Classe 1988, nasce a Trapani, sotto il sole raggiante che bacia la costa occidentale della Sicilia. Grazie all'influenza del padre si appassiona alla fotografia, passione che spesso prende le sembianze di una vera e propria ossessione con la quale tediare chiunque capiti nel suo raggio d'azione. Toscano d'adozione, attualmente studia fotografia presso la Libera Accademia di Belle Arti di Firenze. Confidando nelle proprietà del buon vino, che inscindibilmente lo accompagna fin dall'anagrafe, rassicura se stesso e chi gli sta accanto asserendo che migliorerà invecchiando.
C'è una via, a Firenze, dove l'asfalto si fonde con la memoria di un passato violento. Migliaia di turisti la lambiscono ogni giorno, mentre indaffarati nel dare un senso al loro viaggio fagocitano con una fotocamera frammenti di arte rinascimentale, destinata a divenire un mucchio di pixel da mostrare orgogliosi ai parenti. Qualcuno l'attraversa, ma in pochi forse ricordano: incastonata in un triangolo delle meraviglie, tra Ponte Vecchio, gli Uffizi e Piazza della Signoria, si trova via dei Georgofili. Qui, la notte del 27 maggio 1993, Cosa Nostra decise di estendere il metodo stragista adottando una strategia di carattere terroristico-eversivo, in una guerra allo Stato da condurre su tutti i fronti. “Ucciso un giudice, questi viene sostituito; ucciso un poliziotto avviene la stessa cosa, ma distrutta la torre di Pisa si distrugge un bene insostituibile con danni incalcolabili per lo Stato”, queste le parole del presunto trafficante di opere d'arte che suggerì agli esponenti mafiosi l'idea dell'attentato. L'autobomba, che causò cinque morti, quarantotto feriti e la distruzione della Torre dei Pulci, rappresentava la risposta della criminalità organizzata all'inasprimento delle pene previsto dall'articolo 41 bis, il quale comprendeva un regime di carcere duro e l'isolamento. L'esplosione causò anche il parziale danneggiamento di numerosi dipinti, nonché del complesso artistico-monumentale della Galleria degli Uffizi.
Quando ci si appresta ad analizzare la produzione di un artista, magari avendo dapprima visitato una mostra retrospettiva che ne riassume il lavoro, bisognerebbe essere obiettivi. Prendersi del tempo, lasciare che l'onda dell'estasi visiva s'infranga sulle rive dell'oggettivo e che ritorni indietro, come risacca tenue e posata, nel quieto mare dell'imparzialità. Così il nostro critico d'arte, giornalista o burattinaio di parole dovrebbe ricacciare in un angolo entusiasmo, adrenalina e quant'altro di riconducibile al sentimento, per evitare di distorcere la percezione dello spettatore nei confronti dell'oggetto in esame. Lo scrivente, convinto che l'equidistanza del “buon” giornalismo sia una chimera per nulla auspicabile, prega i gentili lettori di perdonargli fin d'ora l'incapacità di dissertare con lucido distacco, caratteristico delle istruzioni per l'uso. In compenso garantisce loro l'onestà intellettuale di chi rimette al pubblico il diritto di verificare, parola per parola, afflato per afflato, che quanto scritto aderisca alla pura realtà dei fatti. L'unica forma di oggettività che ci piace menzionare, semmai, è quella “nuova” e “tedesca” dei coniugi Becher, pionieri in bianco e nero della fotografia industriale nella Germania post-bellica.
“Compagno”, un termine rinnegato dal gergo di certe formazioni politiche (presunte) di sinistra, ma espressione meravigliosa a partire dalla sua etimologia: cum (con) panis (pane), sta ad indicare colui con cui si spezza insieme il pane, gesto supremo di condivisione; e proprio un'atmosfera di condivisione era quella che avrebbe respirato chiunque si fosse trovato presso la Casa del Popolo “Il Progresso”, a Firenze, dal giorno 11 al 13 ottobre. Il workshop del fotografo Giulio Di Meo è stata l'occasione per avvicinarsi, “profani” e non, all'universo della fotografia sociale.
Il treno completa la corsa sul binario n. 24, penetrando nel grembo affollato della stazione con la dolcezza di un amante che scivola piano fra le gambe di una vergine. I passeggeri stipati nei compartimenti si ergono in piedi e conquistano la via più breve verso l'uscita, con l'entusiasmo di chi è stato appena chiamato alle armi. Lo spaccato di umanità che si accalca in attesa dietro le porte è quanto di più vario si possa immaginare: c'è il fumatore incallito con la sigaretta già serrata fra le labbra, un bambino che traccia la sua rudimentale firma sulla condensa mentre la giovane innamorata è impegnata a scambiare sguardi complici con chi l'attende al di là del vetro. Si spalancano i portelloni e quell'insieme eterogeneo di esistenze riprende il suo corso, sotto la battente pioggia d'ottobre che sbiadisce i ricordi di un'estate lontana una manciata di secoli.
E il settimo giorno Dio creò la reflex. Proprio così, il Creatore dev'esser stato il capostipite dei famigerati “fotografi della domenica”. Proviamo per un attimo, con un blasfemo quanto calzante esercizio di revisionismo storico, a sovvertire ciò che da sempre tramanda la bibliografia ufficiale. Immaginiamo il nostro vecchio dalla folta barba bianca e dallo sguardo bonario, degnatosi di raggiungerci dalle sue “lontananze stellate”, per dirla con Majakovskij. Ritrovatosi al cospetto della primordiale bellezza che la Terra sfoggiava a pochi giorni dalla sua genesi, non poté fare altro che fermarsi ad ammirarla.
“Cafetina”: un termine che sembra richiamare alla mente sconfinate piantagioni di caffè; ma se la storia raccontata nelle immagini di “All imperfect things” di Pep Bonet fosse un caffè, sarebbe certamente quello dal sapore più amaro.
Bologna, Anno Domini 1977. Radio Alice, una delle massime espressioni dell'ala creativa del movimento studentesco, sfuma le trasmissioni sulle note di “Lavorare con lentezza”. Un giovane Claudio Lolli dà alle stampe “Disoccupate le strade dai sogni”, successore di quella che la critica considera una pietra miliare della musica cantautorale italiana: “Ho visto anche degli zingari felici”. Un'ouverture di sax firmata da Danilo Tomasetta che, da sola, vale il costo dell'intero album. Prezzo politico di tremilacinquecento lire imposto all'allora Emi Italiana, ai tempi in cui un LP ne costava pressappoco cinquemila. In strada, una Fiat 127 sfreccia davanti ad una trafila di locandine. Su una di queste fa bella mostra di sé il volto dall'espressione sorniona di Roberto Benigni, ammiccante giullare al centro di una carta da giuoco. Poco sotto, una scritta rossa e blu a caratteri misti tra lo stampatello ed il corsivo suggerisce il titolo della pellicola: “Berlinguer ti voglio bene”. Diretto da Giuseppe Bertolucci, ritratto irriverente e scurrile del sottoproletariato della provincia toscana,
Sfogliando le pagine di “Pig Iron”, ultima pubblicazione indipendente ed autoprodotta di Giulio Di Meo, fotografo da anni impegnato nel campo del reportage sociale, sembra di vederli sfrecciare uno per uno quei quattrocento vagoni che concorrono a formare il treno più lungo del mondo. Sembra quasi di sentirli sferragliare mentre corrono in direzione del porto di São Luís, costeggiando fazendas un tempo destinate al caffè tra le regioni del Pará e del Maranhão, attraversando uno fra gli stati del Sud America con più ricchezze naturali: il Brasile.
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