Venerdì, 26 Luglio 2013 00:00

Per un nuovo modello di welfare

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Nella nostra Costituzione i servizi pubblici assumono un valore di promozione sociale. Si tratta di una funzione progressiva che, nello spirito dei costituenti, andava a creare un percorso di partecipazione e coinvolgimento popolare che avrebbe dovuto coinvolgere pure l'impresa privata, immaginata con uno status di utilità sociale.

Gli aspetti storici ci possono spiegare la metamorfosi del sistema di welfare, senz'altro rispetto alla sua crisi: nel mondo occidentale in cui il nostro paese gravita dalla fine della seconda guerra mondiale, lo stato sociale è stato spesso messo in discussione, foriero – a detta dei detrattori - di clientele, sprechi, corruzione.

Il suo corposo mantenimento, pur con forti squilibri sociali e territoriali, sarebbe servito al potere durante la guerra fredda per isolare e tenere lontano dal governo nazionale l'unica forza di opposizione parlamentare ad una politica bloccata: il Partito Comunista Italiano.

Difatti, una volta smantellata la cortina di ferro e assicurata una buona parte del gruppo dirigente di quel partito all'eurosocialismo, viene rinforzata l'idea di una diversa governance dei servizi pubblici, improntata sì alla soddisfazione dei bisogni del cittadino, ma a a partire da un impianto ingegneristico ed oggettivo e retta da un management centralizzato e per certi aspetti anche più burocratico. Si tratta del New Public Management, costrutto teorico del neolaburismo eurosocialista, nella cui applicazione si consentirebbe di coniugare efficienza, risparmio e compatibilità nella riduzione della spesa pubblica.

I governi italiani vi si riallacciano diverse volte, pur ondeggiando fra ipotesi neosocialiste e neoconservatrici, nell'alternarsi di governi tecnici, di destra e di centrosinistra.

Sparisce così, l'idea di governo democratico dei pubblici servizi e di un controllo popolare di essi. Controllo che, è il caso di dirlo, nei fatti non è mai andato oltre il politico (se non del partitocratico), ma che aveva prodotto alcune riforme universalistiche, coincise con l'avanzamento democratico del paese, basti pensare alla creazione del Servizio Sanitario Nazionale datata 1978. Oppure a scuola, con la stagione dei decreti delegati del 1973/74, che intendevano trasferire il governo delle scuole nei territori, in maniera decisamente antitetica a quella utilizzata oggi con l'autonomia scolastica.

Ma il New Public Management è legato ad un'idea positiva di Europa, ancorché non condivisibile e comunque non sostenibile nelle ripetute crisi economiche degli ultimi anni. L'idea che il mercato possa regolare tutto e che il welfare state resti un'opportunità residuale di ricomposizione delle ingiustizie sociali più stridenti è drammaticamente fuori tema in una crisi di sovraproduzione, in cui serve una diversa distribuzione dei redditi di cui i pubblici servizi sono necessariamente una leva.

Neppure può bastare l'idea di introdurre forme di compartecipazione dei privati alla gestione di essi. Anzituttto perché la privatizzazione di un servizio non può diventare privatizzazione di un diritto, a meno che non si voglia consentire il lucro sui diritti sociali, incorrendo in problemi di legittimità costituzionale (il recente referendum di Bologna sui finanziamenti comunali alle scuole private ne è la conferma).

In secondo luogo, la sussidiarietà disegna un'organizzazione ricca di ambiti decisionali e valutazioni, spingendo sui manager la funzione di governo e relegando gli organi centrali e periferici dello Stato alla funzione valutativa ed ispettiva e quindi aumentando il numero di manager pubblici, con rapporto fiduciario ministeriale o locale, pur in un ottica di complessiva riduzione della spesa pubblica, dunque tradotta in taglio di indennità, contratti e posti di lavoro.

Riprendere da sinistra il dibattito sulla gestione del settore pubblico appare dunque doveroso, anche alla luce del fallimento dell'opzione liberista come pure di quella “regolamentarista”.

Occorre un nuovo sistema di welfare, in cui i cittadini diventino i protagonisti politici nella risoluzione dei problemi universali e locali. Uno stato sociale che risponda alle esigenze delle forme di lavoro tradizionali come di quelle nuove, colpevolmente dimenticate o comunque destinatarie di politiche di supporto insufficienti.

Per sostenere un'economia in crisi e lo strascico di problematiche sociali da essa originate non serve un trampolino di lancio ad un inedito rampantismo, ne una valvola di sfogo per politici in uscita - fra vecchie e nuove corruzioni.

Quello che serve al Paese è un intervento pubblico, allo scopo di riorganizzare una rete di cittadinanza e partecipazione: nelle scuole come nella sanità, nella gestione dell'acqua pubblica come degli asili nido.

Una rete che sia anche principio di critica al funzionamento dell'economia di mercato, come alla latitanza dello Stato nelle sue, pur limitate, funzioni di programmazione.

Immagine tratta liberamente da: www.solidarityweek.wordpress.com

Ultima modifica il Venerdì, 26 Luglio 2013 00:20
Antonio D'Auria

Sono nato a Castellammare di Stabia, cuore operaio nel Golfo di Napoli, nel 1979. Sono educatore al Convitto Nazionale di Prato e militante in Rifondazione Comunista. Di formazione sociologica, il mio interesse è per il mondo della scuola, con particolare riguardo alle politiche culturali e alle implicazioni sociali.

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