Il linguaggio della politica registra invece, almeno in Italia, una regressione, da linguaggio, complesso, ma comprensibile a chiunque si applicasse a conoscerlo, è divenuto gergo. Un gergo che tende, non tanto a nascondere, quanto a mascherare, prestandosi alle interpretazioni le più diverse, così che la politica è diventata il luogo in cui non c’è più concretezza di idee chiaramente manifestate, ma al contrario un luogo dove il non dire o il dire ambiguo e oscuro è la norma. La forte impronta personalistica della politica ha contribuito non poco al regresso del linguaggio e di conseguenza della cultura politica, oggi il gergo politico e fatto di parole che non hanno più un significato univoco, valido per tutti, i discorsi dei leader si prestano ad interpretati dagli addetti ai lavori come meglio credono o come meglio gli conviene; al cittadino comune tocca tacere, poiché la sua non comprensione del gergo è vissuta non come un limite di di chi parla, ma come l’incapacità di cui vergognarsi di chi ascolta di comprendere l’incomprensibile.
Il gergo politico è caratterizzato da tanti elementi ricorrenti di uso ormai generale, ma di questi ne voglio sottolineare solo tre. L’uso di figure retoriche che accostano termini e concetti contraddittori: “guerra umanitaria”, “economia sociale di mercato”, “privato sociale”; oppure si esprime attraverso accostamenti ridondanti: “democrazia deliberante”, “democrazia di mandato”, in maniera che ribaltare il segno politico di concetti e idee consolidate. L’attribuzione di un valore negativo a termini, che indicavano semplicemente la collocazione contingente di un partito o un suo attributo naturale: “opposizione”, oppure “governista“, come se caratteristica di ogni partito politico non fosse quella di aspirare al governo dello stato; “identitario”, come se i membri di un’organizzazione politica qualsiasi non avessero una loro “identità”, ovvero una medesima cultura politica.
La “liberalizzazione” del turpiloquio da un lato e l’introduzione di forme poetiche dall’altro, anche se si tratta di modalità antitetiche di cui sono attualmente campioni Grillo e Vendola, entrambe tendono a negare al discorso politico un proprio autonomo valore, anche stilistico, legato all’idee concrete che esso comunica piuttosto che all’invettiva o alla narrazione.
Infine l’uso dell’inglese o di termini politici mutuati dal linguaggio politico anglosassone, specialmente degli Stati Uniti, dando all’inglese la stessa funzione che anticamente si dava al latino, ovvero quello di lingua che distingue chi sa da chi non sa o non deve sapere. La sinistra non è stata estranea a questa regressione, basti pensare alla frenetica attribuzione di aggettivi alla parola sinistra: “antagonista”, “ambientalista”, “alternativa”, “anticapitalista”, fino a “sinistra radicale” che è il calco di un termine in uso nella vita politica americana. L’introduzione di termini mutuati dal linguaggio proprio dei diversi “ismi” con i quali siamo venuti in contatto: ambientalismo, femminismo, pacifismo, movimentismo, altermondialismo, ecc, senza operare alcuna seria mediazione culturale ha ugualmente contribuito a creare una babele dei linguaggi della sinistra; fino ad assumere nel nostro dibattito anche forme talvolta ridicole: si dice “direttrice” o “direttora”, che significa “torsione lavorista”!!!??? Se la sinistra vuole davvero unire lotta politica e lotta culturale, ed essere efficaci nel condurre l’una e l’altra, non può fare a meno di costruire propri “repertori, enciclopedie, dizionari”, di operare una vera e propria rifondazione del linguaggio politico che consenta, non solo di comunicare le nostre idee ed i nostri programmi, ma soprattutto di far vivere queste idee e questi programmi a livello di massa, per mezzo di un linguaggio comune che non si presti ad interpretazioni ed equivoci. A tutti consiglio la lettura, nei Quaderni del Carcere di Antonio Gramsci, degli scritti classificati sotto le denominazioni di Nomenclatura politica e Nozioni enciclopediche.