Non pare ad oggi contestata l’interpretazione della storia repubblicana che vede nel partito di massa il soggetto protagonista e centrale della vita politica nella “Prima Repubblica”. Essere partito di massa significa non tanto avere dimensioni molto consistenti, ma soprattutto avere un elettorato di blocco, essere il riferimento quasi automatico di identità collettive. Così ad esempio il Partito liberale, piccolo in termini numerici e di radicamento, costituiva però il riferimento diretto delle esigenze dell’alta borghesia finanziaria e industriale. Fino alla Grande guerra, però, l’Italia si distingueva tra i Paesi europei per non avere partiti organizzati (se non, e da poco, il Partito socialista). Dopo il 1945 gli italiani poterono calarsi tutto sommato bene nella forma politica del partito poiché ad essa erano stati forgiati durante il ventennio fascista: da esso avevano ricevuto l’istruzione alle forme politiche di massa e di blocco, fondate su una militanza fatta anche di esibizioni materiali (manifestazioni, divise, simbologie) e di adesione a organizzazioni collaterali. Tale modello, di un partito cioè dominante sull’individuo e al quale l’individuo doveva rivolgersi per ricevere identità e opportunità, sopravvisse di molti anni al regime.
In più, nell’Italia della guerra fredda la politica era ulteriormente “militarizzata” dal forte scontro ideologico e identitario tra due campi, ciascuno dei quali mobilitava il proprio elettorato con tutti i mezzi di cui potesse disporre.
L’una e l’altra cosa sono andate scemando col tempo e sopravvivono oggi nella popolazione più anziana: quella, infatti, in cui maggiore è la quota di militanti di partito e in cui maggiori sembrano i consensi per le forze politiche “tradizionali”.
A un secondo ordine di influenza si situano le trasformazioni nel processo decisionale. Non si scrive niente di nuovo registrando la progressiva perdita di sovranità dello Stato-nazione a favore di organismi sovra-statali, principalmente europei, sui quali c’è molto poco controllo dei cittadini. Il Parlamento europeo, infatti, è eletto a suffragio universale ma gode ancora di pochi poteri. Inoltre, i parlamentari vengono eletti non sulla base dei programmi proposti per i cinque anni futuri o realizzato nei cinque precedenti: programmi che riguarderebbero peraltro temi complessi e difficili da afferrare per molti elettori. Il voto alle elezioni europee è un voto di fede politica, nel quale le liste vengono premiate o punite sulla base di fattori assolutamente non-europei (se non una generica e vaga distinzione tra europeismo e anti-europeismo). Perciò l’elettorato si allontana dalla politica, sentendo ormai ininfluente il livello contattabile (quello nazionale) e incontattabile quello influente (l’europeo).
Infine, i fattori locali e attuali: lo scandalo dei rimborsi in Emilia-Romagna, sul quale c’è poco da dire, e il fatto che nel 2010 le elezioni regionali erano ancora unite in una tornata nazionale con un maggiore significato politico-ideologico pro-governo o anti-governo.
Resta da spiegare il repentino crollo dell’affluenza negli ultimi anni, a tutti i livelli. La risposta è abbastanza elementare: la crisi economica ha fatto detonare le linee di frattura già presenti da anni. Le due caratteristiche richiamate inizialmente – il ruolo vitale del partito nella vita degli individui e la forte contrapposizione ideologica – si sono replicate, imbalsamate in altre forme, anche nella “Seconda Repubblica”. Il primo, tramite il modello clientelare che fu scelto dalla DC come raccordo tra Paese reale, ancora profondamente segnato dal fascismo, e Paese legale non più fascista. La seconda, con la polarizzazione netta tra berlusconismo e antiberlusconismo. Con la crisi sono venuti ad esaurimento i fondi pubblici per la creazione di lavoro, che tanta parte avevano avuto nell’affluenza elettorale (lampante il primo caso di crollo dell’affluenza: il 53% di astenuti alle regionali siciliane del 2012) e ad essa è ascrivibile anche il tramonto politico di Berlusconi. Le peggiori condizioni economiche hanno reso l’elettorato ultra-sensibile a notizie di malgoverno o illeciti compiuti da politici (sui quali, in tempi di vacche grasse, il senso morale popolare latita non poco).
Mito da sfatare: l’astensionismo come reazione contro il governo. Ci sono sicuramente stati settori di sindacato e settori di sinistra che hanno scelto questa via. Altrettanto sicuramente sono stati ininfluenti nel risultato finale. In Emilia-Romagna le forze più penalizzate dall’astensionismo sono quelle di centrodestra (UdC, PdL ed eredi), le liste alleate di centrosinistra (verosimilmente molti voti IdV del 2010 sono finiti a Grillo) e, in misura minore, la sinistra radicale. Il PD perde voti, ma decresce meno dell’affluenza, e perde voti anche la Lega (salvo in provincia di Ferrara, casa del candidato presidente). L’unico partito che guadagna voti rispetto al 2010 è il M5S, che però ne perde rispetto alle europee; l’unico partito che guadagna voti rispetto alle europee è la Lega, che però ne perde rispetto al 2010. Non è difficile immaginare che tra i due partiti vi siano flussi di interscambio molto forti (ricordiamo che il M5S superò il 4% nei sondaggi nazionali proprio a seguito dello scandalo rimborsi della Lega).
Certo l’astensionismo resta un problema preoccupante, in quanto distacco tra cittadini e istituzioni. La miglior prestazione, comparativamente, di Lega e M5S riflette una maggiore disponibilità a votare dei settori sociali più arrabbiati, quelli che hanno rinfoltito le fila dell’agitazione dei forconi. Per contro, nel PD, ma forse anche nel centrodestra, restano molti elettori “dormienti” ma in grado di ri-mobilitarsi. Ciò che sento di escludere è la possibilità per movimenti di sinistra radicale di potersi inserire in queste opportunità. La richiesta di maggiore partecipazione ai processi decisionali figurava già nel programma della Sinistra Arcobaleno nel 2008. Di fronte alla mutua esclusione tra livello contattabile e livello influente, sopra richiamata, l’elettorato oggi non esprime una richiesta di far diventare contattabile l’influente, bensì di incenerirlo e distruggerlo: richiesta infantile che denota un marcato sottosviluppo cognitivo, ma nondimeno richiesta presente e che foraggia la crescita dei movimenti di estrema destra. Anche per questo credo che il compromesso populista di Renzi sia la via migliore per salvare capra e cavoli, cioè preoccuparsi di usare i voti dell’elettorato per portare a quelle soluzioni positive che esso, da solo, non è in grado di pensare. L’idea che a Renzi non interessi il dato dell’astensionismo è, credo, veritiera. In parte. Renzi è un buon caso per studiare il ruolo della personalità nella storia e tenderei a distinguere tra la sua indole animale, liberal-qualunquista; le sue convinzioni politiche, di cattolico moderato aperto a patti a sinistra; l’immagine politica che vuol dare di sé, che ebbi a definire “liberale tra Obama e Reagan”; gli effetti concreti della sua politica, che restano, a mio avviso, di forte contrasto al populismo e al fascismo.
Poi – ma questo è un purissimo giudizio personale – anche i movimenti estremisti convenzionalmente identificati come di sinistra (caso tipico: Podemos) non avrebbero altro effetto, voluto o meno, che quello di provocare destabilizzazione e aprire la strada a reazioni dittatoriali di destra.