Il mondo stava cambiando, il mondo era già cambiato e gli splendori di inizio secolo erano offuscati da un conflitto latente ma vivo e pronto a sprigionare la propria paurosa energia. Troppe questioni “nazionali” aperte, troppe “terre irredente”, il clima che cento anni fa in Europa si respirava era a dir poco nauseabondo, neanche fossimo stati ospiti dell’antro del mitologico idra di Lerna. Il capitalismo affilava i suoi lunghi artigli, e fu proprio il nascente e “prorompente” modello capitalista, figlio delle rivoluzioni industriali ottocentesche a causare quell’immane strage. Dietro volontà patriottiche, come per ogni guerra che si rispetti, il casus belli non poteva che essere di natura prettamente economica. C’era da regolare i conti in Europa, dove spadroneggiava una Germania regina dell’industria pesante, al vetusto impero Austro-Ungarico dilaniato da lotte interne, passando per la Francia e l’Inghilterra due stati antagonisti della Germania per la leadership Europa. Gli ingredienti, come velocemente descritto c’erano tutti insomma, in mezzo (non solo geograficamente parlando) stava l’Italia. Curiosa la storia del Bel Paese all’inizio del novecento; debole politicamente ed economicamente, ma nonostante tutto voglioso di misurarsi con le superpotenze del Vecchio Continente, all’interno di un immaturo gioco di potere, solo per il gusto di avere una propria fetta di torta all’interno della ricca tavola mondiale. In questo senso vanno le scelte effettuate dal giovane Regno d’Italia in ambito colonialista, anche quelle preludio di un conflitto ormai prossimo e imminente.
Cent’anni; numeri, uomini, trincee. In tre parole è possibile forse spiegare la crudeltà di un conflitto nato convenzionalmente per un colpo di pistola partito dalla mano del giovane studente bosniaco Gavrilo Princip nel caldo (in tutti i sensi) Luglio 1914, a Sarajevo.
Questa mia personale riflessione nasce, oltre che dall’occasione anche e soprattutto dallo specchio fedele rappresentato dalla matita di un grande vignettista del primo novecento (scoperto, ed in questo chiedo scusa ai lettori più arditi, da pochissimo tempo), Giuseppe Scalarini.
Il nostro, disegnatore per l’Avanti! Fervente socialista e osteggiato e perseguitato dal regime fascista ha narrato con la sua penna (il sito con alcune opere è visitabile), buona parte di quegli anni.
Oggi riflettendo su quelle immagini create ad arte con l’inchiostro mi sovviene un dubbio; cosa dovremmo celebrare?
La retorica di stato, quella più becera e populista, ha provato e prova a farci credere che quel 24 Maggio, quel simbolico passaggio dei militi italiani sul Piave sia stato un gesto eroico, fatto per l’ideale di patria in downloading proprio in quei tribolati anni.
Nessuno o pochi parlano dell’orrore che generò quella guerra. Nessuno o quasi racconta di quei 600 mila circa, concittadini che persero la vita per una scelta infausta e infelice. La grande guerra segnò la definitiva sconfitta del pacifismo e la vittoria interventista.
Fatte queste dovute premesse torno ad un’opera di Scalarini denominata “Il figlio della guerra” pubblicata nel Dicembre 1920. L’incisione pregevole e altamente simbolica rappresenta un’Italia con le sembianze della morte che stringe tra le braccia e deposita in una mangiatoia denominata “capitalismo” il suo figlio più “amato”; il fascismo. L’eredità, ahimè, più grande del primo conflitto mondiale, la marea nera. La tregenda rievocata dal Montale in “Nuove Stanze” frutto di quel quinquennio di terrore. Oggi Salvini, i neofascisti coadiuvati da menti autodefinitesi patriottiche ci tengono a festeggiare quel Maggio di cent’anni fa.
La retorica è quella del “Non passa lo straniero”, così come recitava una famosa canzone di quegli anni. E’ vero non passa lo straniero, peccato che in quel caso gli “invasori” fossimo noi, peccato che in quegli anni invadevamo il continente africano per avere il nostro pezzo di torta. Tutto questo è stato dimenticato affossato e la sensazione, piuttosto grave è che dopo cent’anni abbiamo imparato poco o niente. Una perenne guerra di trincea, immobile stazionaria dove non c’è nulla da festeggiare. Bisognerebbe avere l’umiltà di restare in silenzio, ricordare chi in quel Maggio 1915, inconsapevolmente vedette appassire la propria primavera.