Sono nato a Castellammare di Stabia, cuore operaio nel Golfo di Napoli, nel 1979. Sono educatore al Convitto Nazionale di Prato e militante in Rifondazione Comunista. Di formazione sociologica, il mio interesse è per il mondo della scuola, con particolare riguardo alle politiche culturali e alle implicazioni sociali.
Quando si parla di nuove identità e nuovi processi del lavoro, spesso si tralascia il variegato universo del precariato nei servizi socio educativi. Stranamente, perché tali servizi sono quelli che subiscono nella maniera più prepotente la frammentazione delle tutele e dei diritti di welfare che, attraversando venti e più anni di politica italiana, ricongiunge il suo volto più feroce alle logiche della spending review e dello svuotamento della valenza sociale di tali diritti.
Un ufficio scolastico territoriale - quelli che un tempo in maniera altisonante si chiamavano “provveditorati agli studi”- di una città di provincia, di quelle ricche e rosse oltre l'appennino. Pomeriggio tranquillo con solo qualche schizzo di pioggia e l'immancabile funzionario di polizia a far da compagnia ai circa trenta docenti riunitisi davanti i cancelli dell'edificio che ospita la locale legazione del MIUR.
Le motivazioni della mobilitazione sono apparentemente incomprensibili, e ognuno che abbia – a qualsiasi titolo – incrociato il lavoro, onorevole e frustrante, dei precari della scuola non potrà che convenire che alcune cose possono capitare solo quando lo Stato smette di garantire il bene comune, abbracciando il ruolo di opportuno miscelatore di interessi e di poteri.
I lavoratori della scuola pubblica sono senza contratto da cinque anni.
Suona male, abituati all'imperversante coro di disistima che aleggia nei confronti del pubblico impiego da qualche anno a questa parte insieme a quelle critiche circa la funzione del welfare statale, accusato spesso di tralasciare la sua missione tramite ricorso a tecniche di elusione del lavoro, spiegate da autorevoli commentatori con dinamiche pseudo-antropologiche, a tratti vagamente metafisiche.
Che il sistema scolastico pubblico fosse diventato una sorta di bancomat, usufruibile da governi di vario colore e cifra politica, questo lo si era capito da molto tempo: il disinvestimento nella pubblica istruzione è stato pressoché costante dagli anni Novanta, marcando spesso l'assenza della sinistra parlamentare e, sempre più, la sconfitta di quella sindacale. Così, mentre ci ritroviamo con uno stato sociale ridotto all'osso, riemergono serie questioni salariali aggravate da scelte ideologiche e sbagliate che nulla hanno a che fare con le dinamiche di funzionamento di un servizio educativo.
Varcare l'ingesso di un istituto scolastico italiano, oggi, può riservare molte sorprese. Mentre il diritto universale all'istruzione si rimodula in quasi-mercati scolastici e molti dirigenti affrontano - spesso dimenticandosi che mandare avanti una scuola non equivale al semplice soddisfacimento dell'utenza - con stile manageriale la quotidianità sociale, cercando di offrire i più svariati supporti alla didattica, alcuni sacrosanti e altri meno, ci si imbatte sovente in porte rotte, allarmi inefficienti, bagni guasti e lesioni agli stabili di varia entità.
Provate ad immaginare un istituto scolastico, abbastanza grande, di quelli realizzati in periferia. Una scuola nel bel mezzo del nulla, mancante di mezzi pubblici frequenti e di servizi vari e, soprattutto, di una rete internet efficiente.
Qui, un dirigente scolastico impone ai docenti l'utilizzo del registro elettronico, per mezzo di una seduta di collegio dei docenti per la verità con poche opposizioni.
Un collegio dei docenti serale, di quelli che ti fanno saltare la cena, in una scuola qualsiasi di una città qualsiasi in una regione che ha una storia mirabile per ciò che riguarda i servizi sociali come la nostra Toscana. In questo contesto, a discussione iniziata, il dirigente scolastico cita l'ennesima sigla della scuola italiana: i B.E.S., acronimo di bisogni educativi speciali.
Arriva in questi giorni, dopo il licenziamento da parte del Consiglio dei Ministri del nove settembre scorso, il Decreto Legge sull'istruzione.
Il titolo dato a questo DL 104 è “misure urgenti in materia di istruzione, università e ricerca”. Si tratta del primo provvedimento organico sull'argomento da parte di questo governo, anche se la natura stessa indica in una legge di conversione dall'iter molto incerto la possibilità che esso si tramuti in legge.
In un'ipotesi socialista, lo Stato dovrebbe occuparsi dei bisogni dei cittadini lungo tutto l'arco della vita, mentre nelle migliori tradizioni socialdemocratiche e liberali europee, esso – parecchio più magro – si accontenterebbe di non lasciare da soli i cittadini nelle difficili condizioni delle crisi cicliche di un'economia di mercato.
Lo stato in cui si trova il nostro Paese, però, non corrisponde ad alcun modello: abdicata ogni funzione di mobilità sociale e programmazione sembra volersi liberare di ogni garanzia, nella speranza che senza regole tutto viaggi meglio e si adegui alla naturalezza delle cose.
Nella nostra Costituzione i servizi pubblici assumono un valore di promozione sociale. Si tratta di una funzione progressiva che, nello spirito dei costituenti, andava a creare un percorso di partecipazione e coinvolgimento popolare che avrebbe dovuto coinvolgere pure l'impresa privata, immaginata con uno status di utilità sociale.
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