E lo status quo è che le università pubbliche italiane costano agli studenti come se fossero private (una rapida panoramica la offre https://www.roars.it/online/abolire-le-tasse-universitarie-si-puo-ecco-cosa-dicono-i-numeri-e-i-confronti-internazionali/). La contribuzione studentesca – come si chiamano propriamente quelle che colloquialmente sono chiamate “tasse universitarie” – infatti nel nostro Paese ha raggiunto livelli insopportabili. Nell'insieme di Paesi relativamente paragonabili al nostro, l'Italia è il terzo posto per le rette universitarie più alte – dopo il Regno Unito (con l'eccezione della Scozia, dove l'università pubblica è gratuita a livello di laurea triennale), la Spagna ed i Paesi Bassi. La contribuzione studentesca nelle università pubbliche italiane è particolarmente alta rispetto al reddito pro capite e tenuto conto del costo della vita nel Paese; è tra le più alte in assoluto rispetto alla disponibilità di borse di studio o provvidenze paragonabili, che nel nostro Paese coprono circa il 20% degli studenti (grafici OECD Education at a Glance). Se la retta annuale di un'università pubblica italiana ammonta in media a 1600 euro (con massimi oltre i 2000), in Belgio e Francia la media è al di sotto dei 1000 euro; mentre in Danimarca, Estonia, Finlandia, Germania, Grecia, Malta, Norvegia, Slovacchia, Slovenia e Svezia l'università pubblica è completamente gratuita. In questi Paesi, ad avere importi paragonabili alle tasse universitarie nostrane sono le rette delle università private.
La contribuzione universitaria in Italia è altissima anche in rapporto agli stanziamenti pubblici destinati all'università, per i quali il nostro Paese è tra gli ultimi sia in Europa (peggio fanno solo Ungheria e Lussemburgo) che tra i paesi OCSE: in Italia solo circa lo 0,7% del PIL è investito nel sistema universitario pubblico, contro la media europea del 1,26% circa e la media OCSE del 1,5%. L'Italia, inoltre, dal 2008 ad oggi è tra i Paesi che più hanno tagliato sul capitolo istruzione. La questione della contribuzione studentesca è inestricabilmente legata a quella del finanziamento dell'università pubblica; ed è dal 2008, con l'imponente taglio disposto dalla famigerata legge 133, legata ai nomi dei ministri Gelmini e Tremonti del quarto governo Berlusconi, che gli stanziamenti destinati in Italia all'università pubblica sono in costante calo.
L'Italia è invece il primo paese europeo per numero di riforme in materia di contribuzione universitaria apportate negli ultimi anni, che da noi sono state nell'ordine del centinaio. Tuttavia, l'attuale assetto della contribuzione universitaria in Italia rimane figlio della legge 168/1989 (governo De Mita), che ha sancito l'autonomia finanziaria degli Atenei, e del DPR 306 del 1997, quando era Ministro all'Istruzione Luigi Berlinguer, che ha fissato il limite del 20% al rapporto tra contribuzione studentesca di un ateneo e quota di FFO da esso percepita – poi riformulato dal decreto-legge 95 del 2012 (con il governo Monti e il ministro Profumo), come rapporto tra contribuzione degli studenti in corso e totalità dei finanziamenti statali percepiti dall'Ateneo, così ammettendo una contribuzione studentesca molto maggiore. Trattandosi di una proporzionalità diretta, questo limite, pur fissando un tetto all'innalzamento delle tasse altrimenti indiscriminato, permette che gli atenei esigano rette tanto più alte quanto maggiori sono i fondi che ricevono dallo Stato. Da ultimo, la cosiddetta “no tax area” introdotta dal Governo Renzi e fissata a 13000 euro di ISEE, sotto i quali non è richiesto alcun contributo allo studente: una riformetta in pieno stile “80 euro”, che ha voluto far passare la salvaguardia di pochi “privi di mezzi”, arbitrariamente designati, come un intervento strutturale. I “poveri” (meglio se rispondenti ad ulteriori requisiti di merito non richiesti ai "ricchi") vengano (pelosamente) assistiti e gli altri si arrangino: questo lo spirito neoconservatore che connota l'intero sistema del diritto allo studio italiano, e che purtroppo pare godere di una certa egemonia culturale.
Generalmente, il carico della contribuzione studentesca è infatti mitigato da sistemi di fasciazione per reddito che corrispondono agli studenti uno sconto tanto maggiore quanto minore risulta il loro indicatore ISEE. Se nell’immediato la fasciazione dei contributi non può che costituire una fondamentale misura di equità, essa è tuttavia un’arma a doppio taglio poiché si presta a legittimare l’esistenza stessa prima, e l’innalzamento poi, delle rette, parassitando il nostro immaginario della (giusta) progressività fiscale generale.
È l'esistenza stessa delle cosiddette tasse universitarie a risultare, ad un'analisi un minimo attenta, difficilmente difendibile. Una qualunque imposizione, a prescindere da fasciazioni ed esenzioni, traccia infatti una linea tra persone a cui il diritto all'istruzione è garantito e persone che devono pagare per accedervi. Il diritto all'istruzione, come il diritto alla salute o alla sicurezza personale, è invece è per sua natura indivisibile, è riconosciuto oppure non lo è; nella sua universalità non può dipendere dallo status economico degli studenti; il diritto all’istruzione non può essere fasciato. È contro questa semplice questione di principio che affondano tanto le becere e trite esternazioni di chi trova “ingiusto” pagare l'istruzione dei “figli di papà” quanto le ben più raffinate argomentazioni – tipiche della polemica liberale e conservatrice, recentemente rispolverate da una serie di articoli su The Economist – di chi è a favore delle tasse universitarie in quanto chi frequenta l'università (guadagnando in media di più) dovrebbe contribuire ai costi di una formazione redditizia, senza gravare su chi non frequenta l'università (e quindi guadagna in media meno) tramite la fiscalità generale, oppure in quanto le rette, calmierate da contributi e prestiti, taglierebbero fuori i meno motivati, liberando nei corsi posti per studenti poveri ma capaci.
La diseguaglianza economica è un problema grave delle società capitalistiche contemporanee, che però va affrontato a monte, a livello di distribuzione del reddito, e che non può essere mascherato con interventi cosmetici a valle. A livello pragmatico, inoltre, bisogna anche prendere in considerazione l'ipotesi che l'ipotetico ricco genitore, a fronte di rette elevate in Italia, possa decidere di sobbarcarsi piuttosto il mantenimento del figlio all'estero, in Paesi dove l'università è gratuita oppure in università costose ma considerate più prestigiose a livello internazionale. Sono molti gli esempi contemporanei di servizi pubblici trasformati da contributi esosi e sistemi di fasciazione in ghetti per meno abbienti, mentre chi può si rivolge altrove.
Ma c'è un altro punto rilevante – che riguarda tutti, ricchi e non ricchi, universitari e non – a favore dell'università gratuita, ovvero le esternalità positive che questa produce. I benefici materiali che un laureato può ottenere dalla propria formazione sono infatti largamente sopravanzati dai benefici collettivi di una società in cui i laureati siano una fetta consistente, anche in termini di qualità della vita pubblica e del dibattito politico.
È senz’altro una triste cifra dei nostri tempi che un diritto come l’istruzione universitaria possa essere usato, positivamente o negativamente, come vessillo populista. Non ci si può aspettare granché, purtroppo, dalla polemica pre-elettorale, in cui ogni tema è strumentalizzato per scovare consensi per un sistema di partiti in crisi di legittimazione. Tuttavia, il dibattito di questi giorni deve essere un’occasione per mettere in discussione uno status quo ingiustificabile: cominciando dal riportare al centro il diritto alla formazione universitaria.
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