Mercoledì, 01 Giugno 2016 00:00

Gestazione per altri: qualche dato - parte II

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Il secondo tipo di obiezione è di natura maggiormente etica, per quanto si intrecci fortemente al primo e concerne due punti principali: l’inviolabilità del corpo e la conseguente accusa di sfruttamento del corpo della donna e la sua riduzione a mera merce; la presunta naturalità della maternità e del suo valore indiscutibile.
A mio avviso questi due concetti si basano su due miti che non mi sento di condividere affatto: il mito del corpo come un “dato” immodificabile (il mito del dato di matrice hegeliana: il dato non è dato ma è il prodotto di un processo) e il mito della maternità.

Il corpo non è qualcosa di dato. O meglio, è vero che nasciamo con un corpo, ma fin dall’inizio questo corpo è manipolabile e suscettibile di continui, a volte impercettibili, cambiamenti. Il mio corpo cresce, si modifica, invecchia, ingrassa o dimagrisce, può cambiare la propria anatomia sessuale; il corpo è medicalizzabile, può esser sottoposto a trapianti, a operazioni, a mutilazioni, a interventi chirurgici. Chi invoca l’inviolabilità del corpo magari è la stessa persona che ogni giorno va a riempirsi le guance di botulino o di lifting! Se il corpo è inviolabile dobbiamo allora negare anche i trapianti di organi e qualsiasi altro intervento che vada a manipolare o compromettere la presunta “naturalità” del corpo. Il filosofo contemporaneo Jean-Luc Nancy parla dei corpi come di “corpi stranieri”. Il corpo è “l’altro” per eccellenza, è un “fuori” assoluto, un’esteriorità assoluta, sempre sul bordo sul limite:

il corpo è la certezza sconvolta, messa in frantumi. Niente di più proprio, niente di più estraneo”2. Strani corpi stranieri. Stranieri a me e straniero a se stesso: “è l’effrazione del proprio; è ciò che si sottrae al potere identitario, al Kosmos organico del vitale. Corpus, o corpo, è piuttosto il Kaosmos: la nascita continua, l’agitazione, l’inquietudine […] il tocco dell’aperto3.

E quello di Nancy raggiunge l’estraneità più iperbolica dato che ospita un cuore non suo, un cuore altro che è stato trapiantato nel cuore del corpo, esperienza di cui il filosofo parla nel bellissimo piccolo saggio intitolato “L’intruso”. Ma l’estraneità non è solo quella di un organo trapiantato; l’estraneità riguarda originariamente e per sempre qualsiasi corpo, anche quei corpi che rimangono più o meno gli stessi dalla nascita alla morte (anche se ovviamente cambiano costantemente, invecchiando, deturpandosi, afflosciandosi), perché non c’è il corpo ma i corpi. Tanti corpi nello stesso corpo. corpo che è insieme tanti corpi, sempre diversi e soprattutto sempre esposti: esposti agli attacchi, alle contaminazioni e ai contagi con gli altri corpi (laddove per Nancy tutto è corpo, anche le cose inorganiche), sia a quelli provenienti dal suo stesso interno (come la malattia e la stessa cura, come nel caso di un organo trapiantato, laddove l’estraneità è duplice, quella della malattia e quella dell’organo estraneo nel proprio corpo).

I corpi sono sempre esposti a e la loro esposizione e manipolabilità si presa anche a una techne, a un’ecotecnia come la chiama Nancy, ovvero la supplementarietà o la sopravvivenza tecnica del corpo, il suo destino di corpo protesizzabile, manipolabile, medicalizzabile, “artificializzabile”. Ciò che chiamiamo post-umano riguarda principalmente l’uso della tecnica applicata ai corpi: i corpi sono sempre più tecnicizzati, medicalizzati, manipolati artificialmente, disarticolati, anche frammentizzati. La particella post designa soprattutto il passaggio a una trasfigurazione prodotta in particolare dalla tecno-scienza che va a ridelineare in maniera completamente nuova anche il rapporto col proprio corpo (e anche con la mente: si considerino i progressi in ambito della neuroscienza o tutte le questioni legate ad esempio all’intelligenza artificiale), in un tentativo sempre più massiccio di una sua “dilatazione”, nonché di trasformazione ad artificio tecnico totalmente (o quasi) manipolabile, sostituibile, persino quasi affrancabile: “il post-umano promette l’esonero e l’emancipazione definitiva dai limiti del corpo, dalla contingenza e dalla necessità del tempo e dello spazio, portando a compimento, forse, l’ultimo sogno nascosto dell’uomo: una libertà in-condizionata4.

Ovviamente un discorso simile può fare spavento, perché constatiamo che l’artificio sta superando l’umano, che l’artificiale sta compromettendo ciò che siamo ritenuti a credere maggiormente naturale, come il corpo. A mio avviso però sta proprio qui lo snodo: il corpo non è naturale. O meglio, lo è ma non si presta a una naturalizzazione, non deve essere schiacciato, soprattutto oggi che i progressi della scienza e della medicina toccano vette molto alte, sotto una sorta di normazione, di presunta normalizzazione spacciata per naturalità, quando invece si tratta di una costruzione culturale quella che decreta quale sia la normalità o naturalità del corpo. Quelle che crediamo essere la “naturalità” o la “normalità” del corpo sono di fatto delle norme culturali che hanno imposto e hanno fatto interiorizzare l’ide che un corpo “normato”, o normale debba essere in un certo modo e qualsiasi aspetto esca fuori da questi canoni risulta anomalo, a-normale, innaturale. Certo, nasciamo con un corpo che è anatomicamente strutturato in un certo modo, ma esso è qualcosa di fluido, non dato una volta per tutte o una volta per sempre. Ciò che resta “naturale” è l’istinto o il desiderio della persona e la sua libertà di gestire il proprio corpo come più le aggrada, se non nuoce ad altri corpi. Una donna è libera di scegliere di usare il proprio utero per farsi immettere un ovocita e gestire una gravidanza per altri soggetti, se questa libertà non è frutto di una necessità o di un obbligo da parte di terzi, o di un bisogno. Una donna è libera di usare il suo corpo per metterlo in mostra così come è libera di farvi degli interventi di chirurgia estetica, così come è libera di abortire, sempre se sono scelte libere e personali. Noi possiamo non condividere quelle scelte ma non giudicarle e pretendere di sapere per quale reale motivo esse le abbiano prese. Noi non siamo nel corpo e nella testa di quelle donne che decidono, in maniera autonoma e consapevole di offrire il proprio corpo a una gestazione per altri e non possiamo avere la pretesa di saperlo bollando quella loro scelta come “sfruttamento del proprio corpo”. Se la scelta, ripeto, è ibera e non indotta da fattori di natura economica o, per altri casi, imposta (come ad esempio nei casi di prostituzione) o influenzata da altri, nessuno ha il diritto di contestare il modo in cui il singolo gestisce la propria corporeità.

Secondo punto: il mito della maternità. Una donna che si presta alla gestazione per altri naturalmente è predisposta a sentire il vincolo con la creatura che porta in grembo. Niente di più falso. Qui si confonde la genitorialità e il vincolo affettivo con un fatto puramente biologico che è quello della gravidanza. Certo, non nego che l’esperienza della gravidanza sia cosa di poco conto: probabilmente si tratta di un’esperienza unica, che per motivi di natura anatomica e biologica è consentita solo alle donne. Ma non credo che perché si porti una creatura in grembo si inneschi necessariamente il vincolo materno. Se la gravidanza è appunto gestita coscientemente e consapevolmente per altri soggetti cui si vuole regalare la possibilità di avere un figlio, non penso che per fattori “naturali” si crei il legame con il bambino, sapendo di non esserne la madre o di non dover esserne la madre. La genitorialità è altra cosa rispetto alla gravidanza. E non perché questa è evidentemente possibile solo per le donne, allora la maternità ha un valore più alto e più stringente rispetto alla paternità o alla genitorialità in generale, laddove i genitori non sono i genitori biologici. Sinceramente il mito della madre, spesso anche molto invocato dalle stesse femministe (vedi Muraro), lo trovo assurdo e soprattutto va, anche da parte di chi vuole superare il dualismo di genere o di chi critica il sistema patriarcale, a riprodurre una stessa gerarchia tra generi, in questo caso mettendo al centro e dotando di superiorità, non il “maschile” sul “femminile”, ma al contrario, stavolta, il “femminile” (grazie al suo potere di maternità) sul maschile (cui questo potere è biologicamente negato).

Tra l’altro categorie che a mio avviso andrebbero entrambe superate: non esiste un “maschile” con determinate caratteristiche ritenute naturali e innate (razionalità, pragmaticità, scarsa sensibilità e attenzione ai dettagli, minore introspezione e altre assurdità simili) e non esiste un “femminile” con determinati altri attributi (dolcezza, sensibilità, cura, creatività, maggiore introspezione, delicatezza): queste attribuzioni interiorizzate dagli stessi uomini e dalle stesse donne sono solo frutto di costruzioni culturali, sociali e storiche; al massimo esistono solo delle differenze di natura fisica che semmai hanno influenzato il prodursi delle altre differenze (la forza fisica dell’uomo ad esempio ha condizionato un suo affermarsi in maniera netta e un suo porsi al centro della storia umana dall’età della pietra in poi con tutte le varie conseguenze e implicazioni). Anziché muoversi verso una pluralità e fluidità del genere, e di una sua sottrazione all’eteronormatività, maledettamente riduttiva e fuorviante ma che purtroppo ancora resiste, tanto che viene introiettata inevitabilmente anche da chi vi si pone al di fuori (anche solo linguisticamente essa rimane sempre l’unico termine di paragone anche quando la si abolisce... Come diceva Foucault il linguaggio, il discorso, è esso stesso un dispositivo di potere) si va così a ricreare una netta dicotomia gerarchica tra i generi, esaltando la figura della “madre biologica” per il suo potere di generare una vita. Ripeto, non voglio certo sminuire questa possibilità che le donne hanno (tenere una vita dentro di sé e partorirla), ma innanzitutto non lo userei per porre la donna/mamma su un podio che non le spetta, in quanto partorire una vita non significa ancora essere madre e, in ogni caso, anche l’essere madre o padre non è da mettere su alcun gradino superiore rispetto a essere qualsiasi altra cosa. Seconda di poi, portare avanti una gravidanza non dà l’esclusività di maternità.

Questa emerge solo attraverso il legame con il bambino e per questo stesso motivo è alla stessa stregua della paternità, dato che anch’essa emerge attraverso quel legame. Paternità e maternità che, pertanto, per lo stesso motivo del rapporto genitoriale e affettivo che si crea con il bambino sono da attribuire non alla madre o al padre necessariamente biologici ma a coloro che hanno modo di creare questo legame. Una madre o un padre adottivo, due madri o due padri adottivi, hanno la stessa funzione e qualità genitoriali di madri o padri biologici. Il vincolo non si crea tenendo una creatura in grembo, ma amando e crescendo quel bambino, anche se non sono io ad averlo partorito. Un padre rimasto vedovo o lasciato dalla moglie quando il bambino era ancora in fasce allora non sarà in grado di esercitare un ruolo genitoriale con il figlio e stabilire con lui un legame altrettanto forte di quello che avrebbe potuto avere con la madre biologica, solo perché non è uscito dal suo corpo? E di nuovo, ma chi siamo noi per pretendere di sapere che la donna che sceglie liberamente di prestarsi alla gpa, inevitabilmente, “naturalmente”, dovrà avvertire un legame materno con la creatura che porta in pancia? A giudicare dalle interviste sembrerebbe proprio di no. Quel bambino non è sentito come suo bambino perché fin dall’inizio lei sa che lo sta facendo per altri. Certo, probabilmente capiteranno casi in cui la madre surrogata “si affeziona” al bambino che porta in grembo, ma statisticamente questi casi sono l’eccezione e non la regola. Ad ogni modo, paragonare la gestazione alla genitorialità è cosa retrograda e infondata... Molto spesso capita piuttosto di assistere al contrario: quasi tutti i bambini che stanno in orfanotrofio sono bambini abbandonati, ceduti, dati via, lasciati da mamme biologiche perché non potevano o non volevano tenerli. Per cui il presunto immediato “legame naturale” tra madre partoriente e bambino non è affatto scontato. Il mito della “madre” è pericoloso e non fa tra l’altro che fomentare la creazione di tutti quegli attributi che dalla notte dei tempi vengono etichettati alla donna: la donna materna, la donna predisposta alla cura, la donna ecumenica... Riproponendo gli stereotipi cui siamo tanto abituati e che, ripeto, noi stessi abbiamo fatto nostri. Sono questi stessi stereotipi e questi stessi preconcetti interiorizzati che ci rendono inconcepibile pensare che una donna sia disposta a portare avanti una gravidanza per altri individui. Se invece cominciassimo a superare una visione in cui rientrano l’ uomo e la donna fatti per forza in un certo modo, un padre e una madre come unici elementi che possono formare una famiglia, il mito della maternità, l’inviolabilità del corpo, rigettandola come pericolosa e anacronistica, forse riusciremmo a guardare più avanti e a capire che non c’è niente di dato una volta per tutte, che non esistono categorie “naturali” immodificabili e che debbano essere conformate secondo certi modelli, parametri e norme ritenuti, erroneamente, naturali, ma che esse sono fluide, metamorfiche, e non imprigionabili entro gabbie fondate su preconcetti e costruzioni che sono soltanto culturali, frutto della nostra filogenesi e, adesso, frutto della nostra chiusura mentale o della nostra ingenuità, o della nostra presuntuosità con cui affrontiamo determinati argomenti. Ciò che è data è il libero arbitrio con cui ciascuna persona può decidere quale sia per lei il modo migliore per vivere la propria vita e per gestire il proprio corpo, laddove entrambe le cose, non nuocciano ad altri. E un bambino che viene messo al mondo e che vivrà con due genitori che presumibilmente (in quanto lo hanno voluto) lo ameranno, non dovrebbe nuocere proprio a nessuno, anche quando quei genitori non sono genitori biologici.

2 J. L. Nancy, Corpus, trad. it. di A. Sordini, SE, Milano 1989, p. 9
3 D. Calabrò, introduzione a J. L. Nancy, Il corpo dell’arte, Mimesis, Milano-Udine, 2014, p. 10.
4 R. Bonito Oliva, Il post-umano tra aspettative e resistenze dell’umano, in B. Accarino (a cura di), Antropocentrismo e post-umano. Una gerarchia in bilico, Mimesis/Eterotopie, Milano 2015, pp. 159,168

Ultima modifica il Mercoledì, 01 Giugno 2016 11:46
Chiara Del Corona

Nata a Firenze nel 1988, sono una studentessa iscritta alla magistrale del corso di studi in scienze filosofiche. Mi sono sempre interessata ai temi della politica, ma inizialmente da semplice “spettatrice” (se escludiamo manifestazioni o partecipazioni a social forum), ma da quest’anno ho deciso, entrando a far parte dei GC, di dare un apporto più concreto a idee e battaglie che ritengo urgenti e importanti.

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