Innanzitutto il libro è una sorta di manuale “pensato e scritto per gli studenti e per i professionisti del settore no profit” ed esplora “le dimensioni della comunicazione del terzo settore, da quelle più classiche come l’ufficio stampa e la comunicazione organizzativa a quelle emergenti come storytelling, fund raising, nuovi media e valutazioni di impatto sociale”. La discussione in realtà non è forse entrata esaustivamente addentro a queste metodologie comunicative e narrative né alle specificità con cui queste vengono utilizzate dalle associazioni no-profit e quali possono essere le strategie precise per creare un impatto sociale attraverso i mezzi che offre la comunicazione. Come però premette Gelli, una presentazione di un libro non deve finire per essere una conferenza durante la quale vengono esauriti e ampiamente approfonditi tutti gli aspetti del libro, bensì invogliarne la lettura, accendere nell’interlocutore quell’interesse e quella curiosità che lo spinga a comprare il libro e a scoprire da solo i “segreti” che una presentazione non deve svelare, o per lo meno non completamente.
Gelli, che introduce la discussione, esordisce partendo dal titolo, che all’apparenza può risultare generico o poco comprensibili per chi non è un “addetto ai lavori”, cioè chi è al di fuori del settore no-profit. Per chi però opera all’interno di questo vasto mondo che è il terzo settore (che ne faccia parte direttamente e attivamente, che lo studi, che sia in qualche modo coinvolto etc..) il titolo è limpidamente eloquente. La comunicazione, prosegue Gelli, è un valore fondamentale, in generale ma in particolare la comunicazione sociale, ma non per la sua autoreferenzialità, che è una deriva che spesso le stesse organizzazioni no-profit e il mondo del volontariato rischiano di prendere. Molto spesso la comunicazione viene o è stata intesa come un modo per auto-presentarsi, per auto-promuoversi da un punto di vista soprattutto numerico: quanti sono i soci, quante le sedi,etc, anziché promuovere le proprie idee, i propri contenuti. Ciò che rende attraente la comunicazione non è la sua autoreferenzialità, occorre invece fare una selezione rigida sulle priorità da comunicare e quelle da sottacere. Il mondo del volontariato anziché auto presentarsi deve saper comunicare idee, contenuti, proposte, perché sono questi che possono mettere in moto processi culturali ed economici diversi. Il libro, conclude Gelli scava e approfondisce le radici della comunicazione ed è davvero una sorta di manuale di riferimento per chi appartiene al mondo del no-profit, uno strumento da utilizzare nell’attività quotidiana per informare e comunicare verso l’esterno la propria azione e le proprie idee. Il libro è perciò rivolto precipuamente a tutti i soggetti del no profit, che sono dunque il target di riferimento che possono prenderlo come una guida, un vademecum per trovare i modi migliori per usare la comunicazione in maniera efficace, anche riuscendo a negoziare con i mass media e far capire quali sono le proprie azioni, le proprie proposte e il proprio pensiero, cose che non possono essere lasciate all’improvvisazione, ma che sono frutto di un percorso, di un lavoro portato avanti da competenze e capacità diverse. Il libro, oltre ad essere un manuale o uno strumento di “didattica” sulla comunicazione sociale (che è espressione del terzo settore), ha anche un ruolo di spinta all’autocritica e alla riflessione da parte dei soggetti del terzo settore stesso.
Iniziano poi le domande di Viviana Bossi ai relatori presenti. Il libro, dichiara Bossi, fornisce spunti nuovi di riflessione (per chi lavora nel settore della comunicazione) e in alcuni passaggi manifesta una forza dirompente: “Nel senso attuale più proprio, comunicazione è «costruzione di condivisione» mediante la creazione e la diffusione di significati, incarnati sia da simboli che da pratiche, progressivamente fatti propri da soggetti diversi: un processo di allargamento, di espansione della condivisione di idee e valori, che mira a produrre una nuova visione della realtà. La comunicazione come attività finalizzata al cambiamento (e proprio in questo suo orientamento consiste la sua principale differenza dall’informazione)” . Dunque, incalza Bossi, la comunicazione può essere considerata rivoluzione?
Volterrani ammette di non saper rispondere se si possa parlare di rivoluzione ma sicuramente la comunicazione è cambiamento e genera cambiamento, altrimenti davvero rischia di restare mera autoreferenzialità fine a se stessa. Vedere la comunicazione in questo modo, cioè come produttrice di cambiamento, significa fare un salto di prospettiva, ma, successivamente, questa consapevolezza, questo modo di considerare la comunicazione, deve essere accompagnato dall’azione. Ad ogni modo l’idea che la comunicazione sia cambiamento è filtrata in molti contesti: la comunicazione intesa nell’ottica del cambiamento e non più della sola visibilità.
Bossi cita poi un altro passaggio dirompente del libro: “L’approccio classico alla comunicazione sociale è incentrato sulla sua funzione generatrice di legami, intorno a problemi e soggetti svantaggiati. La definizione proposta in questo libro riconosce invece alla comunicazione sociale una funzione più ampia, di rottura degli immaginari simbolici prima [corsivo mio], e rigenerativa di rapporti e fratture sociali dopo [corsivo mio]. Concentrarsi solo sulla pars construens […], significa percepire la comunicazione solo nel suo ruolo riparatore, creatore di rapporti e socialità: l’opera buona dei cittadini attivi, un «affare» buonista delle organizzazioni non profit. Significa, in altre parole, guardare al volto pacifico di questa comunicazione, lasciando in ombra […] il suo potenziale di rottura. Recuperare invece il suo versante simbolico significa illuminare il rapporto diretto che lega comunicazione sociale e mutamento culturale, e restituirla alla dignità di una comunicazione importante, strategica per le società complesse e multiculturali del nuovo millennio”. La comunicazione è dunque, anche, rottura degli schemi, degli immaginari simbolici comuni e in questo intacca inevitabilmente l’ordine sociale esistente creando cambiamento ma inizialmente generando anche potenziali tensioni e conflitti necessari però per cambiare certi aspetti della società e certi rapporti di forza tra attori sociali: “tutto ciò ci restituisce l’immagine di una comunicazione rivolta all’innovazione, provocatrice di mutamento: una comunicazione rivoluzionaria, intenzionata, nella sua vocazione più intima, a cambiare tanto l’idea di società quanto i rapporti che la fondano” . A tal proposito Bossi cita la campagna per il finanziamento alla ricerca sulla SMA che vede protagonista il noto regista e attore comico Checco Zalone e che da giorni è sotto gli occhi di tutti. In quello “spot” la malattia è affrontata in maniera ironica e autoironica: è annullato ogni tipo di patetismo e indugio alla compassione con cui di solito venivano affrontate queste tematiche. Un simile messaggio può esser inteso come un tipo di comunicazione capace di rompere gli immaginari simbolici? Rientra nel tipo di rottura degli schemi cui la comunicazione deve mirare se vuol essere generatrice di cambiamento?
Secondo Volterrani il limite maggiore di quella “pubblicità”, è paradossalmente, proprio la figura del comico italiano, che essendo così noto, rischia di focalizzare tutta l’attenzione su di sé oscurando quello che è il messaggio principale della campagna: dare soldi per finanziare la ricerca sulla SMA. Quindi rischia, quella campagna, di non raggiungere l’obiettivo per cui è stata ideata. Detto questo, l’aspetto più interessante dello “spot”è proprio la sua ironia molto forte che evita appunto di affrontare certe problematiche in maniera lacrimevole, patetica, tragica. Parlare di tematiche gravi come la malattia, piangendosi addosso, alla lunga rischia di far annoiare o persino irritare, parlarne in termini ironici e autoironici può essere invece la chiave giusta.
Per quanto riguarda la rottura degli immaginari collettivi di una società, Bossi chiede al professore Sorrentino se nell’ambiente universitario e della ricerca nota dei cambiamenti riguardo al mondo del terzo settore, una maggiore attenzione o una maggiore sensibilità. Sorrentino ribadisce che questo libro è proprio la tangibile manifestazione che la materia esiste ed è emersa sempre di più attraverso un percorso di attenzione e riflessione sulla comunicazione, su cosa essa sia e che tipo di valenza strategica debba avere per veicolare certe cose. Qui in Toscana, ma un po’in tutta Italia, effettivamente da qualche anno la comunicazione è inserita in un processo stratetico e da questo punto di vista si stanno facendo passi avanti. La strada per un’ulteriore ricerca, una ancora maggiore attenzione e lavoro sulla comunicazione sociale è però lunga e da questo punto di vista anche i buoni media possono essere un alleato, nonostante certe resistenze da parte del mondo dell’associazionismo non profit che vedono forse ancora con troppa diffidenza e sospetto i media mainstream, che invece, se usati consapevolmente e in maniera adeguata, possono davvero essere una risorsa necessaria.
Salvatore De Mola che dice di essere l’incarnazione del mainstream, lavorando per RAI e Mediaset (da “Montalbano” a “I Cesaroni”), racconta di essersi avvicinato al mondo del non profit senza una reale infarinatura su di esso, ma in maniera quasi “cannibalistica”, prendendo le sue storie e raccontandole. Quello del terzo settore è infatti un mondo ricchissimo di storie che aspettava solo di essere raccontato e i soggetti che ne fanno parte aspettavano qualcuno che sapesse raccontare il loro mondo, che trovasse i mezzi, i modi e gli strumenti giusti per raccontarlo. Secondo De Mola bisogna raccontare “storie belle” e non solo storie “che funzionano”, come si dice nel gergo del mercato mediatico, storie che tocchino, che siano forti, interessanti, persino dirompenti. “Io”, continua lo sceneggiatore, “sono il mainstream, lavorando per la televisione rappresento il mondo che comunica a livello di mercato”. Ammette che gli autori televisivi sono quasi dei piazzisti: inseriscono nelle fiction prodotti pubblicitari che devono ancora essere lanciati nel commercio, inventano addirittura scene ad hoc affinché gli sponsor possano entrare direttamente all’interno dell’aspetto narrativo. A questo punto meglio sarebbe pubblicizzare un’associazione di volontariato che una birra o un qualsiasi altro prodotto commerciale! Dopodiché De Mola racconta un’esperienza personale, tornando all’anno 2011, quando dopo una lezione a una Summer School uno degli studenti gli chiese come mai non si vedesse mai un handicappato in una serie tv e la risposta di De Mola fu che nel mainstream c’erano proprio delle direttive precise che vietavano che i disabili comparissero in televisione. Negli ultimi anni però ciò è molto cambiato, anche se l’Italia arriva sempre in ritardo su certi temi. Molto prima che in Francia uscisse il film “Quasi amici”, accolto con enorme successo sia dal pubblico francese prima e poi anche da quello italiano quando è uscito nel nostro paese, De Mola aveva proposto alla rai una storia che aveva come protagonista una donna che faceva l’assistente sessuale agli handicappati e, non sorprendentemente, gli venne rifiutato. Questo è uno degli esempi dei “ritardi” italiani, come lo è la fiction “Braccialetti rossi”, che oggi anche in Italia piace tanto, ma che era da anni che andava in onda in Spagna, prima che venisse fatta anche da noi. Quindi, forse, se la comunicazione è cambiamento, quest’ultimo sembra che in Italia avvenga sempre un po’a scoppio ritardato rispetto ad altre realtà. Oggi comunque, nelle linee editoriali di rai fiction si parla esplicitamente di attenzione al sociale, quindi si avverte un notevole progresso rispetto a quando, ancora nel 2011, vietava la rappresentazione di disabili!
Il terzo settore, ad ogni modo, dice poi Sorrentino, ha commesso due errori: il primo è stato quello – già accennato – di aver puntato, per raccontare certe tematiche sociali, sul patetismo, che alla lunga non paga, ma anzi è abbastanza scocciante e deprime; il secondo è stato quello di puntare allora sulla cosa quasi opposta, ovvero raccontare la bella storia: negli ultimi anni, probabilmente a causa della crisi economica fomentata anche dei vari scandali di corruzione, concussione, mala politica ecc.., sta passando la linea delle buone notizie, che facciano da contrappunto al mare magnum di quelle cattive. La strada però deve essere diversa da quella, così superficiale e che sa molto di contentino consolatorio (tipo la caramella per i bambini quando si sono fatti male) della lieta notizia. La via più giusta non è raccontare storie che ci diano il sollievo momentaneo che non tutto ciò che accade nel mondo sia brutto o che ci illudano che tutto va bene e tutto è bello (come i ristoranti che sono tutti pieni di berlusconiana memoria!) per affossare ciò che realmente non funziona, per eludere l’erbaccia cogliendo l’unico fiorellino che vi cresce, ma raccontare storie che riescano invece a scavare e ad entrare nella complessità del reale, che riescano a leggerla e a saperla veicolare e far comprendere nella totalità dei suoi aspetti, quelli buoni ma anche quelli meno buoni. Saper entrare a fondo nei fenomeni e nei vari contesti dandone una lettura adeguata alla loro complessità e non tentando di sublimarli con un racconto parziale o edulcorato che ne oscuri gli aspetti meno piacevoli e allettanti che non vorremmo, ma dobbiamo, sapere. Altrimenti viviamo nella finzione, e fingiamo con noi stessi di credere che la lieta notizia, sia l’unica realtà, perché su certe problematiche fa più comodo pensarla in questo modo, anziché entrarci dentro in maniera più approfondita e lucida. Il mondo dei media mainstream, così come anche gran parte del giornalismo, stanno facendo un racconto della realtà troppo superficiale e approssimativo, quasi fittizio alle volte, e non riescono, o non vogliono, andare nel profondo della complessità del reale e questo però li rende meno credibili agli occhi di chi non vuole vivere in una “fiction”, a chi non vuole permanere nell’inganno e nell’autoinganno.
Spostando l’attenzione sui nuovi media digitali, Viviana Bossi chiede ai relatori quanto questi possano offrire delle opportunità nella comunicazione sociale per fare dei passi avanti. Volterrani afferma che non è tanto la visibilità sui social media ad essere rilevanti, quanto piuttosto il riuscire, da parte delle associazioni non profit, a percepire i social come una risorsa di partecipazione e condivisione, non limitandosi a sfruttare semplicemente la parte più visibile, ma scoprirne le altre potenzialità: costruzione di piccole o anche grandi comunità che condividano certi principi e valori, la costruzione di relazioni, la moltiplicazione di queste relazioni e la produzione. Diventare “produttori” non significa produrre cose autoreferenziali ma produrre e veicolare i temi di cui l’associazione si occupa o temi rilevanti per la comunità. Spesso le organizzazioni del terzo settore considerano i media digitali come qualcosa di irrilevante o li usano appunto in maniera un po’ “grezza”, aprendo una pagina fb postandoci un po’di tutto e un po’a casaccio, quando invece, a maggior ragione per le associazioni del terzo settore, anche quando si fa una pagina su un social o si condividono certe cose, bisogna sempre chiedersi perché lo si fa e qual è lo scopo per cui lo si fa, qual è l’obiettivo da raggiungere, cos’è che si vuole comunicare e far passare. Si tratta di imparare a produrre anche piccole cose che però lascino emerger delle idee; si tratta di riuscire ad esser creativi e a sviluppare qualcosa da poter diffondere anche attraverso la comunicazione digitale, nella quale la soglia economica è molto più bassa rispetto ad altri ambiti: non c’è bisogno di molte risorse finanziarie, c’è però bisogno di risorse umane e “cognitive”, di pensiero, idee, creatività, competenze e capacità di visione, di immaginazione. Occorre unire l’azione sociale all’azione o produzione culturale, che dovrebbero andare sempre di pari passi per generare rottura di schemi e cambiamento sociale e cominciare a considerare l’azione culturale e comunicativa alla stessa stregua in cui le associazioni considerano la propria azione sul territorio che è capillare, spesso efficace e continuativa. Anche l’azione culturale deve essere intesa e usata in questo modo, perché riveste la stessa importanza e alle volte, o anche molto spesso, può risultare anche molto più efficace (o comunque avere maggior impatto e influenza) che la sola attività sul territorio, sebbene sia questa di vitale importanza.
Sorrentino aggiunge che il mondo della comunicazione digitale è comunque un mondo rischioso perché abbassa in maniera straordinaria il confine tra la dimensione pubblica e quella privata rendendolo talmente labile da far sì che non ci si accorge neanche quando si passa dall’una all’altra, quando si è nell’una e quando si è nell’altra delle due dimensioni. Tragico esempio è quello della vicenda di Veronica Cantone: lei credeva di fare un video privato ma già di per sé fare un video di se stessi significa sfociare in una dimensione pubblica, perché quel video è diffondibile, lo può vedere qualcun altro, se cade nelle mani di altri o viene visto da altri che poi, come purtroppo è accaduto, lo diffondono a macchia d’olio calpestando la dignità e la vita della persona. Molte patologie o molti tragici episodi nascono proprio dall’incomprensione di questo sottilissimo confine, dalla sua fraintendibilità e dalla sua estrema labilità. La comunicazione digitale perciò può essere un’arma a doppio taglio se usata senza la consapevolezza che viviamo in una società della visibilità e che da ciò deriva una maggiore responsabilità. Tutti noi viviamo costantemente in una dimensione pubblica (basta avere un profilo FB per essere già in questa dimensione) e ogni strategia comunicativa e non solo, deve partire da questa consapevolezza. La visibilità però, ha anche una potenzialità positiva che è appunto quella della responsabilità: una società visibile deve rendere conto, proprio perché tutto ciò che fa diventa pubblico, viene visto. I nuovi media possono essere delle buone risorse, se usate con questa presa di coscienza, perché si costruiscono in rete, sono “società” caratterizzate dalla reticolarità e dall’orizzontalità, e non dalla verticalità come aziende o fondazioni.
Il sottile il confine tra pubblico e privato si ripercuote anche nelle associazioni: l’organizzazione interna, ciò che fa e ciò che è non è separabile dalla sua comunicazione e azione esterna. Anzi, ciò che è interno all’assoaciazione è immediatamente anche esterno, proprio perché viviamo in questa società della visibilità e quindi ciò che accade all’interno di una data organizzazione è immediatamente visibile, sotto gli occhi di tutti. Per questo è importante non solo cosa si fa ma anche come lo si fa, poiché la reputazione di un qualsiasi soggetto o gruppo di soggetti o entità è sempre legata a entrambi gli aspetti, ci deve perciò essere sempre una coerenza, prima di tutto a monte e all’ “interno” della propria organizzazione con i principi, i valori, l’identità e la “mission” che questa si è data, altrimenti anche la comunicazione e l’azione esterna, che mira esplicitamente ad andare “fuori”, non risulta più credibile, crolla tutto l’impianto e non vengono raggiunti i risultati sociali attesi.
In conclusione Viviana Bossi chiede ai relatori quale è la loro visione per il futuro. De Mola pensando anche al proprio lavoro, torna sul tema della responsabilità. La consapevolezza che ciò che scrive arriva a milioni di spettatori gli fa capire di avere una responsabilità proprio perché ciò che fa si rivolge a un pubblico, e tra l’altro, a un pubblico molto vasto, perciò occorre avere sempre estrema cautela e porre sempre una grande attenzione in quello che si comunica. Volterrani a sua volta sottolinea che la parola giusta è proprio visione: a questo paese un po’manca o comunque una visione, una capacità di vedere, dovrebbero diventare la prospettiva delle organizzazioni non profit. E vedere non significa prevedere ma immaginare qualcosa e in questo la comunicazione è lo strumento più efficace, per creare nuove visioni, nuove prospettive, che siano però frutto non del caso ma di una progettazione e un lavoro sori, fatte con la stessa cura con cui queste associazioni portano avanti la loro azione, la loro attività sul territorio. Una bella visione, costruita con progettualità, creatività e competenze e accompagnata da una comunicazione efficace può davvero produrre quella rottura di schemi e di immaginari di cui si parlava all’inizio. Sorrentino infine conclude dicendo di sentirsi ottimista per quanto riguarda il futuro, se, dal fatto di vivere nella società della visibilità deriva questa maggiore responsabilità (che dovrebbe accompagnare appunto la consapevolezza di essere sempre visti, di essere “trasparenti”), perché la società è chiamata (o dovrebbe sentirsi sempre chiamata) a rendere conto della propria immagine, del suo essere vista e visibile, di quel che fa e di come lo fa. Qualsiasi soggetto, singolo o collettivo deve assumere questa consapevolezza. Proprio questo si intende con generazione, che non equivale all’età anagrafica. Il concetto di generazione vale nel concetto che ne ha dato Mannheim: “I membri di una generazione hanno una collocazione affine in primo luogo per il fatto che partecipano in modo parallelo alla stessa fase del processo collettivo. Ma ciò produrrebbe soltanto una determinazione puramente meccanica ed esteriore del fenomeno della collocazione […]. Non il fatto di essere nati nello stesso momento cronologico, di essere divenuti giovani, adulti, vecchi contemporaneamente, costituisce la collocazione nello spazio sociale, ma solo la possibilità che ne deriva di partecipare agli stessi avvenimenti, contenuti di vita, ecc. e ancor di più di fare ciò partendo dalla medesima forma di «coscienza stratificata»” [Mannheim, Il problema delle generazioni]. Generazione è la capacità di prender coscienza del proprio tempo e questo tempo sta facendo sì che certe generazioni, all’interno del terzo settore, stiano cominciando a guardare alla comunicazione in modo strategico e se questo accadrà sarà possibile fare molti passi in avanti per portare fuori temi sociali.