Sabato, 26 Ottobre 2013 00:00

Giulio Di Meo - Non per un dio ma nemmeno per gioco

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Compagno”, un termine rinnegato dal gergo di certe formazioni politiche (presunte) di sinistra, ma espressione meravigliosa a partire dalla sua etimologia: cum (con) panis (pane), sta ad indicare colui con cui si spezza insieme il pane, gesto supremo di condivisione; e proprio un'atmosfera di condivisione era quella che avrebbe respirato chiunque si fosse trovato presso la Casa del Popolo “Il Progresso”, a Firenze, dal giorno 11 al 13 ottobre. Il workshop del fotografo Giulio Di Meo è stata l'occasione per avvicinarsi, “profani” e non, all'universo della fotografia sociale.

Questo nome non è nuovo alle pagine de Il Becco: ci eravamo occupati di lui in seguito alla pubblicazione di “Pig Iron”, reportage incentrato sulle ingiustizie sociali ed ambientali perpetrate dalla multinazionale del ferro Vale, ai danni delle popolazioni brasiliane del Pará e del Maranhão.

La fotografia di Di Meo rifugge la retorica del vittimismo e non cede alla spettacolarizzazione del dolore, tendenza che al giorno d'oggi caratterizza una consistente corrente fotografica artistico-mercantile. Lo scopo che si prefigge è disarcionare le coscienze dal coma massmediatico in cui sono sprofondate e, alla luce di una rinnovata cultura visuale, farle brillare insieme ai volti degli sfruttati, degli oppressi, dei ribelli senza nome, che sono gocce di splendore e arsenico nel calice di politici e governanti. Bisogna rendere ancora più oppressiva l’oppressione reale con l’aggiungervi la consapevolezza dell’oppressione, ancor più vergognosa la vergogna, dandole pubblicità, insegna Marx. Se è vero che gli affari sono i soldi degli altri, concimati con il sangue dei poveri della Terra è destino dell'uomo, prima ancora che del fotografo, parteggiare, prendere parte, non smettere la lotta; e ancora, per dirla con Pino Bertelli: “la fotografia non è altro che un accumulo di consensi truccati, che crollano sotto gli sguardi insolenti dell’ultimo bambino Indio ammazzato per fame dalle Multinazionali del crimine e dai governi dei Paesi ricchi. Dietro una fotografia si nasconde un truffatore o un poeta. La Fotografia è un incanto della mediocrità o un supplemento d'esistenza. La prima cosa che un fotografo deve apprendere è la parte contro la quale sputare”.

A seguire lasciamo che sia lo stesso Giulio a parlarci di sé, in un'intervista rilasciata a margine della due-giorni fiorentina che l'ha visto protagonista insieme ai suoi allievi.

1) Alla luce di quello che ci hai raccontato attraverso le immagini racchiuse in “Pig Iron”, quali risultati sei riuscito a raggiungere grazie alla pubblicazione dell'opera?

Se ne sono raggiunti diversi. Innanzitutto bisogna dire che l'idea, a monte, era quella di dimostrare che fosse ancora possibile perseguire un fine informativo/divulgativo attraverso la pubblicazione di un reportage. A questo proposito, l'obiettivo principale era di renderlo accessibile, se non a tutti, alla stragrande maggioranza; motivo per il quale si è optato per un prezzo “politico”, che tale appare soprattutto se raffrontato al costo medio dei libri fotografici in circolazione.

A ciò va aggiunta la totale assenza di una grande distribuzione, volontariamente bypassata, sostituita da un vero e proprio tour di presentazioni – poco meno di una trentina fino ad oggi – effettuate nei luoghi più disparati: dalle gallerie d'arte ai centro sociali, dai circoli Arci ai festival culturali.

In occasione di questi incontri ho avuto la possibilità di diffondere il contenuto del mio progetto, nonché di sensibilizzare quanta più gente possibile nei riguardi della tematica in questione. Quel che più conta, però, è di riuscire a destinare ben la metà dell'intero ricavato a favore della realtà fotografata, quindi alle comunità del luogo.

A distanza di sette mesi dalla pubblicazione del libro sono stati inviati in Brasile circa tremila euro: non una somma da capogiro, ma senz'altro un ottimo inizio che motiva a perseverare.

2) Facciamo un passo indietro nel tempo, giusto per indagare l'origine di questo tuo interesse. Com'è nata la passione per la fotografia?

Vengo attratto dal mondo della fotografia attraverso mio padre, anche lui appassionato. Insieme ad alcuni suoi amici ci ritrovavamo sia in fase di scatto che, subito dopo, in camera oscura, una tappa dell'iter fotografico che da sempre mi ha incuriosito ed affascinato. In un secondo momento, la passione che inizialmente era soltanto per la fotografia va a fondersi con quella per il viaggio. In questo modo, a partire dall'età di quindici anni, ho avuto la fortuna d'intraprendere i primi spostamenti, ritrovandomi fra le mani l'attrezzatura “ereditata” da mio padre.

A questo si aggiunga anche l'aver sposato la scelta dell'impegno sociale, che ha proseguito e concluso in maniera naturale il filo rosso che già legava i due precedenti interessi.

3) Quali sono state o quali rimangono le tue figure di riferimento?

L'elenco sarebbe lunghissimo. Paradossalmente, una delle personalità che mi ha influenzato di più è quella di Fabrizio De André. Dato il nesso mancante tra la figura del cantautore ed il mondo del quale mi occupo, si potrebbe cedere alla tentazione di credere che non vi sia alcun legame fra di essi. Contrapposizione e disarmonia smentite dal fatto che numerose delle tematiche che sono state care a De André, in seguito, sono confluite nel mio immaginario.

Ricollegandomi per un attimo alla domanda precedente inerente alla passione, per dirla con Faber potremmo citare un verso della canzone “Bocca di rosa”, che recita: “C'è chi l'amore lo fa per gioco, chi se lo sceglie per professione, Bocca di rosa né l'uno né l'altro, lei lo faceva per passione”. Non mi stancherò mai di ripetere quanto abbia interiorizzato e fatto mio questo concetto, in relazione a tutto quello che concerne il sentimento che nutro per la fotografia.

4) Adesso volgiamo lo sguardo verso l'evoluzione del mezzo nell'ambito di nostra pertinenza. In un periodo come quello attuale, durante il quale va sempre più consolidandosi un boom della tecnologia digitale, come la pensa chi come te ha mosso i primi passi in analogico?

Come molti della mia generazione ho iniziato lavorando in analogico. Dapprima ho vissuto male la transizione poiché ero fra i più “integralisti”, coloro che non vedevano di buon occhio la conversione tout-court alla nuova tecnologia. Del resto, è pur vero che non si può arginare il progresso.

Col passare degli anni sono stato costretto a vincere ogni indugio nei confronti del digitale, anche soltanto per questioni prettamente economiche derivanti dagli eccessivi costi che l'analogico esige. Senza ombra di dubbio questo nuovo processo ha facilitato l'approccio alla fotografia e ci ha condotti ad una maggiore democratizzazione del mezzo; di contro si è verificata un'invasione di immagini, così come di millantati fotografi.

Essendo cresciuto “in analogico” non posso che venerare ciò che attiene all'universo della camera oscura ed alla magia che reca con sé, pura poesia a tutti gli effetti, che è andata perdendosi con l'avvento del digitale. Ricordo bene i tempi in cui scattavo su pellicola, l'attesa di sviluppare il rullo – prolungata anche di un paio di settimane, nel caso ti fossi trovato all'estero – la frenesia di guardare i provini a contatto e ricercare quei quattro o cinque scatti che avevi creduto validi; la smania di vedere il risultato finale, che spesso era una cagata! [ride] (il lettore voglia perdonare l'ironico turpiloquio, ndr).

Un altro aspetto interessato dall'aggiornamento della tecnologia è quello riguardante la crescita, la maturazione personale, oggi resa più lenta dalla possibilità di scattare migliaia di foto sulle schede di memoria. Nell'epoca dei rullini, invece, ogni sbaglio corrispondeva ad un costo e ciò costituiva lo stimolo maggiore per far tesoro degli errori.

5) Veniamo alla scelta stilistica tra il bianco e nero ed il colore, anche in questo caso vi sono puristi che si premurano d'affollare una schiera per deprezzare l'altra. Qual è il tuo atteggiamento?

Principalmente lavoro con il bianco e nero e le ragioni di questa scelta spesso si fondano su motivi di ordine prettamente sentimentale. Mio padre stampava in bianco e nero, come tutti gli autori che maggiormente hanno influenzato la mia crescita, il modo di concepire la fotografia, nonché il modo di guardare ad essa.

Indubbiamente l'utilizzo del bianco e nero riesce a valorizzare i contenuti di alcune narrazioni così come, per altri versi, ne è capace il colore. Solitamente, ad onor del vero, a questa domanda rispondo prendendo in prestito le parole di Robert Frank: “Il bianco ed il nero sono i colori della fotografia poiché simboleggiano l'alternanza tra la speranza e la disperazione, alle quali il genere umano è soggetto da sempre”.

6) Quali consigli daresti a chi vuole avvicinarsi alla professione?

Posto che farlo sia difficile come credo lo fosse anche vent'anni fa, nel frattempo molte cose sono cambiate. È morto un certo modo di fare fotografia così com'è morto il mondo dell'analogico o, per meglio dire, è tutto in trasformazione. Chi vuole avvicinarsi alla professione dovrà farlo con passione, senza fermarsi dinnanzi alla prima porta sbattuta o in seguito ad una lettura scoraggiante del proprio portfolio ma ascoltare più campane, più pareri. Non pensarsi mai arrivati, bensì rimettersi continuamente in gioco. A quel punto comprendere in che direzione spingere il mondo della fotografia di reportage, che non può assolutamente venire a mancare. Bisogna cercare di capire come, attraverso gli odierni modi di comunicare, tutto questo possa costituire una nuova professione, poiché è impensabile non riuscire a vivere del proprio mestiere. In definitiva trovare nuove strade, come la formazione di collettivi, ritornando a lavorare sui territori raccontandone le difficoltà e le problematiche; affidarsi al finanziamento dal basso, ponendo sempre e comunque la qualità al primo posto.

7) Per concludere, parliamo dei tuoi programmi per il futuro. Cosa bolle in pentola?

Almeno un paio di lavori. Quello sulla comunità Sahrawi, da portare a compimento sulla falsa riga dell'ultimo, seguendo le fasi del fund raising e della piccola distribuzione, con presentazioni dirette; anche in questo caso è previsto un ritorno economico destinato alle comunità locali, da investire in progetti educativi e d'istruzione. Un altro che mi sta particolarmente a cuore è quello su Taranto, sia perché incentrato sul Sud Italia, sia per il nesso di continuità con la vicenda di “Pig Iron” (giova ricordare che una parte del ferro lavorato all'Ilva di Taranto arriva dalle miniere brasiliane). Anche qui si ripetono le medesime dinamiche, con la cittadinanza ed il diritto alla salute da una parte e le prepotenze di un gruppo d'industriali – compresi gli uomini politici di riferimento – dall'altra.

Ultima modifica il Lunedì, 20 Aprile 2015 08:43
Davide Barbera

Classe 1988, nasce a Trapani, sotto il sole raggiante che bacia la costa occidentale della Sicilia. Grazie all'influenza del padre si appassiona alla fotografia, passione che spesso prende le sembianze di una vera e propria ossessione con la quale tediare chiunque capiti nel suo raggio d'azione. Toscano d'adozione, attualmente studia fotografia presso la Libera Accademia di Belle Arti di Firenze. Confidando nelle proprietà del buon vino, che inscindibilmente lo accompagna fin dall'anagrafe, rassicura se stesso e chi gli sta accanto asserendo che migliorerà invecchiando.

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