Venerdì, 07 Dicembre 2012 00:00

Ma come parla la politica?

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Dato che dobbiamo costruire il Paese, costruiamo repertori, enciclopedie, dizionari. (Antonio Gramsci)

Linguaggio e gergo non sono la stessa cosa, il Treccani definisce il primo termine come “la capacità e la facoltà, peculiare degli esseri umani, di comunicare pensieri, esprimere sentimenti, e in genere di informare altri esseri sulla propria realtà interiore o sulla realtà esterna”; il secondo come “ogni parlare allusivo, indiretto, non esplicito e quindi poco comprensibile o enigmatico”. Ogni attività umana, dalla più semplice alla più complessa, necessita di un proprio linguaggio per comunicare in maniera efficace concetti e idee, per indicare cose e modi di operare. Da questa prassi sono derivati linguaggi specifici o specialistici in diverso grado, ma con un’evidente tendenza a “democratizzarsi”, a passare cioè da “gergo” di iniziati a “linguaggio” comprensibile se non a tutti comunque a molti. La pratica quotidiana di luoghi, ambienti, servizi, pratiche sociali, dalle quali le masse popolari erano precedentemente escluse o ammesse in posizione subalterna, ha contribuito alla “democratizzazione” del linguaggio.

Non è necessario essere medici per sapere cosa significano, almeno in grandi linee, parole come “parto cesareo” o “antibiotico”, molti, anche totalmente digiuni di tecniche operatorie o di chimica farmaceutica, sanno che si tratta di un parto assistito chirurgicamente e di un farmaco che combatte le malattie infettive. Altri settori, sui quali si esercita un largo interesse popolare, questa “democratizzazione” è stata più accentuata: “calcio d’angolo”, “rigore”, “fuori gioco”, “specchio della porta”, sono termini ben conosciuti. In ultima analisi si può affermare che lo stato sociale, nelle sue varie manifestazioni, fra le altre cose, ha anche prodotto una “democratizzazione” del linguaggio, cioè una maggiore consapevolezza delle masse popolari.

Il linguaggio della politica registra invece, almeno in Italia, una regressione, da linguaggio, complesso, ma comprensibile a chiunque si applicasse a conoscerlo, è divenuto gergo. Un gergo che tende, non tanto a nascondere, quanto a mascherare, prestandosi alle interpretazioni le più diverse, così che la politica è diventata il luogo in cui non c’è più concretezza di idee chiaramente manifestate, ma al contrario un luogo dove il non dire o il dire ambiguo e oscuro è la norma. La forte impronta personalistica della politica ha contribuito non poco al regresso del linguaggio e di conseguenza della cultura politica, oggi il gergo politico e fatto di parole che non hanno più un significato univoco, valido per tutti, i discorsi dei leader si prestano ad interpretati dagli addetti ai lavori come meglio credono o come meglio gli conviene; al cittadino comune tocca tacere, poiché la sua non comprensione del gergo è vissuta non come un limite di di chi parla, ma come l’incapacità di cui vergognarsi di chi ascolta di comprendere l’incomprensibile.

Il gergo politico è caratterizzato da tanti elementi ricorrenti di uso ormai generale, ma di questi ne voglio sottolineare solo tre. L’uso di figure retoriche che accostano termini e concetti contraddittori: “guerra umanitaria”, “economia sociale di mercato”, “privato sociale”; oppure si esprime attraverso accostamenti ridondanti: “democrazia deliberante”, “democrazia di mandato”, in maniera che ribaltare il segno politico di concetti e idee consolidate. L’attribuzione di un valore negativo a termini, che indicavano semplicemente la collocazione contingente di un partito o un suo attributo naturale: “opposizione”, oppure “governista“, come se caratteristica di ogni partito politico non fosse quella di aspirare al governo dello stato; “identitario”, come se i membri di un’organizzazione politica qualsiasi non avessero una loro “identità”, ovvero una medesima cultura politica.

La “liberalizzazione” del turpiloquio da un lato e l’introduzione di forme poetiche dall’altro, anche se si tratta di modalità antitetiche di cui sono attualmente campioni Grillo e Vendola, entrambe tendono a negare al discorso politico un proprio autonomo valore, anche stilistico, legato all’idee concrete che esso comunica piuttosto che all’invettiva o alla narrazione.

Infine l’uso dell’inglese o di termini politici mutuati dal linguaggio politico anglosassone, specialmente degli Stati Uniti, dando all’inglese la stessa funzione che anticamente si dava al latino, ovvero quello di lingua che distingue chi sa da chi non sa o non deve sapere. La sinistra non è stata estranea a questa regressione, basti pensare alla frenetica attribuzione di aggettivi alla parola sinistra: “antagonista”, “ambientalista”, “alternativa”, “anticapitalista”, fino a “sinistra radicale” che è il calco di un termine in uso nella vita politica americana. L’introduzione di termini mutuati dal linguaggio proprio dei diversi “ismi” con i quali siamo venuti in contatto: ambientalismo, femminismo, pacifismo, movimentismo, altermondialismo, ecc, senza operare alcuna seria mediazione culturale ha ugualmente contribuito a creare una babele dei linguaggi della sinistra; fino ad assumere nel nostro dibattito anche forme talvolta ridicole: si dice “direttrice” o “direttora”, che significa “torsione lavorista”!!!??? Se la sinistra vuole davvero unire lotta politica e lotta culturale, ed essere efficaci nel condurre l’una e l’altra, non può fare a meno di costruire propri “repertori, enciclopedie, dizionari”, di operare una vera e propria rifondazione del linguaggio politico che consenta, non solo di comunicare le nostre idee ed i nostri programmi, ma soprattutto di far vivere queste idee e questi programmi a livello di massa, per mezzo di un linguaggio comune che non si presti ad interpretazioni ed equivoci. A tutti consiglio la lettura, nei Quaderni del Carcere di Antonio Gramsci, degli scritti classificati sotto le denominazioni di Nomenclatura politica e Nozioni enciclopediche.

Francesco Draghi

Francesco Draghi, nel Partito Comunista Italiano prima e dalla sua fondazione nel PRC, ha ricoperto in entrambi incarichi di direzione politica, è stato amministratore pubblico.

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