il sistema politico, ridando aria e spazio a nazionalismi e identità religiose, all’opposto di quello che si pensava sarebbe avvenuto con la globalizzazione.
Non si teorizza la neutralità dello strumento, anzi si ritiene illusoria questa posizione. Si invita a ragionare su quali sono i rischi della diffusione incontrollata di internet. Viene usato uno degli esempi canonici: con un coltello si può uccidere o intagliare il legno, dopo debita valutazione nelle scuole si è scelto di non lasciare alla discrezione degli studenti la possibilità di fare cattivo uso del mezzo. Sono le classiche questioni legate ai dilemmi sulle nuove tecnologie applicate all’ambito specifico del web. Siamo abituati a interrogarci sulla bioetica (in Italia in realtà nemmeno molto) ma quasi mai si estendono tali riflessioni a internet.
I toni del libro talvolta sono apocalittici: “uno strumento non regolamentato nelle mani di gente che si fida troppo di se stessa è l’anticamera di un disastro”, ma la demistificazione di numerosi luoghi comuni si rivela essenziale.
Se è vero che “la tecnologia cambia in continuazione, la natura umana quasi mai”, se è vero che “anche la mafia e i giri di prostituzione sono reti sociali”, si rende necessario ragionare del web come di uno tra gli strumenti a disposizione, senza dimenticarsi le enormi potenzialità che ha aperto, anzi partendo proprio da una valutazione equilibrata di queste. Non sono questioni nuove. Qualità taumaturgiche sono state attribuite in passato anche al telegrafo e alla televisione, poi ai cellulari (la fine delle divisioni nel mondo e la nascita di una nuova società).
Tra le qualità maggiori del libro c’è la debolezza delle argomentazioni di Mozorov in difesa del mondo occidentale, che permette di mettere da parte le sue opinioni dal resto dei ragionamenti. Non si capisce bene perché se internet si presta come instrumentum regni per il governo cinese, i legami tra la Silicon valley e la Casa Bianca debbano ritenersi non sistematici. In particolare è curiosa la critica che viene mossa a Chàvez, accusato di fare propaganda e di aver accettato Twitter come terreno di sfida per misurare ulteriormente il proprio consenso. Insomma Mozorov non convince nella difesa del sistema capitalista, come modello democratico da esportare, e in realtà nemmeno ci prova. Il suo obiettivo è contestare il cyber-ottimismo e l’internet-centrismo che sono egemoni nella politica statunitense (e anche in quella di buona parte del vecchio continente). La società civile, i nuovi mezzi di comunicazione, l’allargamento dei processi decisionali non stanno producendo un avanzamento effettivo della democrazia e anzi stanno aumentando i rischi di populismo.
Nel paese di Berlusconi, Grillo e Renzi un libro che riflette sugli effetti della comunicazione dopo la caduta del Muro di Berlino è prezioso, soprattutto se scritto da un conservatore anticomunista capace di coniare espressioni efficaci quanto geniali.
“La decentralizzazione crea più punti di influenza sul discorso pubblico che, a certe condizioni, possono fare in modo che sia più facile ed economico instillare certe idee nelle persone”.