Martedì, 04 Giugno 2013 22:23

Tano D'Amico - Fotogrammi dalla stagione del dissenso

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Bologna, Anno Domini 1977. Radio Alice, una delle massime espressioni dell'ala creativa del movimento studentesco, sfuma le trasmissioni sulle note di “Lavorare con lentezza”. Un giovane Claudio Lolli dà alle stampe “Disoccupate le strade dai sogni”, successore di quella che la critica considera una pietra miliare della musica cantautorale italiana: “Ho visto anche degli zingari felici”. Un'ouverture di sax firmata da Danilo Tomasetta che, da sola, vale il costo dell'intero album. Prezzo politico di tremilacinquecento lire imposto all'allora Emi Italiana, ai tempi in cui un LP ne costava pressappoco cinquemila. In strada, una Fiat 127 sfreccia davanti ad una trafila di locandine. Su una di queste fa bella mostra di sé il volto dall'espressione sorniona di Roberto Benigni, ammiccante giullare al centro di una carta da giuoco. Poco sotto, una scritta rossa e blu a caratteri misti tra lo stampatello ed il corsivo suggerisce il titolo della pellicola: “Berlinguer ti voglio bene”. Diretto da Giuseppe Bertolucci, ritratto irriverente e scurrile del sottoproletariato della provincia toscana,

verrà eletto a film-culto per acclamazione popolare nonostante un imponente boicottaggio per mano della censura democristiana . Gli angoli di un enorme manifesto pubblicitario – scollati, arricciati, appesantiti dalla pioggia – accettano reticenti l'invito a danzare con la brezza invernale. Lo slogan di un omino intento a pedalare asserisce che non v'è alternativa, per una parete grande non serve un pennello grande ma un grande pennello. Un ragazzo lo scruta, scuote la testa ed intirizzito stringe i pugni nelle tasche del suo eskimo. Entra in un bar, chiede un caffè e paga le cinquanta lire di rito. Fa la conta degli spiccioli, centellinandoli con le dita mentre scivolano via da una mano all'altra. Potrà permettersi il lusso di un pacchetto di sigarette: Nazionali senza filtro, ché il gusto ci guadagna con buona pace dei polmoni. Inspira ed espira lentamente il fumo dell'ultimo tiro, getta a terra il mozzicone e lo spegne contro la suola di una Clarks. Gli si avvicina un uomo con la macchina fotografica al collo, chiede delle indicazioni. Percorrono insieme il tragitto che dagli stretti vicoli bolognesi sfocia nel ventre della madre di tutte le piazze, Piazza Maggiore.

Dice di chiamarsi Tano, per l'anagrafe Tano D'Amico. Quel fotografo dall'incedere sicuro e dallo sguardo vivace ha origini lontane, non tanto nel tempo quanto nello spazio. A dargli i natali è stata Filicudi, piccola isola incastonata nell'arcipelago delle Eolie: "Sono nato nel 1942. Ora Filicudi è lo scheletro dell'isola che amavo, ci sono attori e produttori ed artisti di successo. Non ci abitano più. Quando ero bambino si sentivano i versi delle bestie - il muggito, l'asino che ragliava, l'abbaiare di un cane. Ora non si sentono più, e neanche si vedono, gli animali". Da piccolo emigra con la famiglia a Milano dove rimarrà sino ai primi anni '60, che lo vedranno iscriversi all'Università Cattolica presso la facoltà di Scienze politiche. Del corpo docente fa parte anche Gianfranco Miglio, colui che a distanza di anni sarà noto alla cronache come l'ideologo della Lega Nord. Smetterà presto di frequentare i corsi e non conseguirà la laurea, ma ricorderà per sempre in maniera vivida – con un misto di stupore e sdegno – come fossero trattati argomenti, per l'epoca, ritenuti scabrosi: “Ricordo come si parlava dell'omosessualità e della prima notte di nozze nelle lezioni di Morale cattolica. Mi sembrava pornografia, facevano apparire la vita delle persone in una dimensione sordida”. Tano ritorna in Sicilia, a Trapani, per la naia. L'attenzione verso gli ultimi e gli emarginati deriverà fortemente dall'esperienza del servizio di leva, andando in seguito a confluire nel suo stile fotografico.

Eravamo la feccia della feccia della feccia. Tutti insieme, giovani delinquenziali, deviati e devianti”. Anche un condannato per delitto: “Nessuno gli ha mai detto assassino, ma un giorno uno disse ad un altro che era un ladro e quello si mise a piangere: lì ho rivalutato molto gli oppressi”. Una volta smessi i panni di fante, Tano parte alla volta di Milano e subito si rimette in marcia verso Roma con al collo la sua inseparabile Leica. S'avverte qualcosa di diverso nell'aria, forse l'eco della famigerata risposta, di dylaniana memoria, che “sta soffiando nel vento”. Se il vento fischiava, d'altronde, ora fischia più forte e tutt'attorno la tensione sociale sta montando. E' la vigilia del maggio francese e dell'immaginazione al potere – per dirla con Marcuse – quando il nostro approda alla rivista di Potere Operaio (curando la veste fotografica del foglio settimanale “Potere Operaio del Lunedì”) e, qualche anno più tardi, al quotidiano di Lotta Continua.

Fin dagli esordi della sua carriera, Tano ha sempre dimostrato di possedere uno stile originale ed immediatamente riconoscibile. Il taglio rivoluzionario delle sue immagini, spesso catturate attraverso un 35mm a focale fissa ed impresse rigorosamente su pellicola in bianco e nero (perché “col bianco e nero è possibile cercare le linee più intime della realtà”) lo distingue dagli altri colleghi impegnati in quegli stessi anni a testimoniare i movimenti di piazza. Si dichiara contro quel modello di fotografia che definisce “da Unità”, ortodosso: classica ripresa dall'alto (“se in piazza c'erano centomila persone, si dovevano vedere centomila puntini”) dove i dettagli si perdono svilendo la loro forza visiva a favore di una massa omogenea ed uniforme che ingloba in sé, oscurandola, l'individualità dei singoli. Enrico Deaglio, direttore di Lotta Continua dal '77 al '82, lo derideva bonariamente: “abbiamo la fortuna di avere Tano, c'erano centinaia di migliaia di persone in piazza e lui torna con le foto di cinque occhi e tre mani", mentre Oreste Scalzone diceva: “nelle sue foto di manifestazioni c'era una grandissima speranza e nelle altre invece un pessimismo di fondo, da toccarsi le palle”. L'approccio di stampo filantropico che ha con i suoi soggetti lo deve, con ogni probabilità, al fatto che i movimenti li abbia vissuti prima in quanto sostenitore attivo e partecipe delle loro lotte e soltanto dopo in qualità di foto-giornalista. E pensare che lui, il fotografo, non avrebbe nemmeno voluto farlo.

Lo confessa tra le pagine del volumeDi cosa sono fatti i ricordi, pubblicato nel 2011. Il testo è edito da Postcart, una promettente casa editrice sensibile in particolar modo alle tematiche sociali e vede raccolti sessantatré articoli scritti per il settimanale “Gli Altri”. In uno di questi, Tano ammette di non aver mai avuto la passione per la fotografia (“mi sembra qualcosa di maniacale”) e di non averne compreso appieno la natura: “una bella foto di reportage è un paradosso che non ho mai capito – dice. – Nasce perché il fotografo l’ha creata, l’ha aspettata, l’ha capita, l’ha fatta nascere proprio in quel luogo, proprio in quell’istante, in quella situazione. E se quella fotografia ha vita propria è per tutto quello che l’allontana, per tutto quello che va oltre quel luogo, quel momento, quella situazione”. Affinché un'immagine venga sublimata allo status di icona, dunque, è necessario che trascenda il momento contingente, si disancori dal peso della realtà ed in virtù di un felice connubio tra forma e contenuto brilli di luce propria. Non mancano le stoccate nei confronti del reportage contemporaneo, reo di propinarci unicamente raccapriccianti atlanti dell'orrore. Un sentimento che si accompagna al terrore di un inevitabile appiattimento sul piano della potenza evocativa, che Dostoevskij aveva abilmente delegato alle parole del procuratore Ippolit Kirillovic nell'arringa contro Dimitri Karamazov: “Appunto in questo consiste il nostro terrore; nel fatto che così fosche vicende abbian quasi cessato di farci terrore! Ecco di cosa bisogna sentir terrore, dell'abitudine che ci abbiam fatta e non già esclusivamente del misfatto di questo o quell'individuo”. Il “giovane fotografo che per accompagnare i movimenti non aveva più di che vivere” ha ben chiaro cosa significhi un pugno di fagioli borlotti per cena, durante l'occupazione di una casa; conosce il prezzo pagato – alto, a volte insostenibile – da chi viene sorpreso dalla Storia in direzione ostinata e contraria; fa risplendere la dignità di coloro ai quali una certa iconografia diffusa dai media, nonché una larga fetta delle istituzioni politiche, tendevano a negare la legittimità del dissenso (“erano i carcerati, i senza lavoro, i senza casa, i pazzi, le donne e gli uomini comprati e venduti e che anche dai testi sacri della nostra Sinistra erano bollati”). Restituiva bellezza ai volti di un ceto eterogeneo che, per la prima volta, rivendicava i propri diritti riempiendo le piazze in un coro di vibrante protesta: il lumpenproletariat (= sottoproletariato) della dottrina marxista, categoria sociale formata dagli scarti delle altre e priva – nel nostro caso fino a quel momento – di coscienza di classe. Proprio sulla bellezza si sofferma nell'articolo intitolato “Chiamare alla vita”, dove segna la linea di demarcazione tra una brutta ed una bella immagine: “una differenza come tra la vita e la morte. Una brutta immagine, un'immagine superflua, anche se raffinata, mostra ma non chiede. […] Una brutta immagine può essere solo capace di intrattenere. Una bella immagine ha bisogno dello spettatore. Chiede che lo spettatore la completi, ne sia anch'egli autore. Gli porrà sempre domande, lo aiuterà a cercare risposte. Lo aiuterà a domandare, a chiedere. A domandarsi, a chiedersi. Una bella immagine è un problema”.

Tuttavia gli anni '70 di Tano, come una cartolina spedita dal passato, hanno anche un lato che stenta a rivelarsi allo sguardo di chi li rivive. Sarà per pudore o forse, più realisticamente, per vergogna. Sul retro di questa carta ingiallita sono tanti i nomi di coloro che in quel passato vi hanno lasciato, oltre ai sogni, anche la vita. Servirà citarne un paio per non lasciare atrofizzare gli occhi della memoria, non prima che possano rivolgere un ultimo sguardo a quei “servi disobbedienti alle leggi del branco”. Nel marzo del 1977, a Bologna, nel corso di alcuni scontri di piazza venne ucciso Francesco Lorusso, militante di Lotta Continua; il 12 maggio dello stesso anno, a Roma, durante una manifestazione per celebrare il terzo anniversario del referendum sul divorzio, viene colpita a morte Giorgiana Masi. I suoi diciotto anni rimarranno tali per sempre, al cospetto di quella lapide che mestamente continua a recitare: “Se la rivoluzione d'ottobre fosse stata di maggio...”. Capri espiatori sacrificati sull'altare di un potere che non accetta alcuna forma di contraddittorio.

In una profezia biblica di Isaia (“Shomér, Ma Mi-Llailah?”) ambientata nella notte di un luogo non meglio precisato, un uomo domanda alla vedetta: “Sentinella, quanto manca all'alba?”, “Arriva l’alba, ma presto anche la notte. Se volete fare altre domande, tornate di nuovo”, gli risponde la guardia. Di domande, in quegli anni, furono in molti a porsele e lo fecero con la forza dirompente che solo l'unione e l'organizzazione sanno conferire ad una massa. Chissà se l'alba fosse il sorgere di quel sol dell'avvenire che una generazione intera stava attendendo, o se si trattava delle luci di un convoglio in arrivo, quello del riflusso nel privato che da lì a poco avrebbe spazzato via quanto di buono si era costruito. Gli scatti di Tano, questo è certo, erano come fulgidi bagliori che illuminavano a giorno la rossa primavera della contestazione. E' bello continuare a sperare, nelle preghiere laiche della sera, che quelle lucciole tornino a brillare in questa nostra lunga notte.

Immagine tratta da: www.csfdams.it

Ultima modifica il Lunedì, 20 Aprile 2015 08:40
Davide Barbera

Classe 1988, nasce a Trapani, sotto il sole raggiante che bacia la costa occidentale della Sicilia. Grazie all'influenza del padre si appassiona alla fotografia, passione che spesso prende le sembianze di una vera e propria ossessione con la quale tediare chiunque capiti nel suo raggio d'azione. Toscano d'adozione, attualmente studia fotografia presso la Libera Accademia di Belle Arti di Firenze. Confidando nelle proprietà del buon vino, che inscindibilmente lo accompagna fin dall'anagrafe, rassicura se stesso e chi gli sta accanto asserendo che migliorerà invecchiando.

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