Lunedì, 24 Marzo 2014 00:00

Il pasticcio dei PAS: fra la disorganizzazione del MIUR e i diritti negati

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Un ufficio scolastico territoriale - quelli che un tempo in maniera altisonante si chiamavano “provveditorati agli studi”- di una città di provincia, di quelle ricche e rosse oltre l'appennino. Pomeriggio tranquillo con solo qualche schizzo di pioggia e l'immancabile funzionario di polizia a far da compagnia ai circa trenta docenti riunitisi davanti i cancelli dell'edificio che ospita la locale legazione del MIUR

Le motivazioni della mobilitazione sono apparentemente incomprensibili, e ognuno che abbia – a qualsiasi titolo – incrociato il lavoro, onorevole e frustrante, dei precari della scuola non potrà che convenire che alcune cose possono capitare solo quando lo Stato smette di garantire il bene comune, abbracciando il ruolo di opportuno miscelatore di interessi e di poteri.

Nel mondo della scuola esistono varie forme di precariato: fra queste, forse la più sfuggente è rappresentata da coloro che lavorano con regolarità da anni su posti vacanti, ovvero supplendone i titolari, senza titolo specifico di abilitazione ma provvisti del titolo di studio per insegnare in un determinato ordine di scuola o una materia nelle scuole secondarie.

Per questi insegnanti la strada della precarietà può curvare in direzione di una stabilizzazione solo a seguito di un concorso. Peraltro tale strada – intrapresa dopo la chiusura ermetica delle graduatorie ad esaurimento – garantisce affatto l'immissione in ruolo, come neppure la continuità del lavoro scolastico e degli organici, i cui tagli hanno nei fatti oscurato l'orizzonte della stabilizzazione nel lavoro intellettuale per antonomasia senza soluzione di continuità.

A vederci chiaro, il precariato scolastico non è figlio della mancata formazione di una classe docente motivata e preparata, come anche in queste ore un ministro (per l'ennesima volta proveniente dal mondo universitario – cosa che lascia comprendere come l'unificazione dei ministeri sia stata a tutto danno della pubblica istruzione) lascia intendere sottotraccia, con le solite esternazioni su merito e capacità, bensì della struttura arcaica della divisione del lavoro in questo paese, degli squilibri territoriali, della mancata irruzione delle donne nel mercato del lavoro.

In una sola espressione: sono problemi sociologici di grossa portata a cui si tenta di dare una risposta meramente amministrativa, sbagliando analisi o, più semplicemente, pagando debiti di casta e di onore.

I “nostri” docenti cosa richiedevano al dirigente territoriale del ministero? Semplice: un gesto, un aiuto nei confronti dell'ennesimo, inopportuno, vilipendio della loro condizione di sfruttati intellettuali. Essi chiedevano un impegno da parte del MIUR a garanzia del loro diritto allo studio, evidentemente messo in pericolo dall'atteggiamento che gli atenei avevano preteso di agire nel nome dell'autonomia, non considerando i problemi legati alla concomitanza del servizio da svolgere. Così, e vista l'incomprensibile renitenza alla concessione di uno speciale permesso per il diritto allo studio per questa fattispecie (da ricordare: si tratta di un numero di persone dato, il quale una volta esaurito esaurisce anche la problematica), scuole e insegnanti si sono trovati in condizioni difficili, fra esigenze di servizio e di frequenza, richiesta in luoghi anche lontani diverse decine di chilometri dalla sede di lavoro. Ma la condizione degli insegnanti è, comunque, di gran lunga la più penosa: sfruttati dallo Stato, che li utilizza come dei lavoratori stagionali, dopo aver loro richiesto una scelta – ormai effimera - fra lavoro e affetti; ma sfruttati anche dalle università, le quali hanno costruito sui percorsi abilitanti speciali (PAS) per i docenti la base dei loro affari per i prossimi anni, dopo aver ricevuto in dono dallo Stato la formazione iniziale degli insegnanti. 

Quest'ultima ha visto, dal 1999 in poi, il proliferare di lucrose sigle, a cui corrispondono pacchetti di assai dubbio valore formativo, che hanno come scopo quello di fornire un titolo a persone che spesso svolgono già quel lavoro da anni, in questo generando pure pericolose separazioni e allontanando anche - all'insegna del sempreverde divide et impera - la prospettiva di un fronte comune di lotta del precariato.

Non bastava, dunque, la lottizzazione fra atenei regionali. Nel nome dell'autonomia universitaria si è pure deciso che alcuni corsi, nel caso quelli per i docenti della scuola dell'infanzia e primaria, pur previsti dal decreto istitutivo dei PAS, non saranno attuati, ufficialmente per motivi legati al riconoscimento dei crediti formativi, ma – forse più realisticamente – per la scelta di “vendere” il corso di laurea in scienze della formazione, più lungo e costoso. 

Davanti a queste richieste, il funzionario alza la testa e riconosce le ragioni, adducendo di non poter fare niente: una risposta che, in faccia alle laudi verso il federalismo e l'autonomia, fa rabbia per il numero di battaglie che ne ascoltano il suono tombale.

Arriva in questi giorni la notizia che il Consiglio di Stato ha riconosciuto il valore abilitante del titolo di Istituto Magistrale, una bella mazzata per gli atenei, che a questo punto perderebbero la possibile utenza di alcune centinaia di insegnanti che chiedevano di essere abilitati con i PAS. 

Ma un paese in cui si ricorre, ormai sistematicamente, alla magistratura contro gli abusi amministrativi può definirsi civile? 

Immagine tratta liberamente da www.meridiananotizie.it

Ultima modifica il Domenica, 23 Marzo 2014 17:00
Antonio D'Auria

Sono nato a Castellammare di Stabia, cuore operaio nel Golfo di Napoli, nel 1979. Sono educatore al Convitto Nazionale di Prato e militante in Rifondazione Comunista. Di formazione sociologica, il mio interesse è per il mondo della scuola, con particolare riguardo alle politiche culturali e alle implicazioni sociali.

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