Detto questo, l’idea di risvegliare o per lo meno tentare aprire gli occhi – sul mondo, su sé stessi e sugli altri e non su uno schermo di un telefonino – non mi sento di rigettarla e anzi la condivido. Naturalmente non condivido i mezzi con cui il Blocco Studentesco ha rivendicato il suo gesto, perché il risveglio non può mai avvenire tramite la violenza, la messa in ridicolo, la superiorità respingente, lo snobismo distaccato di chi si crede anni luce al di sopra di questa mandria di addormentati o anestetizzati. Anche io credo che ridestare certe menti assopite sia necessario, ma non è così che si rianimano gli individui, anzi, semmai si ottiene l’effetto opposto perché, inevitabilmente e aggiungerei giustamente, si passa dalla parte del torto, mantenendo ancor di più questa folla nella loro soporifera alienazione, tutta votata ai suoi sogni virtuali. Semmai, la cosa che si ottiene è di renderla una martire innocente che ha dovuto subire la vessazione alquanto brutale e meschina di chi dall’alto della sua presunzione le ha lanciato uova addosso. Non è tirando uova e farina che si può sperare in una presa di coscienza, o meglio, che si può un minimo concretizzare la volontà di far prendere un po’coscienza coloro che immaginiamo un po’ovattati, fuori dal mondo, assenti, sempre più vuoti e conformati, sempre più estraniati dalla realtà vera per rifugiarsi in un mondo virtuale privo di contatti profondamente umani, fisici, contatti che siano tatti e non solo touch – scream, condivisione che sia più con che visione.
Abbiamo persino perso il valore di questi termini: oggi condividere significa mettere una foto su face book e taggarci gli amici, partecipare significa andare a un evento diffuso sui social network, apprezzare vuol dire mettere un “mi piace” su una frase scritta su uno schermo, fare amicizia, che era qualcosa che avveniva in maniera graduale, con un po’di diffidenza, curiosità, entusiasmo, eccitazione, timidezza, complicità, solidarietà ecc.., ora si riduce molto spesso alla quantità di “amici” che riusciamo a mostrare sulla nostra bacheca e a quanti click ci fanno sui nostri post. Che ne è stato dei veri rapporti umani, che ne è stato del nostro linguaggio – buona pace al povero Nanni che invano si è sgolato per farci capire che “Le parole sono importanti!!” – della nostra stessa intimità, del nostro stesso spazio interiore, che ora di interiore non ha più nulla, ma è diventato solo spazio da affollare il più possibile invitando amici a guardarlo, a condividerlo, ad apprezzarlo o criticarlo, a commentarlo, a ripostarlo, a fotoshopparlo! Il nostro spazio interiore è la nostra bacheca, la ricerca di una privacy ha lasciato il posto alla ricerca di notorietà, di pubblicità, i nostri segreti devono esser sulla bocca di tutto, i nostri rapporti lasciati svolazzare ai quattro venti, dobbiamo mostrarci sempre e comunque e se quello che mostriamo è solo la nostra immagine e non la nostra essenza, è il fenomeno e non il noumeno per dirla con Kant, poco importa, perché probabilmente, ormai tra le due cose il confine è diventato così labile che non si sa più se l’immagine è anche l’essenza o se la nostra essenza sia solo una vuota immagine, o, tanto per ingarbugliarci con le parole, come amava fare Derrida con qualche suo ermetismo un po’ sofistico, per quanto abilissimo, se l’immagine è immagine di immagine e non di essenza genuina e reale... E si potrebbe continuare così: quale realtà, immagine della realtà, o piuttosto e più probabilmente, realtà dell’immagine, che forse è l’unica cosa che oggi sembra così reale e quasi tangibile?
Ma bando al linguaggio, al dialogo, alla dialettica, alle tautologie, alla sofistica, alla filosofia, alla lettura, alla scrittura..sono tutte cose anacronistiche, sorpassate, preistoriche, retrò, sudano passato morto e quasi sepolto da tutti i pori... Il futuro è tutto dischiuso dentro il magico schermo dell’ultimo modello Iphone e l’universo infinito che straborda e si spalanca da ogni sua intelligentissima e all’avanguardia funzione!Il futuro – anzi il presente – è questa fila immensa di persone che si alzano alle 5 di mattina per entrare per prime a comprare il nuovo miracoloso imperdibile oggetto. So che la mia è banale retorica che proviene da chi ha vissuto in una generazione precedente e ha conosciuto la bellezza delle prime pagine di carta che si cominciano a sfogliare e che tutt’ora preferisce continuare ad annusare e palpare le pagine di un libro piuttosto che fossilizzare i propri occhi su un e-book, che ha sentito il suo cuore battere quando ha avuto uno walkman in regalo, che adorava giocare fuori in giardino con altri bambini, o passare ore a chiacchierare con le compagne delle medie, che ha strabuzzato le orbite degli occhi quando ha visto il computer e ancora combatte nel tentativo di usarlo per bene, che si è smarrita più volte camminando o guidando perché non possedeva un telefonino con il navigatore incorporato, che non ha avvertito l’ansia di mandare mille messaggi ogni secondo su WhatsApp o guardare Facebook o mail ogni tre minuti... Insomma forse il mio è solo lo sfogo nostalgico di chi non accetta fino in fondo o non riesce perfettamente ad adeguarsi alla corsa frenetica del tempo e alle sue innovazioni tecnologiche continue, di chi preferisce vivere all’interno di cose e persone reali, che non di trasportare l’intera esistenza e tutti i rapporti umani, sociali, comunitari che essa comporta, all’interno di uno schermo, di una tastiera, di un social network, di una chat. Ma per quanto riconosca il mio limite nel non riuscire a concepire come si possa fare una coda di una giornata per avere un telefono – un telefono!! – o nel sentire bambini di 5 anni che parlano di WhatsApp o simili e che fanno i giochi facendoli fare a una funzione di un’ I Phone, dimenticando persino cosa mai sia quel misterioso gioco dal nome “nascondino”, un po’di amarezza mi rimane.
Un po’ di amarezza e anche un po’ di tristezza forse viene nel vedere folle che si animano per qualcosa che in fondo è solo materiale – per quanto evoluto, non lo metto in dubbio – ma che non dimostra la stessa partecipazione riguardo a eventi, situazioni, vicende che a me sembrano di gran lunga più importanti. Mi viene un po’ di ansia se penso che i bambini che crescono oggi a malapena si renderanno conto della bellezza di una giornata all’aperto, della lettura di un libro cartaceo, di una conversazione a quattr’occhi senza stare di continuo a spappolare su un telefono o a messaggiare a distanza piuttosto che guardandosi in faccia. Anche il sublime fascino della scrittura, della calligrafia probabilmente andrà sempre più estinguendosi; così come la creatività, l’inventiva, l’acume mentale, la prontezza del ragionamento, l’esercitazione della memoria, lo spremersi delle meningi..certo, questo è ancora – per fortuna – possibile, ma ho paura che bambini che crescono con un cellulare iper-tecnologico che fa tutto al posto loro prima di imparare a scrivere o a fare le addizioni temo che anche la loro capacità di apprendimento e di ragionamento potrebbe risentirne un po’. Così come la capacità di socievolezza, di comunione, di affinità elettive: tutti vanno bene perché tutti appartengono al magico mondo della telefonia e dell’elettronica, perché tutti sono su fb e con tutti possiamo condividere le stesse identiche cose, perché tutti usiamo le stesse espressioni, le stesse micro-paroline del linguaggio informatico/tecnologico.
Ed è questo che più di tutto mi spaventa un po’. Che via via si perda il contatto con il mondo, con la realtà, con quello che succede, con l’esistenza vera perché si è catturati dentro una realtà virtuale, in cui si, forse molto più oggi che prima, c’è possibilità di farci entrare dentro il mondo esterno, anche quei posti e quelle persone, quelle situazioni che sono mille miglia lontane dalla nostra, ma il rischio è di non sentirlo. Lo facciamo entrare ma non lo sappiamo fare nostro, perché è un po’scontato, perché tanto noi siamo al rifugio dentro il nostro mondo di celluloide e per quante brutture e ingiustizie esistano nel mondo, in fondo, tutto ciò diventa una quasi inezia se posso avere l’ IPhone 6. La mia non vuole essere un’invettiva contro l’avanzare del mondo moderno, contro i progressi della tecnologia, dell’elettronica... Tutt’altro! Dico solo che un conto è il progresso scientifico, un conto è ritrovarsi un paese di persone che sfilano dall’alba per avere il telefono e poi rimangono immobili di fronte a problemi o valori di maggior importanza. Un conto è l’adeguarsi consapevolmente e magari anche un po’criticamente al cambio sempre più veloce dei tempi, un conto è adagiarvisi passivamente e quasi inconsciamente, naturalmente, senza un minimo di consapevolezza di quello che (ci) sta succedendo. Sembra che ciò che accade sfiori gli schermi da cui guardiamo il mondo ma non entri nelle nostre teste, nel nostro sentire, perché pian piano sembra quasi che non sentiamo più, che ci stiamo un po’svuotando, che i nostri cervelli e le nostre vengano sostituite da qualcosa che senza che ce ne accorgiamo ci trascende e ci controlla, come se fossimo un po’posseduti da questa follia virtuale che ingloba, chi più chi meno, un po’ tutti quanti, come se pian piano diventassimo un po’ schiavi di questi oggetti di cui non riusciamo a fare a meno neanche mentre siamo a prendere un caffè in compagnia.
La rete è stata una meravigliosa invenzione e h saputo creare quasi miracoli, ma non dobbiamo rimanerne prigionieri. Il mondo è anche fuori, il mondo grida e non ci sono commenti su Facebook che possano placarlo, ma azioni concrete, a partire da piccole azioni quotidiane ma vere, reali. Facciamo la fila per batterci contro palesi ingiustizie, facciamo la fila per urlare contro chi umilia il lavoro o la dignità umana, scendiamo in strada non per comprare un telefono ma per lottare contro chi vuole cancellare i diritti, contro chi nega le libertà individuali, contro chi abusa del nostro pianeta e lo distrugge, contro chi usurpa le nostre vite, contro chi ammazza in nome della religione o del profitto economico, contro i razzismi e le intolleranze, di qualsiasi tipo siano, contro ogni violenza su umani, animali e natura. Facciamo la fila per dire che ci siamo, che siamo attivi e che vogliamo vivere – e non guardare da uno schermo – un mondo più giusto, un’esistenza più dignitosa per tutti. Mi rendo conto della vuota retorica di queste parole, ma credo che davvero abbiamo bisogno di svegliarci un po’, non con uova e farina ma con una presa di coscienza e lucidità che ci faccia rendere conto della realtà nel suo complesso, in tutte le sue sfaccettature. Poi si è liberi di decidere se l’unica rivoluzione possibile sia quella di sprofondare dentro le meraviglie dell’ IPhone6 o se già una piccola ribellione possa esser quella di mettere il naso fuori e alzare gli occhi dal telefono per guardarsi intorno e scoprire che non bastano un dislike o un like per render conto della bruttura o della incontenibile bellezza di ciò che ci circonda, dei palazzi, dei giardini, dei paesaggi, delle librerie, della meraviglia di altri esseri umani che si possono toccare, abbracciare, che ci possono arricchire condividendo l’aria che filtra dalle loro parole, che ci possono incantare con il loro profumo, con il loro sguardo. E magari anche accorgerci, quando finisce la batteria del nostro telefono iper-tecnologico, e ci troviamo da qualche parte senza riuscire a raccapezzarci o orientarci, che in fondo, non è poi così male, smarrire la strada per un po’e vagare senza direzione e senza meta verso qualcosa di ignoto e nuovo che può ancora avere il potere di sbalordirci, di stupirci, perché non è già anticipata, contenuta, visualizzata dall’intelligenza un po’arida di un telefono o un computer.