Sicuramente non è una novità questa di per sé, sappiamo tutti di essere per lo più schiavi di questi oggetti, di riuscire raramente a staccare gli occhi dal telefono o dai social media, anche solo per controllare i messaggini su Whatsapp e le notifiche ricevute. Sappiamo che navigare su internet può diventare un vortice risucchiante, se non vi si naviga con criterio, misura e senso critico. Sappiamo che questi strumenti, che certamente non vanno condannati di per se stessi, rientrando in un processo-progresso tecnologico ineluttabile. Un progresso che, appunto, se vissuto con criterio e non subendolo passivamente, potenzialmente è fonte di aspetti positivi, come ad esempio la maggiore accessibilità non elitaria e non classista di accedere a un’infinità di notizie provenienti da tutto il mondo (il problema semmai, sta nella capacità o meno di saper selezionare tra la folla di notizie quelle dotate di un senso di verità e da qui la necessità di approfondire, verificare, validare o rigettare). Il problema per i giovanissimi però, a differenza forse di generazioni nate e/o cresciute in un’era in cui la pervasività del web e della tecnologia non era così aggressiva e onnipresente/onnipotente, è proprio la passività con cui subiscono il bombardamento di ciò che circola sul web e la mancanza di andare in profondità, di leggere con cervello, con spirito critico e di messa in discussione, a volte di capire davvero quello che stanno leggendo (si vedano i dati allucinanti di analfabetismo funzionale!) e questo perché la società, a cominciare da un certo modello di scuola-azienda-studio psicoterapeutico (il colpo inferto dalla Buona Scuola è solo l’ultimo di un processo in questa direzione), e dall’attacco alle materie umanistiche e in generale al mondo della cultura e della ricerca, ci sta disabituando a pensare, a sviluppare capacità di riflessione, ragionamento e senso critico, a innescare la voglia reale di conoscere e approfondire, a dotarci di strumenti con cui saper leggere in maniera adeguata quello che ci circonda, quella che è la nostra realtà. Soprattutto ci ha abituati a non volere nemmeno più farlo, perché è passata l’idea che non sia importante andare a fondo, comprendere.
Quel che ha vinto è il pensiero della superficie, il pensiero rasoterra, che si limita a un nozionismo a macchie di panda che però è sufficiente per muoversi nell’immediato della vita quotidiana. Quel che ha trionfato è la comunicazione fatta di slogan e di tweet, il linguaggio svilito a grida da palcoscenico; quel che ha vinto è la spendibilità dell’individuo/merce nel mercato del lavoro, e chissenefrega se non ha sviluppato certe competenze e conoscenze cognitive, prevalentemente di stampo umanistico. La scuola- azienda mira a questo. Ha smesso di educare, nel senso etimologico del termine (ex-ducere, tirare, codurre fuori), di aprire le menti, di insegnare con un certo rigore e una certa severità discipline che appaiono desuete e inutili, ha smesso di pretendere uno studio approfondito, ha smesso anche di pretendere un certo modo di stare in classe, e di conseguenza, al mondo. Ha smesso di far fiorire le menti, abbassando l’asticella dei suoi obiettivi, creando un circolo vizioso in cui dai nuovi studenti, già più lobotomizzati rispetto alle generazioni precedenti e già risucchiati in un sistema che certo non li induce a sviluppare il pensiero critico, ci si aspetta sempre meno e allora tanto vale premiarli comunque, perché “non ci arriveranno mai” e perché tanto quello che poi alla fine conta è che siano preparati ad entrare nel mondo del lavoro (che poi comunque molti non troveranno, se non a livelli di precarietà istituzionalizzata). Il vuoto delle menti non viene riempito. Con questo non voglio certo sminuire il lavoro di insegnanti bravissimi e preziosissimi, che anzi, non si sentono minimamente parte di una scuola che sta andando in questa direzione, ma purtroppo anche il loro ruolo risulta vanificato entro un modello che punta al basilare, all’elementare, al funzionale, alla conoscenza puramente pragmatica. Dall’altra parte, invece, ciò che aumenta, sempre rimanendo in ambito scolastico è l’ossessività della formula, di derivazione, in parte di alcuni approcci di insegnamento nati negli Stati Uniti verso gli anni ’70, “dei bisogni del ragazzo al centro”.
Ed ecco spuntare fior fior di psicologi nelle aule, counselor, nutrizionisti, pet therapy e via dicendo. La scuola smette di educare e insegnare e si mette a cercar di “curare”, diventa psicoterapeuta di ogni piccolo o grande disagio dello studente, dalla delusione amorosa o fino ai casi di anoressia o di bullismo. Certo, il compito della scuola è anche quello di essere attenta alle difficoltà umane e psicologiche dei ragazzi, che non sono numeri o piccole entità da ammaestrare o indottrinare, e quindi è giusto, soprattutto verso i casi più gravi, che l’insegnante se ne prenda a cuore, che mantenga alta la guardia e tuteli lo studente andandogli incontro nelle sue fragilità e nelle sue difficoltà. Non è però la sua funzione primaria diventare punto di rifermento esclusivo nel sanare ogni disagio. Non deve diventare una sorta di centro di ascolto o di seduta pscicoterapeutica. Semmai in casi più problematici l’insegnante è tenuto a informare il genitore e al massimo discutere insieme sulla strada e il percorso (che non va, a mio avviso portato avanti entro le mura scolastiche) che il ragazzo, se è il caso, dovrà seguire, ma al di fuori della scuola, che nasce e svolge un’altra funzione.
Il punto principale però è un altro e qui il cerchio si chiude, tornando al servizio di Giulia Bosetti di Presa Diretta. Come da esordio, la cosa agghiacciante e un po’ sorprendente non è la dipendenza da internet e da smartphone che bene o male è sotto gli occhi di tutti e che in dosi più o meno maggiori, quasi tutti viviamo, ma è la tossicità e la bulimia di questa dipendenza che ha il potere di annullare letteralmente giovani e giovanissimi esistenze. Nel servizio venivano mostrati o intervistati ragazzi, soprattutto maschi, che oltre al fatto di passare più di dodici ore davanti a uno schermo o a giocare ai videogiochi e giochi di ruolo, hanno proprio deciso, consapevolmente di ritirarsi dal mondo reale e rifugiarsi in quello virtuale. Ragazzi che sono diventati eremiti della tecnologia e che non escono più di casa, che hanno smesso di andare a scuola, che vivono chiusi in una stanza che pare diventata un bunker. Non basta dare la colpa a internet e affini. Non basta dare la colpa alle famiglie. Certo, probabilmente in molti casi c’è sicuramente un problema di anaffettività, o soprattutto di disattenzione, di pressappochismo e di superficialità, a cominciare dalla stessa facilità con cui un genitore mette uno smartphone o un computer nelle mani di un bambino di cinque anni.
Ma a mio avviso, la volontà cosciente di auto-ritirarsi dal mondo, di auto-escludersi dal reale che molti ragazzi hanno e che molti realizzano, rientra perfettamente nel tipo di società neo-liberista e consumista in cui viviamo, così come vi rientra il discorso della “cura” a tutti i costi di ogni piccolo disagio o sintomo, o stranezza degli studenti da parte delle scuole. I casi di non accettazione, da parte di se stessi e da parte degli altri, in età adolescenziale soprattutto, ci sono sempre stati ovviamente, così come ciascuno di noi ha vissuto probabilmente complessi dovuti alla mancanza di autostima, al non sentirsi pienamente conformi a un certo standard ecc..oggi però tutto questo è esasperato all’ennesima potenza. La società più o meno esplicitamente ci chiede, anzi, pretende che siamo belli, sani, forti, felici, realizzati. Ci induce a pretendere di avere successo, di ottenere risultati a tutti i costi e a scapito di chiunque si frapponga nel mezzo, di avere un posto e un ruolo al suo interno, ci spinge a pretendere di essere informati-conformati-performati da certi modelli, soprattutto estetici e di consumo che continuamente ci vengono propinati e che ci bombardano in maniera pervasiva e aggressiva.
Ci induce ad essere individualisti e competitivi, a schiacciare l’avversario o il debole, o il “diverso” rispetto alla norma o al gruppo. In un sistema in cui ogni individuo è funzionale al mantenimento del sistema stesso, è funzionale al consumo di massa e all’accettazione supina e passiva dello stato di cose presenti, ogni “sintomo”, ogni eccentricità, ogni diversità, ogni “malattia” (non solo fisica ma anche interiore), ogni fragilità, ogni fallimento, ogni cosa che rimandi al deterioramento e che non rientra nel conformismo che ci plasma costantemente e che ci auto convince di volere/dovere essere vincenti e perfetti, vengono brutalmente rigettati. La morte, che fa parte della vita, è un discorso messo tra parentesi, o camuffata dall’idea che sia differibile, rimandabile, procrastinabile all’infinito. La morte apparentemente differita e rimandata non fa più paura, non è più compresa nel nostro vivere. Si introietta il falso pensiero che essa sia quasi impotente, che la si possa sconfiggere, annullare, rimuovere, irretire e prendere in giro. Da qui, scontato dirlo, tutta la corsa alla chirurgia estetica e alla medicalizzazione forzata. L’imperfezione e l’imperfettibilità umana, cosa vecchia quanto il mondo, studiata e analizzata da filosofi, sociologi, psicanalisti e antropologi, è fittiziamente fatta fuori, esclusa dal sistema che non può, non deve accoglierla, per lo meno non a livello di apparenza. Questa imperfezione però rimane, perché alberga in ciascuno di noi e al primo, minimo, infinitesimale sentore che essa ci sia, ecco che cadiamo dal podio di una costruzione fatta ad hoc per farci sentire potenzialmente vincenti e fiduciosi in noi stessi e nelle nostre possibilità di realizzazione.
Quando avvertiamo il sintomo, il problema, il disagio, quando non ci sentiamo più all’altezza di ciò che il sistema pretende e che noi credevamo di dover pretendere da noi stessi, allora riammettiamo la morte, la sofferenza, che spesso diventa depressione, la caduta, la possibilità, che spesso diventa certezza, di fallire, di non arrivare ad essere come questa società ci ha fatto sognare di volere/potere/dover essere. E in un mondo che pretende la perfezione, la felicità, l’auto-realizzazione, il successo, la popolarità, la conformità, il perfetto e pieno adeguamento ai modelli proposti, la totale adesione al pensiero unico, non c’è spazio per qualsivoglia debolezza, qualsivoglia senso di in appropriatezza e di insicurezza, qualsivoglia problema, qualsivoglia sofferenza, qualsivoglia anticonformismo e senso di inadeguatezza. O c’è piena adesione e, appunto, pieno conformismo e adeguamento o l’unica alternativa che sembra rimanere sia proprio quella di auto-tagliarsi fuori da un sistema, un tipo di realtà che non fa nulla per accogliere ciò che non è funzionale al suo gioco meschino e vorace.
Tu, individuo, devi poter credere di avere successo, di ottenere quello che ti aspetti. Che poi le condizioni reali impediscano questa stessa realizzazione e questo pressoché impossibile successo, non è un problema. Per quel che chiamiamo sistema è importante la semplice fiducia, aprioristica, nel sistema stesso da parte dell’individuo. È semplicemente sufficiente che quest’ultimo creda in quel sistema e negli orizzonti di possibilità e nelle aspettative che esso premette/promette senza porsi minimamente l’obiettivo di renderle effettivamente raggiungibili e realizzabili. Permette di doverci credere ma non permette, tendenzialmente, di realizzarle quelle possibilità e aspirazioni. Per lo meno non a tutti, anzi, solo a una minima parte dotata di risorse (soprattutto economiche, materiali o fisiche) sufficienti per poter accedere a certe possibilità che sono esclusività di pochi. Se però la persona si rendesse conto che queste possibilità cui il “sistema” impone di aspirare (ricchezza, bellezza, salute, lavoro, successo, popolarità, consenso, felicità, auto-realizzazione ecc..)sono un mero spauracchio, una chimera difficilmente raggiungibile, quel sistema crollerebbe o comunque si incepperebbe il funzionamento del sistema stesso.In quest'ultimo l’individuo rappresenta il meccanismo che per poter fare andare avanti la macchina e contribuire ad oliarla deve poter credere che essa funzioni per lui, quando è assolutamente il contrario, e se poi quel meccanismo rimane schiacciato dal modo stesso in cui quella macchina si muove, poco male, anzi, è la logica conseguenza di questo brutale inumano funzionamento.
L’impatto col reale distrugge quelle aspettative che quel sistema fa aleggiare ma senza permettere di toccarle veramente. È un po’il sogno americano iperbolizzato ad estremi livelli. E quando il sogno si infrange nelle condizioni di possibilità reali e nella scoperta della propria fallibilità e imperfezione, della propria inadeguatezza di fronte a traguardi promessi come possibili e di fatto tendenzialmente irraggiungibili, ecco che la persona si sente spacciata, finita, rigettata e si auto-esclude. O sei dentro o sei fuori. Non sono ammesse vie di mezzo. Perché non è ammesso non credere di sentirsi pienamente parte del “sistema”. Ogni traccia di “impurità”, di incertezza, di messa in discussione e di dubbio su se stessi e il mondo vengono annichiliti o fatti crescere come un cancro interno che mai si riversa, attivamente, al di fuori. Allora l’unica soluzione, per molti, soprattutto giovani (noi più vecchi col reale ci siamo già imbattuti e sbattuti più volte, tanto da esserci fatti le ossa e da non prenderlo per quello che non è) rimane quella di ritirarsi dalla realtà che si è smascherata per quello che è (non un regno pieno di opportunità per diventare dei re felici e contenti) e di rifugiarsi nella rete, che, se in molti casi ha il potere di distruggere e annientare (inutile citare i casi di cyber bullismo, attacchi tremendamente offensivi o diffusione di foto che hanno portato a suicidi), a volte ha il potere di alleviare quel senso di solitudine estrema e di senso lancinante di insicurezza e inadeguatezza che si prova quando ci si sente più fragili, deboli, o semplicemente diversi dal resto del mondo e questo resto del mondo spesso non ammette che ci si senta o che si sia diversi, o tristi, o deboli. Nel mondo della rete ci si può sentire compresi, o per lo meno in buona compagnia, perché si scopre che ci sono altri esseri umani (ma va!) che non si sentono belli, sani, forti, perfetti. Che (ma va!) hanno delle loro debolezze e dei loro problemi.
La conseguenza è l’auto-condanna alla solitudine e all’isolamento nel mondo reale per ritrovare una compagnia compensativa e consolatoria nel mondo virtuale, che sia rappresentato dai videogiochi che distraggono il pensiero dalla propria insoddisfazione e frustrazione, dalla propria sofferenza, o che sia rappresentato da internet e dalla folla della rete. Sempre dietro la protezione confortevole di uno schermo, una barriera che impedisce il confronto e lo scambio diretto con l’altro. Una barriera che ammortizza lo sguardo giudicante che si potrebbe incrociare nella realtà esterna. Una frontiera in cui la persona resta invisibile e quindi meno passibile di giudizio (escludendo, come detto prima, i casi in cui invece avviene proprio il contrario e in cui essa scatena tutto il suo potenziale distruttivo). La solitudine scelta fa spesso meno male della solitudine vissuta in mezzo agli altri, a volte imposta dagli altri, dal gruppo, dalla massa, dal branco. Se io di questo gruppo, branco, mondo non mi sento parte, mi faccio da parte. Mi auto-escludo perché l’esclusione degli altri fa troppo male, ancora più male. La solitudine e l’isolamento subiti spaventano forse di più di quelli scelti, sebbene la scelta sia sempre condizionata da quegli stessi motivi che mi fanno sentire solo e non accettato/accolto, non inserito e non conformato a certi tipi di parametri, di canoni, di modelli.
A mio avviso è molto grave e pericoloso nascere, crescere e dover vivere in un certo tipo di società che rimuove lo “scarto”, che induce a credere che avere qualche problema sia un problema. Tutto, a cominciare dalla vita psichica delle persone, deve essere curabile, “sanificabile”, risolvibile, migliorabile, perfezionabile, riparabile. Non è così. Proprio in quanto esseri umani, la sofferenza e il disagio, sebbene in dosi diverse, fa parte di tutti noi, così come l’imperfezione. Rimuovere, o meglio, non voler accettare e imporre di non dover accettare il sintomo è causa di sintomi ben peggiori. Introiettare l’idea che bisogna stare bene a tutti i costi vanifica ogni possibilità di stare meglio, non bene ma per lo meno, forse, più pacificati nei confronti di se stessi e dalla propria e altrui fallibilità. E la soluzione non è il ritiro forzato e indotto da questa realtà, ma la re-azione attiva e “positiva” ad essa. Si tratta di reagire di fronte a, per dirla in termini foucaultiani, quei dispositivi di potere e di sapere che impediscono di mettere in discussione il nostro atteggiamento naturale verso ciò che è ritenuto normale. Si tratta di opporsi, collettivamente e attivamente a un tipo di sistema che vuole controllare e performare mente e comportamento degli esseri umani e ingabbiarli in una impossibile normalità, uniformità, spazzando via ciò che è considerato a-normale, ciò che richiama, anche lontanamente, alla differenza e alla malattia (intesa in senso lato), all’ecceità, per usare il neologismo deleuziano. Come è tristemente noto, la pulsione di potere e di controllo è uno dei primi segni/sogni di ogni ideologia totalitaria e occorre mantenersi sempre vigili per riuscire a riconoscerla anche quando questa pulsione è più sottile, silenziosamente pervasiva e onnicomprensiva in maniera strisciante e a volte invisibile e di conseguenza meno individuabile e identificabile come tale. Siamo incompleti, irrequieti ma questa incompletezza e questa irrequietezza devono essere accolte come qualcosa di “normale” e naturale e non devono diventare l’alibi per condannarsi alla sparizione, alla propria auto-distruzione.
Avere problemi non è un problema. Sentirsi “diversi” non è un problema. È il conformismo e l’appiattimento di ciascuna differenza su ciò che è considerato accettabile, ammissibile in un mondo proiettato verso l’uniformabilità e il consenso generale, verso l’approvazione della massa, verso la “normalizzazione”; è il rimosso di ciascun umano senso di inquietudine che rende questa stessa inquietudine più penosa perché non ammessa, che rende il disagio sempre più insostenibile, fino a lasciarsi morire lentamente, o in certi casi, immediatamente. È la pressione violenta di perfezione, approvazione e realizzazione che crea aspettative spesso inconciliabili con l’essere umano. È proprio il rimosso dell’umano e della sua umana e meravigliosa unicità e vulnerabilità, che provoca la morte (intesa, anche qui, in senso lato, non solo come morte fisica), dell’essere umano stesso. Eppure, come dice la filosofa Judith Butler, soprattutto in Vite precarie, dovrebbe essere proprio questa vulnerabilità ed esposizione al dolore la radice che accomuna l’intera umanità, la consapevolezza della reciproca dipendenza e dell’umana precarietà e limitatezza. Nasciamo nudi e costantemente esposti alla sofferenza, alla possibilità di soffrire. La soluzione non è certo rimuovere questa possibilità o mascherarla né mascherare i propri limiti dentro una finzione che non può durare, ma al contrario cullare questa vulnerabilità, accoglierla, esserne consapevoli, capire che è ciò che ci rende tutti, da questo punto di vista, uguali. Bisognerebbe ripartire, per dirla con Patočka, dal punto di vista della “Notte” intesa come volontà di scontrarsi e confrontarsi, senza indugio e false autoconvinzioni, con i lati più oscuri, cupi, problematici, indecifrabili, persino spaventosi e insolubili di noi stessi e del reale. Una consapevolezza simile basterebbe, forse, a farci sentire meno soli anche laddove la società ci plasma nella convinzione di dover essere invulnerabili e vincenti. Siamo esposti, spesso impotenti, spesso disarmati, e in un tipo di sistema in cui per rientrare in una cornice di intelligibilità e di “riconoscibilità” dobbiamo adeguarci alla norma vigente (una norma storicamente e culturalmente imposta e di fatto introiettata) dovremmo essere a-normali, o comunque contrastare questa norma; dovremmo essere anti-conformisti laddove il conformismo appiattisce le coscienze e condiziona performativamente l’agire umano. E questo non lo si può fare in ritiro dal mondo, nella solitudine virtuale di uno schermo, ma collettivamente, assumendo per cominciare, l’universalità della propria esposizione al dolore, al disagio, al sintomo, al senso di inadeguatezza ai modelli imposti e presupposti. Assumendo come punto di partenza l’universale condizione di fallibilità e problematicità umana. Assumendo e accogliendo la “notte” dentro e fuori di noi.
“L’obiettivo di un’analisi (contrariamene alle psicoterapie) non è di cancellare il sintomo e sostituirlo con un’idea del bene, di normalità o guarigione. […] Il sintomo si dissolve: «dis-solversi» vuol dire «sciogliersi altrimenti»: in una différance, in una differenza, ciò che comunque porta altrove. Sciogliersi altrimenti non ha niente di drammatico, nel senso di qualcosa che è un male con cui dobbiamo flagellarci.”