Nilo Di Modica

Nilo Di Modica

Nato a Pisa nel 1984 e residente a Santa Maria a Monte, nella Zona del Cuoio, tenta disperatamente di studiare filosofia nel capoluogo, barcamenandosi fra varie passioni e mestieri, tra politica ed Arci, filosofia francese e giornalismo. Dal 2003 collabora come freelance per alcune testate locali e nazionali, on-line e sulla carta stampata (fra le quali Il Tirreno, 5avi.net, Controlacrisi.org). Aree d'elezione: eventi culturali e cronaca politica, con particolare riferimento alla provincia di Pisa.  

Martedì, 09 Febbraio 2016 09:21

Non c'è più l'Italia fra le strategie Piaggio

Due ruote che corrono. Ma verso Oriente. In un contesto in cui un’azienda leader come il gruppo Piaggio appare capace di aggredire i mercati. E di investire – in Italia – anche in ricerca e innovazione. Quando però i vertici del gruppo che comprende Guzzi e Aprilia devono decidere dove produrre, non guardano più al belpaese. Questo pensano i lavoratori impiegati negli stabilimenti italiani di Pontedera, Mandello del Lario (Guzzi), Noale e Scorzè (Aprilia), interpellati con un questionario distribuito dalla Fiom Cgil.

Dalle risposte degli addetti al questionario, rigorosamente anonimo, si sviluppa la fotografia di una grande azienda con la testa ancora a Pontedera, dove tutto è iniziato e dove il settore impiegatizio rappresenta non per caso il 30% dell’organico. Ma le catene produttive scivolano sempre più verso il Vietnam, l’India e la Cina, dove è impegnata la metà dei dipendenti del gruppo. E lo stato delle cose trova un riscontro nella percezione che del lavoro hanno gli addetti in Italia. Non è stata facile la ricerca promossa dalla Fiom, con la distribuzione di migliaia di questionari ai lavoratori del gruppo. Il sindacato ha potuto consegnarlo solo attraverso le portinerie, e non direttamente agli interessati. Che sono tanti: più di 2.000 a Pontedera, 550 all’Aprilia fra Noale e Scorzé, e 90 alla Guzzi a Mandello del Lario. Dai questionari raccolti, compilati e restituiti alla Fiom (circa il 40%), è emersa la preoccupazione dei lavoratori per il futuro. “La Piaggio è un’azienda che non punta sulla produzione italiana – riassumono Massimo Braccini, coordinatore Fiom del gruppo Piaggio, e il nuovo segretario provinciale Marco Comparini – è sana ma è governata con una filosofia per cui si preferisce distribuire dividendi, piuttosto che dare premi di produzione. Agli investimenti in ricerca non corrispondo investimenti industriali. E manca una discussione sul futuro del mercato delle due ruote, e sullo sviluppo per la riduzione dell’inquinamento”.

Dai questionari emerge che le relazioni fra i lavoratori sono buone (77% in media dei tre siti). Ma gli operai sono insoddisfatti della loro condizione (58%). La maggioranza (63%) ritiene basso il proprio stipendio, considera le norme sulla sicurezza rispettate solo in parte (58%), e che il lavoro non sia distribuito equamente (69%). L’insicurezza diventa generalizzata quando si affronta il tema di mantenere in futuro il lavoro: solo il 4% è sicuro di conservarlo, il 48% non ci crede. “Uno degli elementi che più è emerso è la ‘fame’ di formazione – spiegano Braccini e Comparini – i lavoratori non ritengono valorizzata la professionalità, o chiedono di acquisirne di più. Ma l’azienda li ignora”. A Pontedera il 30% degli intervistati segnala di non aver avuto formazione. Quanto poi alla percezione di come l’azienda risponde alla richiesta di formazione, per il 42% è limitata, per il 41% scarsa. La richiesta di corsi svetta invece con l’89%. In definitiva l’azienda non fa formazione, e questo fa paura: ben il 65% degli intervistati teme la perdita del posto. C’è sfiducia. Anche verso i sindacati, giudicati “insoddisfacenti” per il 79% dei lavoratori.

 

Questo settore sul quale non si investe – tira la somme Braccini – è quello che fra un anno vedrà la fine degli ammortizzatori sociali tradizionali. Cig e mobilità, già strutturali, saranno sostituite dalla disoccupazione. Con tutto quello che comporta”. “Dobbiamo lavorare per recuperare fiducia e aprire una nuova vertenza – osserva a sua volta Comparini – l’obiettivo è saturare gli impianti e i volumi, perché oggi Piaggio è gestita con tre, quattro mesi l’anno in cui non si produce. Dobbiamo recuperare importanza produttiva. Anche per dare risposte alle aziende dell’indotto, dove la situazione è drammatica”.

Maledetta e sanguigna la terra Toscana, dove politica e animi infiammati possono mutarsi in qualche “vaffa” rivolto a sindaci e amministratori, specie se di mezzo c'è la Resistenza: e querele a seguire. Stavolta però, lungi dall'essere il grillino di turno, il protagonista della querelle che tiene banco da due giorni a San Miniato, in provincia di Pisa, è nientemeno che Renzo Ulivieri, ex tecnico di Sampdoria, Cagliari, Bologna e Napoli, ora presidente dell'Assoallenatori ed esponente di spicco di Sel nel paese dove è nato.

Sono le piccole e grandi vergogne sotto il cielo di Pisa a muovere ancora una volta gli attivisti del Municipio dei Beni Comuni, che sabato pomeriggio hanno attraversato al grido di “Immobilfree” la città fra musica e striscioni per segnare le ferite che l'abbandono e l'incuria inferiscono in alcuni degli angoli più impensati del cuore del centro storico, messi metaforicamente in svendita da un'improbabile agenzia immobiliare. Spazi abbandonati di proprietà delle varie articolazioni del patrimonio pubblico come l'esercito, il Comune, il Demanio o l'Università, che annoverando alle spalle storie di passaggi di mano, aste andate deserte e concessioni varie sono finite nell'agone della crisi economica non senza danni dovuti al degrado e all'abbandono, funzionali adesso ad una svendita che, come annunciano gli attivisti del Municipio, è già bella che iniziata e presto verrà anche catalizzata formalmente dallo Sblocca Italia.

«L'abbandono è una prassi imposta con metodo scientifico da chi detiene la proprietà a discapito della comunità. – scrivono dal Municipio. – Si abbandonano le fabbriche per tradurle un giorno in altro cemento; si abbandonano le case dove nessuno ha mai abitato così da consolidare cartelli onerosi sulla pelle di chi non possiede un'abitazione; si abbandonano i palazzi storici nella paradossale inosservanza di quella ricchezza diffusa nelle città italiane che viene dai beni storici e artistici; si abbandonano interi quartieri al loro destino, devastando tessuti urbani vulnerabili. Un laborìo piccolo piccolo, che diventa epocale». Di qui l'idea di una «agenzia immobiliare alla rovescia, pronta cioè a mettere sì in vetrina il degrado, lo sperpero, la chiusura ingiusta di spazi che potrebbero essere di tutte e di tutti, utili a un disegno solidale, al progetto di una città dalla parte dei bisogni dei propri cittadini, e che invee sono stretti nelle maglie del profitto di pochi»,

Tragicomico viaggio fra spazi lasciati a se stessi e utilissimi tempi “geologici” di riposizionamento proprietario, fatto spesso ai prezzi irrisori imposti dalla congiuntura economica, la giornata di Rebeldìa e Municipio è stata ancora una volta un'articolata riflessione sull'oggettiva natura contraddittoria di un fenomeno odioso come quello dell'abbandono degli immobili pubblici (dove “contraddizione” è da leggersi in tutto il suo portato “di sistema”, frutto cioè della natura stessa del Capitale e della Proprietà nel mondo d'oggi). Ma è anche, inevitabilmente, la dimensione più soggettiva che il Municipio finisce ancora per esplorare. Stretto da più di un anno nel nomadismo degli sgomberi, epigono di ciò che ormai è un fenomeno nazionale (si pensi alla tolleranza zero che in questi giorni miete vittime fra i centri sociali di tutta Italia) il progetto sociale delle tante associazioni non può esistere se non si pone la questione di uno spazio proprio, fondamentale punto di riferimento per molte delle sue attività ma soprattutto rosa dei venti nella carta geografica delle sue narrazioni e del suo immaginario. Come recita il titolo della campagna di mobilitazioni “lo spazio – quello strappato a speculazione e piccioni (!) – è, appunto, la città; e solo dentro la città il Progetto Rebeldìa e il Municipio dei Beni Comuni possono respirare a pieni polmoni, uscire dal guado della militanza integrale e fare di quelle fatidiche quattro mura la strategica barriera su cui fondare l'osmosi fra un “dentro” che non sia il centro sociale ghettizzato e vecchio stile, il socialismo in una sola stanza che in nulla intacca il potere costituito e che a Pisa di certo non manca, ed un “fuori” che deve assolutamente essere riacciuffato se si vuole sperare di far vivere quella fucina di nuovi concetti e nuove pratiche politiche che il modello-Rebeldìa ha rappresentato. Creatività pratica talmente evidente ed ingombrante da proiettare in questi anni un'ombra pesante sugli stessi compagni di strada “in odor di '900”, Rifondazione Comunista in primis.

Ma, in definitiva, quali e quanti luoghi in stato di totale abbandono stanno a meno di un solo chilometro in linea d'aria dalla statua del Garibaldi di fronte a Ponte di Mezzo? Tantissimi, quanti non se ne possono immaginare. Una lista che sorprenderebbe gli stessi abitanti del centro storico se solo volessimo includervi anche gli appartamenti sfitti e gli immobili di proprietà privata, ma che anche solo scomodando il patrimonio pubblico fa riflettere e infuriare specie coloro che, come il Municipio, fanno da tempo elaborazione politica intorno alle potenzialità di spazi abbandonati da riutilizzare in chiave sociale, magari per far fronte all'emergenza affitti o per creare nuovi luoghi di aggregazione, lavoro sociale o in cooperazione e chi ne ha più ne metta. Ma vediamoli uno per uno, così come ce li racconta lo stesso Municipio dei Beni Comuni:

DISTRETTO 42: ex distretto di leva militare, sito in via Giordano Bruno n. 42, composto da 8.000 mq di verde e 4.500 coperti, versa da vent’anni in uno stato di totale degrado. Di proprietà demaniale, è un immobile fondamentale per il progetto caserme: progetto che prevede la svendita ai privati di tre caserme, con concessione di variante per edilizia ad uso residenziale, in cambio di una nuova caserma a Ospedaletto. Sede del Municipio dei Beni Comuni tra il febbraio e l’aprile del 2014. Valore 12 milioni di euro.

EX BANCA D’ITALIA: la posizione è esclusiva e il valore, proporzionale alle volumetrie, non è alla portata di tutti. L’edificio, però, è un gioiello e non sono per gli interni con soffitti affrescati e le finiture di pregio. Sul mercato immobiliare pisano torna l’ex sede della Banca d’Italia. Sono 7.700 metri quadrati di superficie lorda in via San Martino 100, nel cuore della città. Valore 17 milioni di euro.

PALAZZO MASTIANI BRUNACCI: Palazzo Mastiani Brunacci si trova nella centralissima Corso Italia. La famiglia Brunacci Mastiani nel corso dell’ottocento fu una delle famiglie più ricche ed influenti, che ospitò nel suo circolo letterario anche Giacomo Leopardi. Di proprietà dell’ Università di Pisa oggi, non solo versa in uno stato di totale abbandono, ma da circa due anni l’Università, con scarsi risultati, cerca di venderlo per coprire parte dei costi necessari per la costruzione del nuovo polo di medicina che sorgerà accanto l’ospedale di Cisanello. Valore 8 milioni di euro.

EX- TELECOM: palazzo ex Telecom di piazza Facchini, sede della Sepi, della segreteria generale e di altri uffici comunali. Anche lui in vendita per coprire il buco nero chesi è creato per la Sesta Porta, e anche per riempirne locali che nessuno sta acquistando. Un edificio che negli anni passati era costato non poco e su cui lo stesso comune ha investito importanti risorse per la messa a norma. Valore 5 milioni di euro.

MATTONAIA: edificio costruito partire dal 1985 (e non ancora completato) e finanziato con fondi per l’edilizia popolare. Nel 2003 il Comune di Pisa, rendendosi conto di non essere in grado di portare a termine il progetto, decide di vendere il bene, che ancora non ha trovato alcun acquirente. Il complesso è costituito da 400 metri quadrati per fondi commerciali, 11 appartamenti per un totale di 1100 metri quadrati ed una piazza pubblica. Oggi si cerca di venderlo ribassato e in cambio della realizzazione di opere pubbliche quali il rifacimento del manto stradale dei lungarni. Valre di 3,5 milioni di euro poi ribassato a 2,9.

SANTA CHIARA: l’area occupata dal complesso di Santa Chiara - oltre 10 ettari - è situata nel cuore del centro storico di Pisa e confina direttamente con la Piazza del Duomo, inserita tra i siti UNESCO come patrimonio dell’umanità. Il complesso, iniziato nel 1257 e da allora destinato ad uso ospedaliero e universitario, sarà dismesso e riqualificato. Oggi per l’area, interamente di proprietà della Regione Toscana, si prospetta una trasformazione per interessi di tipo turistico ricettivo e commerciale, prevedendo una grossa privatizzazione dell’area. Valore 122 milioni di euro.

PALAZZO TROVATELLI: si tratta di una serie di edifici costruiti dal 300 all’800 per una superficie di circa 5.800 mq, più 1.300 mq di aree esterne che un tempo ospitavano l’ospedale dei trovatelli, la fabbrica delle balie e la casa rifugio dei poveri. Nonostante l’importante posizione, con un lato che affaccia su Piazza dei Miracoli, l’Azienda Ospedaliera ha visto le prime due gare per la vendita andare deserte. Per il 27 settembre 2012 era stata indetta la trattativa privata, ammettendo offerte al ribasso ma il verbale riporta che non è pervenuta alcuna offerta. Valore 24 milioni di euro.

Luoghi che sono stati “toccati” dal piccolo gruppo di militanti, che hanno apposto in ogni luogo l'inquietante messaggio di “Svendita!”. «Tutto si tiene in una simile rete, come nella mappa di una città. Una città che oggi è Pisa, ma non quella fittizia, città dell'Internet Festival, di una presunta eccellenza che però non produce lavoro, né ricchezza, e che perpetua se stessa come in una fantasmagoria. – continuano dal Municipio. – Esiste una Pisa di ciò che è abbandonato e svenduto, di spazi sottratti alla cittadinanza, di vuoti da riempire, di piccole e grandi ingiustizie che è giunto il tempo di riportare a galla, di ridurre a qualcosa di vivo e pronto a soccorrere il bisogno di socialità, di cultura che una parte della città domanda a gran voce di soddisfare».

Volendo recuperare un vecchio arnese della retorica “democratica”, dovremmo andare a cercare nei dibattiti a tema ambientale dell'ultimo governo Prodi. Anche allora quella che era (ed è) una crisi profonda e strutturale delle filiere produttive, si stava trasformando, per volere di quegli imprenditori che per decenni non avevano investito né in innovazione né tanto meno in doverose bonifiche, in un ghiotto affare per chi quelle filiere le voleva chiudere e chiudere alla grande, speculando sui miseri resti dell'industria italiana e, in definitiva, su tutti i rifiuti e residui del sistema dei consumi. Ecco dunque nascere l'”ambientalismo del si”: di fronte ai soliti e triti moralismi dei Verdi, dei partiti della sinistra radicale e delle associazioni ecologiste, si prospettava una nuova filosofia che, mossa da sincero amore per i territori, approvasse in pieno un po' qualunque cosa: si al nucleare, si agli inceneritori, si alle centrali a carbone. Si, si e ancora si!

 

Erano gli albori di un vero e proprio paradigma, che vede le questioni ambientali da un punto di vista meramente attuativo. Legiferare in materia ambientale non era più una questione di razionalizzazione e sintesi fra necessità e doveri dei territori, del mondo produttivo e dei consumi e sperimentazione e studio via via di nuove tecnologie per lo smaltimento ed il monitoraggio. Fare leggi in materia d'ambiente diventava quasi esclusivamente una questione di mera razionalizzazione burocratica. Lo sviluppo del territorio era materia attinente alla sola urbanistica, e come in urbanistica, specie in tempi di crisi, l'unico problema da risolvere era quello di farla ripartire, di “sbloccare” qualcosa che si era inceppato. Si preparava il terreno per quello che poi sarebbe diventato il Codice dell'Ambiente del 2006, noto anche come Decreto Matteoli, che di fatto in materia d'incenerimento, come in molti altri, introduceva come unica vera novità una sostanziale de-regolamentazione: procedimenti più snelli, meno beghe sul fronte controlli (in primis i procedimenti di Valutazione d'Impatto Ambientale, Valutazione ambientale strategica e Prevenzione e riduzione integrale dell'inquinamento). L'unica cosa da garantire con assoluta certezza era il completamento degli iter in tempi certi, costi quel che costi.

 

È l'aratro che traccia il solco, ma è la spada che lo difende. E se è Matteoli a tracciare, la spada, proprio in questi giorni, è il recentissimo decreto Sblocca Italia (testo integrale in fondo), che entra a gamba tesa in un impeto di decisionismo su molte vertenze. Se molte regalie a imprenditori e speculatori si possono stanare nel decreto in tutto quello che concerne la cessione del patrimonio pubblico (caserme, scuole, case cantoniere, stazioni ecc...) dove avviene per la prima volta e a scapito della pianificazione una scelta delle priorità a favore della proprietà privata, come se questa nel suo complesso fosse immune da fenomeni di abbandono di stabili e "latifondo urbano", sul fronte ambientale si assiste ad un'accelerazione esasperata sulla via tracciata, appunto, dal Codice dell'Ambiente e dalla filosofia di cui si faceva portatore.

 

La rivoluzione è in un pugno di articoli: si comincia con il 35, sulle misure urgenti per l'individuazione e la realizzazione di impianti di recupero di energia, dai rifiuti urbani e speciali, costituenti infrastrutture strategiche di preminente interesse nazionale. Infrastrutture e insediamenti strategici di preminente interesse nazionale – si legge all'articolo – sono anche gli inceneritori/termovalorizzatori. I tempi, già abbreviati, si dimezzano sia sul fronte degli espropri che sulle valutazioni d'impatto ambientale e di autorizzazione integrata ambientale. Nell'alimentare gli inceneritori, si dispone, "deve essere data priorità al trattamento dei rifiuti urbani prodotti nel territorio nazionale e a saturazione del carico termico, devono essere trattati rifiuti speciali non pericolosi o pericolosi a solo rischio sanitario”.

 

A completamento del quadro sta quindi l'obbligo di mantenere gli impianti a “saturazione del carico termico”, ovvero a pieno carico. Un obbligo che nel decreto viene affiancato alla possibilità di far circolare con maggiore facilità i rifiuti da regione a regione, elemento quest'ultimo che fino ad oggi era previsto solo per i rifiuti speciali e adesso riguarderà anche i rifiuti solidi urbani. Il tutto, ovviamente, d'ufficio, con la direzione del Ministero dell'Ambiente che in questa materia attua una vera e propria de-responsabilizzazione delle Regioni. Fenomeno quest'ultimo che viene incentivato anche in merito alle trivellazioni, al centro dell'articolo 38, nel quale vengono considerate strategiche tutte le attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi, diminuendo l’efficacia delle valutazioni ambientali, emarginando le Regioni e forzando sulle norme che avevano dichiarato dal 2002 off-limits l’Alto Adriatico, per il rischio di subsidenza.

 

Quando poi gli impianti già esistenti non saranno sufficienti, se ne faranno di nuovi. Opere definite nel decreto “infrastrutture strategiche di preminente interesse nazionale” sulle quali sarà sempre compito del Ministero dell'Ambiente prendere l'ultima decisione. Elementi questi che negli ultimi giorni stanno mettendo d'accordo in un unica protesta il Movimento Cinque Stelle, specie nelle regioni del nord, la Regione Lombardia, da sempre contraria alla libera mobilità dei rifiuti sul territorio nazionale e persino l'Asso Arpa, l’associazione delle agenzie regionali per l’ambiente, che in un’audizione alla Camera recentemente ha disegnato lo scenario di un rischio sanitario aumentato, con particolare riferimento alla messa a pieno carico degli impianti già esistenti.

 

Uno scenario a tinte fosche, insomma, per la qualità dell'aria, in un paese dove a sbloccarsi sono solo i vincoli di legge, le regole, le norme. Con buona pace di enti locali e territori. 

 







 

 

 

«Dire che il parco è stato lasciamo meglio di come lo avevano trovato è semplicemente falso». Non usano mezzi termini Alessandro Spinelli, Fabio Garbari e Mauro Nozzolini nel commentare l'ultimo capitolo della vicenda del raduno scout a San Rossore.

 

Ad un mese e mezzo dalla Route Nazionale AGESCI che ha portato ben 35mila scout nel Parco, i tre promotori dell'appello contro l'organizzazione dell'evento nel sito scelto dall'Ente e dalle organizzazioni promotrici non si danno per vinti e rilanciano la loro battaglia a suon di carte bollate. Sarà infatti la Procura della Repubblica a decidere il da farsi in merito all'incredibile iter cha ha portato oltre 10mila tende all'interno di un parco nazionale, Sito d'Interesse Comunitario e Regionale, nel quale fino a pochi mesi fa era sempre stato tassativamente vietato ogni genere di accampamento. Il ricorso, portato avanti tramite l'avvocato Giancarlo Altavilla, noto per le sue battaglie sul fronte della difesa del territorio, parte dal presupposto che vi siano state numerose forzature per tutto l'arco del procedimento di autorizzazione.

 

«Ciò che è accaduto a San Rossore non è stato frutto di un colpo di mano, ma la conseguenza di un lungo iter di autorizzazione. Un iter addivenuto alla conclusione che vi potesse essere una compatibilità fra antropizzazione temporanea e caratteristiche dell'ambiente naturale – ha dichiarato l'avvocato Giancarlo Altavilla alla conferenza stampa indetta dal comitato. – Eppure se si legge la disciplina di riferimento, insieme alle varie leggi regionali che regolano l'attività di parchi come questo, è facile ritenere come tutto ciò che è stato autorizzato contraddica la disciplina e le modalità di fruizione dell'area. Una sequela di norme ben specifiche che, certo, non prevedevano o interdicevano un evento di tali dimensioni nello specifico, ma certo lo rendevano impossibile: niente rumore, niente campeggio, nessuna fonte di illuminazione ecc... Tutte cose avallate dagli stessi enti che avevano emanato quelle normative e quei disciplinari, passati peraltro per numerose forzature: penso, ad esempio alla conferenza dei servizi composta quasi interamente da personale politico e non tecnico».

 

Forti delle ragioni meramente giuridiche e procedurali, la nuova denuncia dei firmatari dell'appello, riuniti nel comitato “Salviamo San Rossore”, non si ferma però alle mere questioni legali. E' infatti convinzione dei tanti studiosi che hanno preso parte alla battaglia che il parco abbia risentito profondamente della presenza degli scout e dell'insieme dell'evento, sia sul fronte della flora che della fauna. Considerazioni nate in virtù dei numerosi sopralluoghi che Spinelli, Garbari ed altri hanno effettuato prima del raduno, fino al giorno in cui è scattata l'interdizione dell'area ai non addetti ai lavori da parte del direttore dell'Ente Parco Andrea Gennai a fine luglio, e nei giorni immediatamente successivi. Elementi che andranno ad arricchire un libro bianco di prossima compilazione.

 

«A partire dal 24 agosto, dopo il raduno e alla fine della prescrizione del direttore a visitare i luoghi per non specificate “ragioni di sicurezza” abbiamo potuto constatare in che condizioni versassero gli appezzamenti di terreno interessati dalle attività degli scout, che prima dell'evento rappresentavano un area mediterranea molto importante per il pascolo. – ha dichiarato Fabio Garbari. – Tale prato per larghissima parte è scomparso a causa delle attività di livellamento, del calpestio e dell'installazione delle oltre 10mila tende. Meno grave la situazione per le zone più umide, dove cresceva il giunco. Nel complesso però l'area è sicuramente danneggiata: sono state interrotte le serie di vegetazione, sono stati distrutti e sfaldati i molti licheni presenti ed è stata desertificata parte dell'area. Tutti danni che ben tre ex presidenti della Società Botanica Italiana, nonché eminenti figure di spicco del ramo in importanti università italiane, possono testimoniare».

 

Danni forse maggiori, invece, sul fronte della fauna, in particolar modo per come il raduno è andato a rompere il delicato equilibrio che regola la nidificazione di alcune specie di uccelli, in primis il Gruccione.

 

«Ciò che ho potuto constatare è desolante, ed è avvenuto in barba alle leggi che tutelano la nidificazione – spiega Spinelli. – Le mie osservazioni, effettuate nel periodo che va da aprile a luglio, mi avevano portato a censire ben 85 nidi sul finire della fase di assestamento. Ebbene nel buon 80% di essi la covata è stata brutalmente interrotta: quando a causa dell'inizio dei lavori, che hanno portato all'abbandono di molte covate e di molti piccoli, quando a causa di una vera e propria distruzione del nido per il passaggio delle ruspe. L'arrivo delle tende e dei ragazzi ha fatto fuggire anche i pochissimi esemplari scampati ai lavori di preparazione, fatti censire dall'Ente Parco e inizialmente in qualche modo tutelati nel momento del taglio dell'erba. Una perdita che in totale, considerando il numero di uova per ogni singolo nido, ammonterebbe a oltre 300 esemplari perduti quest'anno».

 

Considerazioni che per Spinelli niente hanno a che fare con quanto riportato dal Parco o da molti mezzi di comunicazione. «Ho letto dichiarazioni preoccupanti: si parla di una natura quasi “partecipe” della messa domenicale, di daini affacciati sulla platea ai confini del campo incuriositi, di “poiane volteggianti” durante i canti di lode. – commenta. – L'unica cosa certa è che gli unici Gruccioni superstiti sono stati, e non a caso, quelli nelle aree circostanti che non sono state toccate dal raduno. Tutto questo quando a nome del Comitato mi ero messo personalmente a disposizione del parco al fine di censire e tutelare questa specie che, a detta all'epoca di Gennai, era “già sotto controllo da mesi”. Cosa assai improbabile considerando il periodo di arrivo e nidificazione di quella specie».

 

Una battaglia che insomma passerà dalle praterie del parco agli uffici della Procura, che dovrà decidere in autonomia la presenza degli estremi per un indagine approfondita ed un riconoscimento di danni e responsabilità.

Ha scelto lo storico Caffé dell'Ussero, nel cuore di Pisa, il nutrito gruppo di professori, uomini di cultura, scienziati e amanti del Parco di San Rossore per presentare l'ennesima spina nel fianco agli organizzatori della Route Nazionale AGESCI, che proprio nel parco dal 6 al 10 Agosto porterà le sue 10mila tende.

Sono infatti già 200 le adesioni, senza farsi mancare alcune firme illustri, all'appello lanciato dal naturalista e scrittore Alessandro Spinelli, dal botanico ed ex direttore del Dipartimento di Scienze Botaniche dell'Università di Pisa Fabio Garbari e da Mauro Nozzolini. Fra i piu noti a rispondere alla denuncia dei tre, l’ex direttore della Scuola Normale Salvatore Settis, lo storico Adriano Prosperi, il fondatore e presidente onorario del WWF Italia Fulco Pratesi, la Presidentessa della Società Botanica Italiana Maria Raimondo e anche anche alcuni direttori di parchi naturali sparsi per la penisola.

Questo il testo dell'appello (adesioni alla mail Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. ):

Studio di Incidenza per il Progetto di allestimento della Route Nazionale dell’AGESCI
in San Rossore (Pisa)

La lettura – e rilettura - delle 74 pagine dello “Studio di incidenza” proposto dall’Associazione Guide e Scouts Cattolici Italiani per poter giustificare un raduno nazionale in San Rossore, previsto per il mese di agosto, provoca a chi scrive non tanto una sensazione di sgomento ma uno stato di vero allarme per quanto riguarda l’opportunità di tale manifestazione in un luogo che, caro ai Pisani e ai Toscani - e non solo -per la sua storia granducale, poi reale e quindi repubblicana, rischia danni e alterazioni ambientali forse non irreversibili ma certo non riparabili in pochi anni. Il documento intitolato “Studio di Incidenza” merita qualche commento, visto che ben pochi ne sono a conoscenza e che lo stesso Comitato Scientifico del Parco Regionale di Migliarino, San Rossore e Massaciuccoli non risulta essersi espresso, come prevedono le norme, al proposito.
La procedura per la valutazione di un progetto, di un piano, o di interventi che potrebbero compromettere la qualità ambientale di un sito della Rete Natura 2000, prevista dalla Direttiva comunitaria Habitat, recepita a livello nazionale e dalle leggi toscane per i Siti di Importanza Regionale (SIR), tra i quali San Rossore con il Parco rappresenta una singolarità in termini geomorfologici, biogeografici, storici e culturali ben nota, è obbligatoria . Quando un SIR ospita habitat naturali o specie definite prioritarie, eventuali interventi che potrebbero rivelarsi distruttivi possono essere effettuati , dopo attenta e rigorosa valutazione, esclusivamente per motivi di tutela della salute o della sicurezza pubblica, previo parere di una Commissione europea.
Esaminiamo i dati del Progetto . Il raduno scout che si svolgerà dal 6 al 10 agosto su 74 ettari di San Rossore, lungo il viale che da Cascine Vecchie porta a Cascine Nuove, prevede: 30.000 (trentamila!) ragazzi tra i 17 e i 21 anni, collocati in 10.000 tende, in cinque “sottocampi” ciascuno di 6000 persone; 2000 adulti in un campo tende per la gestione delle attività connesse alla manifestazione; una piazza di 4000 mq con un presidio sanitario; due palchi (di 10 x 8 e di 6 x 4 mq); un magazzino per i generi alimentari; una segreteria; 1400 (millequattrocento!) servizi igienici di tipo chimico (220 in sei zone), 80 dei quali nell’area centrale, da vuotare due volte al giorno tramite autobotti; 750 docce e 750 lavabi con rete di distribuzione idrica fornita dall’acquedotto comunale (405.000 litri d’acqua ogni ora, in agosto!), con scarichi nel bosco; un’area di 5 ettari con una tenso-pagoda per 500 persone;, spazi espositivi coperti per mostre, biblioteca, cinema, stampa. Per la cerimonia di apertura, di chiusura e di una veglia serale verrà montato un palco “di grandi dimensioni” con muri laterali alti 12 metri; fari e altoparlanti collocati sui pini con portata luminosa e sonora di incalcolabile effetto, e tante altre cose ancora. Meno male che non sono previste attività di cucina: i pasti saranno distribuiti da servizi esterni. Le attività di cantieraggio, il montaggio delle strutture, i livellamenti del terreno, la realizzazione delle opere correlate all’evento e al loro smontaggio a fine manifestazione incideranno per 3-4 mesi.
Un sito di importanza regionale (SIR) e comunitaria (SIC), zona di protezione speciale (ZPS), ricco di valori naturalistici, con delicati e fragili equilibri tra storia dell’Uomo e vicende paleo-biogeografiche, con elevatissima biodiversità floristica e faunistica non dovrebbe ospitare simili eventi. Non sono convincenti le argomentazioni conclusive della NEMO (Nature and Environment Management Operators Slr, chiamata a valutare il Progetto), quando l’incidenza sull’integrità degli habitat, che verrebbero lievemente alterati, è classificata non significativa. Nessuna alterazione avrebbe questo raduno sull’integrità della flora, lieve l’alterazione sulla fauna. Insomma le interferenze sugli habitat sarebbero minime. Si vorrebbe poi sapere quali soluzioni mitigative degli impatti degli scarichi, e non solo, in accordo con l’Ente Parco potrebbero essere sostenute per una fattibilità tecnica ed economica che ci sembra francamente inattuabile.
Che in San Rossore sia stato proposto un evento così rilevante, sostenuto da probabili logiche politiche, patetiche se non ipocrite, e da considerazioni di natura commerciale che gli stessi scout dovrebbero contestare , dovrebbe suscitare una risoluta presa di posizione da parte dei cittadini , degli Enti e della Associazioni più sensibili e responsabili. Le aree protette non devono essere asservite a ruoli che non siano quelli previsti dalle leggi, dalle norme e dai fini per i quali sono state delineate. Per i motivi sopra esposti e nella convinzione che la Tenuta di San Rossore non vada trattata né oggi né mai come un semplice parco pubblico, i firmatari di questo documento si appellano al Presidente della Regione Toscana, dott. Enrico Rossi, affinché ritiri la disponibilità della Regione allo svolgimento della manifestazione all'interno della Tenuta. Si rivolgono inoltre al Presidente del Parco di Migliarino-S.Rossore-Massaciuccoli, dott. Fabrizio Manfredi, al direttore dell'Amministrazione, dott. Andrea Gennai, ai membri del Consiglio di amministrazione, affinché esprimano parere contrario allo svolgimento dell'iniziativa. Consapevoli del fatto che il raduno AGESCI è stato programmato e che il suo iter organizzativo è già avviato, proponiamo che esso possa svolgersi all'interno del territorio del Parco, ma in zone ambientalmente meno fragili della ex Tenuta presidenziale, quali ad esempio le zone agricole della Tenuta di Coltano o quelle poste a lato della strada che da S. Piero conduce a Camp Darby.

Parole alle quali, alla conferenza stampa, si sono aggiunte anche quelle di alcune associazioni. «Il valore scoiale dell'iniziativa non può far dimenticare le preoccupazioni per il pesante carico ambientale che dovrà subire quell'area di pregio del Parco» scrivono da Legambiente. – Si pone ancora una volta la necessità di ricordare che la prima funzione di un parco, la ragione stessa della sua esistenza, è la conservazione del capitale naturale; non un lusso ma una necessità, utile anche dal punto di vista economico. Allora non si può che essere contrari all'uso improprio del Parco e della tenuta in particolare, che non può diventare palcoscenico e scenario per le più diverse attività per motivi commerciali o di prestigio. Come non piace la forzatura della Regione che impone al “suo” Parco un'iniziativa senza seguire la via corretta di presentare prima lo Studio di Incidenza e decidere poi di conseguenza».

Un riferimento, quello all'iter sbrigativo e certo anomalo con cui si è arrivati a questa decisione, con il Parco che si dichiara ancora in procinto di prendere una decisione mentre su internet già si vendono i gadget della manifestazione, a cui in conferenza ha fatto riferimento anche il WWF, che per voce di Marcello Marinelli denuncia: «noi il primo progetto lo abbiamo visto quasi di sfuggita il 27 marzo, mesi e mesi dopo l'annuncio del presidente della Regione Toscana».

Il Parco, dal canto suo, non è però rimasto a guardare. Proprio ieri mattina ha inviato ai giornali un'accorata lettera del direttore del Parco Andrea Gennai:

Il 17 aprile un gruppo di persone tra cui diversi professori universitari ed alcune illustri personalità, terrà una conferenza stampa per presentare l’appello al Presidente della Regione, a quello del Parco ed al sottoscritto affinché sia detto “NO” alla Route Nazionale AGESCI di questo agosto in San Rossore. Tutti i pareri sono rispettabili ma è curioso che questi esperti abbiano già le idee chiare sul previsto impatto di tale Route, pur non avendo nemmeno visto il progetto. Hanno infatti visionato solo la versione non definitiva dello studio di incidenza e sinceramente mi sembra poco per poter giudicare. Nessuno di loro ha chiesto chiarimenti o informazioni, sentendosi evidentemente già sicuro del proprio parere. Nessuno ha verificato se l’area oggetto del campo è classificata a libera fruizione o meno… In questo modo, chi come me è chiamato a giudicare attraverso il Nulla Osta, è già preventivamente tacciato di essere in errore qualora esprima parere favorevole… La Conferenza dei Servizi composta da tutti gli enti coinvolti esaminerà il progetto definitivo che deve ancora essere consegnato e quindi anche noi dobbiamo ancora valutare. Vedremo cosa ne uscirà. Quello che non è accettabile è però il pregiudizio che emerge dall’appello, che allude a non precisate logiche politiche (?) e addirittura commerciali (???) la cui origine non si capisce proprio dove sia. Io sono abituato a ragionare secondo logiche diverse: un progetto lo si giudica nei suoi contenuti, senza farsi condizionare dal credo o dal pensiero politico del proponente. La politica interessata alle scadenze elettorali, di grazia, stia fuori da questi aspetti tecnici e la tecnica ci aiuti piuttosto a combattere le mille pressioni che ogni giorno erodono il Parco nella sua bellezza ed integrità senza che nessuno convochi conferenze stampa su tali argomenti: discariche, prostituzione e degrado umano, fruizione selvaggia di alcune spiagge, abusivismo, bracconaggio, inquinamento…tutti temi che ogni giorno ci vedono combattere con le poche forze che abbiamo. Potrei certamente nascondermi dietro al fatto che il permesso per realizzare la Route l’ha rilasciato il Presidente della Regione senza consultare preventivamente il Parco. Invece credo – e lo dico da uomo di sinistra, non credente e lontano dagli Scout mille miglia – che questa route sia una straordinaria occasione per chi, come me, crede nella conservazione della natura come ad una vera e propria religione. Una straordinaria occasione per mettere nella testa e nel cuore di questi 30.000 ragazzi un po’ di conoscenza e di amore per il nostro Parco, per le nostre foreste, per i nostri meravigliosi animali. La sfida dei parchi come il nostro è proprio questa: confrontarsi con l’uomo, facendolo vivere nella natura cercando sempre più la perfetta sostenibilità. Chiudere i cancelli di San Rossore agli Scout (certo diverso sarebbe se fosse l’associazione bracconieri o quella dei motocrossisti..) diventerebbe l’errore educativo più grande che il mondo della conservazione possa fare. Che vengano, rispettando le regole che gli daremo, prendendosi le multe per gli errori che faranno ed i complimenti per le attenzioni che dimostreranno, ascoltando il nostro personale ed i nostri volontari che spiegheranno loro le caratteristiche del Parco e del lavoro quotidiano che facciamo per proteggerlo. Andranno via dopo 4 giorni con il cuore gonfio per la bellezza di questi posti e per le emozioni vissute grazie a questa natura, che certo saprà sopportare questa “invasione”, così come sopporta da decenni, proprio nella stessa area della Route, quelle dei turisti di Pasquetta e del primo maggio, molto meno sensibili degli scout alle tematiche ambientali. Dopo questa esperienza, i ragazzi diventeranno 30.000 angeli custodi del nostro Parco, attenti alla natura anche quando andranno negli altri parchi e, credo, anche quando andranno in cabina elettorale o educheranno i loro figli. La precedente Route nazionale si tenne ai Piani di Pezza, luogo incontaminato abruzzese dove nel 1986 orsi, lupi, aquile e bellissime montagne “ospitarono” circa 15.000 ragazzi senza particolari traumi. Chi dice che i Parchi non son luoghi per manifestazioni come queste (ovviamente una tantum, ma qui si parla di una Route ogni 30 anni!), temo non sappia quasi nulla delle strategie di conservazione e di educazione ambientale. Io che, nel mio piccolo, lavoro per i parchi da ben 24 anni, continuerò il mio impegno con perizia, senza influenze ideologiche e con la giusta dose di coraggio, nel tentativo di proteggere “davvero” questo straordinario Parco.

Accuse alle quale i promotori dell'appello hanno replicato immediatamente. «Ciò che si sta decidendo sul Parco, quel parco che alcuni di noi hanno studiato per anni, se non decenni, è assolutamente fuori dall'ordinario. – ha replicato Garbari. – Né le associazioni, né l'apposita commissione regionale per la tutela della biodiversità, né, in un primo tempo, la dirigenza del Parco stesso, sono state minimamente coinvolte nella decisione. Oggi ci accusano di fare politica, di non conoscere carte che invece abbiamo letto e letto bene, e che vengono presentate come definitive. Quello che abbiamo da dire è che siamo un gruppo di cittadini e membri della comunità scientifica che niente hanno a che vedere con questioni elettorali o politiche. Abbiamo passato anni e anni a studiare un parco che non vorremmo vedere consegnato a dinamiche e filosofie che sono proprie di un parco pubblico, non di un parco naturale. Contro l'AGESCI, poi non abbiamo nulla: altre, sempre all'interno del Parco, sono le aree più idonee ad un evento di queste dimensioni: le aree di Coltano o fra San Piero e Camp Darby sarebbero scelte ben più ragionevoli».

Rincara la dose Spinelli, che non ha mancato di esprimere la sua soddisfazione per la presa di posizione delle associazioni, prevista già nei giorni scorsi. «Chiunque si sia avvicinato al Parco in questo momento difficile non può che essersi fatto un idea: siamo di fronte ad una imposizione tutta regionale. Rossi ha lanciato una sfida: “dobbiamo dimostrare che è possibile”. E la mia domanda è: cosa sarà impossibile, d'ora in poi? Chi dirà di no e con quali motivazioni lo farà a tutti quelli che, a quel punto, pretenderanno il Parco per iniziative simili? E' in atto, strisciante, la trasformazione del nostro Parco in parco pubblico, come le Cascine». Infine, sul direttore: «non lo conosco di persona, ma come già ho avuto modo di dire in passato, molte delle sue proposte mi sembrano quantomeno bislacche, espresse col tono di uno che più che guidare il parco fa intrattenimento turistico».

Infine, un ulteriore appello di entrambi i promotori: «si ripensi tutto, e si organizzi un incontro fra i firmatari, le associazioni, e la dirigenza del Parco».

Se questo incontro avrà davvero luogo, solo il poco tempo rimasto potrà dircelo.

Qual'è la funzione di un parco naturale? Dove la sua specificità? Che differenza c'è fra un parco naturale e un parco pubblico? Sono queste le domande che da un paio di mesi affollano (o di sicuro dovrebbero affollare) i locali della tenuta di San Rossore. Il parco, lo abbiamo già scritto, vivrà dal 6 al 10 agosto la caduta di un vero e proprio tabù: l'inviolabilità dei suoi spazi, finora immacolati, per mezzo dell'AGESCI, massima organizzazione scoutistica cattolica italiana.

Anche i numeri sono più o meno noti, specie a coloro che hanno buttato un occhio allo studio d'incidenza, inizialmente perno della giustificazione di qualunque fattibilità, ma in realtà commissionato quando ormai l'evento era pressoché lanciato da quel sicuro “si farà” buttato in pasto ai giornalisti dal Presidente della Regione Toscana Enrico Rossi nel giugno dell’anno scorso. Ben 32mila giovani fra i 17 ed i 21 anni e 2mila adulti per un totale di circa diecimila tende; il tutto servito da 1400 WC chimici per i quali sarà necessario stendere un piano di ghiaia, 750 lavabi, 750 docce. Il tutto suddiviso in cinque sottocampi (più uno per i duemila adulti di servizio) all’interno di ognuno dei quali verrà realizzata una piazza di 4000 metri quadri, nella quale verranno realizzati due palchi, un magazzino, una segreteria ed un presidio sanitario. Al centro del campo un’area di 5 ettari ospiterà lo spazio delle attività comuni, chiamato la “Piazza del coraggio”, dove saranno montati una tenso-pagoda da 500 posti, una decina di spazi espositivi da dedicare a mostre, biblioteca, cinema ecc... Infine ci sarà l'area manifestazioni in cui starà montato un enorme palco di grandi dimensioni. Tutto questo nell'area della “Selva pisana”, lungo il viale che collega le Cascine Vecchie alle Cascine Nuove, dove le oltre 700 docce e gli altrettanti lavabi scaricheranno le loro acque intrise di sapone direttamente in alcuni fossi che dividono la parte prativa dal bosco. Niente di grave, dicono al Parco tentando di rassicurare gli scettici, perché verrà usato solo sapone di Marsiglia biodegradabile.

Numeri, in pratica, che anche snocciolati così alla buona danno comunque il calibro di ciò che questa manifestazione rappresenterà in un parco dove, ancora adesso, stendere una coperta o addirittura piantare una tenda può costare anche 600 euro di multa. La società fiorentina Nemo, specializzata in valutazioni ambientali, alla quale AGESCI ha commissionato la redazione del piano di incidenza ambientale, non sembra essere allarmata. Secondo la Nemo il raduno non genererebbe che solo pochi e superficiali danni ambientali facilmente riassorbibili dall’ambiente. Dando una scorsa alla relazione si può apprendere come questa valutazione si basi soprattutto sulla considerazione delle specie, animali e vegetali, più “preziose” del parco. Quelle, per intenderci, che con la loro presenza hanno permesso al Parco di conquistarsi il titolo di Sito d'Importanza Comunitaria.

Ora che i numeri del progetto sono più chiari abbiamo voluto nuovamente parlarne e più a fondo con il naturalista scrittore Alessandro Spinelli,storico conoscitore del Parco che sin dall’inizio si è sempre dichiarato contrario all’evento.

 

Signor Spinelli, ora che i dati sono più chiari continua ad essere sempre contrario?

Ero contrario prima ed ora lo sono ancora di più. Credo che tutte le chiacchiere relative ai numeri e alla fattibilità, con tutte le opinioni che in queste settimane si stanno confrontando in merito, non centrino la vera questione. Tutto, oramai, ruota intorno alla mitigazione di un danno, a come attuarla, quantificarla ecc... A pochi o a nessuno salta invece agli occhi il fatto che un danno derivante da attività del genere, per quanto piccolo e mitigabile, non dovrebbe proprio esserci: in un parco come quello di San Rossore, con la sua storia, una manifestazione di questo tipo semplicemente dovrebbe risultare inconcepibile. Nel momento in cui un parco come il nostro si presta ad una cosa del genere, al di la delle questioni meramente tecniche e faunistiche, lancia un messaggio. Un messaggio di svalutazione del ruolo che i parchi naturali hanno o dovrebbero avere. Tutto si gioca sulla differenza, fra un parco pubblico ed un parco naturale.

 

Secondo lei quale dovrebbe essere la funzione di un parco naturale, quella di chiudersi su stesso e trasformarsi in un intoccabile museo a cielo aperto?

Certamente no. Un parco naturale ha il dovere di farsi conoscere e di propagandarsi. Un parco deve aprirsi all’esterno, intercettare i flussi turistici, facilitare l’accesso al suo interno, guidare i fruitori alla scoperta dei suoi valori. Ma tutto questo deve essere fatto in punta di piedi, nel più completo rispetto delle sue risorse ambientali e paesaggiste. Vede ogni anno la Tenuta di San Rossore, per quello che mi è dato di sapere, viene fruita da circa duecentomila visitatori, compresi i frequentatori dell’ippodromo; l’evento in questione ne porterebbe ben trentacinquemila in soli quattro giorni. Mi sembra un po’ troppo eccessivo. Non bisogna inoltre dimenticare che per il montaggio e lo smontaggio delle strutture necessarie all’evento AGESCI sono state quantificate ben 133 giornate lavorative. Ciò significa che da Giugno a fine agosto i 74 ettari di tenuta interessati alla manifestazione saranno interessati da spargimento di ghiaia per la creazione dei basamenti delle cisterne di acqua di riserva e dei 1400 bagni chimici, da movimento di ruspe,trasporto materiali ecc... Calcolando una larghezza media per bagno di un metro e mezzo, accostando l’uno contro l’altro i 1400 bagni preventivati si creerebbe una fila ininterrotta di gabinetti di quasi tre km.

 

Affrontando questo tema in queste settimane è saltato agli occhi anche il ruolo della Regione Toscana. Lei che ne pensa?

Io ho l’impressione, tra l’altro condivisa da molti, che la Regione sia passata sulla testa di tutti e tutto. D’altronde il Governatore Enrico Rossi quando a giugno dello scorso anno in conferenza stampa annunciò il suo placet all’evento lo fece in mancanza di un progetto definitivo e di uno studio di incidenza ambientale. E’ doveroso ricordare la direzione del parco si è trovata, a mio avviso, del tutto spiazzata di fronte a quella decisione tant’è che ad oggi manca ancora una decisione definitiva del consiglio di amministrazione e ancora non c’è stata una discussione del progetto e del piano di incidenza nella commissione scientifica che, anche se solo in modo consultivo, deve comunque rilasciare un suo parere.

 

Al momento mi sembra che le associazioni ambientaliste, comunque presenti nel consiglio del Parco, non abbiamo ancora fatto sentire la loro voce.

La situazione delle associazioni ambientaliste all’interno è difficile e mi sembra che in questo caso stiano cadendo, in totale buona fede, nella logica della mitigazione del danno. Questo probabilmente deriva dal fatto che le associazioni, hanno sempre cercato di promuovere una politica, che ritengo giusta, volta a non trasformare il Parco in una specie di museo. Così facendo si sono ritagliato un certo spazio di manovra che oggi hanno paura di perdere. E’ vero che i parchi naturali devono poter sviluppare attività sempre nuove, rendersi fruibili dalle scuole, fare didattica ambientale e formazione, restare aperti a pezzi importanti della società. Un parco vivo, fatto per essere conosciuto, studiato e vissuto, va bene. Ci sono però dei limiti che questa volta sono stati a mio modo di vedere superati. Presumo però che le associazioni, molto presto, rivedranno questa loro posizione.

 

Cosa le fa pensare che le associazioni potrebbero rivedere la loro posizione?

La preoccupazione e lo sdegno che stanno montando all’interno del mondo scientifico e culturale non solo pisano e che, sono sicuro, non non tarderà a mostrarsi pubblicamente.

 

Allora niente politica di riduzione del danno? E del sapone di Marsiglia cosa mi dice?

Ci siamo capiti. Accettare quel tipo di approccio significa aprire un varco alla trasformazione del Parco di Migliarino, San Rossore e Massaciuccoli ed in particolare alla ex-Tenuta Presidenziale, in un Parco pubblico tipo le Cascine o il Parco dei Salici di Pontedera, che il Governatore Rossi conosce molto bene. In merito al sapone di Marsiglia non mi pronuncio. Questa domanda la dovrebbe rivolgere alle tartarughe d’acqua che vivono in quelli che la Nemo chiama “fossi”e che in realtà sono residui, molto importanti ,di depressioni retrodunali e che riceveranno gli scarichi intrisi di sapone delle oltre 700 docce e degli altrettanti lavabi che dovrebbero essere posizionati all’interno della cosiddetta “città delle tende”.

 

Più cielo per tutti. Ma con tante nuvole, e di tempesta per giunta. Eccezion fatta per gli addetti ai lavori, e neppure per tutti, è stato un fulmine a ciel sereno la notizia dell'esito del congresso nazionale dell'Arci, svoltosi a Bologna quest'ultimo fine settimana, da giovedì a domenica e chiusosi con un doloroso niente di fatto.

 

Una delle più grandi, ultime, organizzazioni laiche e di massa in Italia, proveniente dalla più consolidata delle tradizioni unitarie, al punto di non aver mai affrontato in quasi sessant'anni di storia un appuntamento congressuale diviso fra due candidati, è piombata in pochi giorni in una specie di incubo, attraverso il quale si è infranto l'antico “ecumenismo” da casa comune della sinistra italiana, forgiato nel culto di quella “sintesi” che tanto era cara alla tradizione progressista all'ombra del PCI.

 

Eppure la sintesi fra Filippo Miraglia e Francesca Chiavacci, rappresentanti rispettivamente di due visioni dell'associazione che si radicano territorialmente in aree geografiche ben distinte, principalmente a sud, in Liguria e nel Nord-Est il primo e nelle storiche regioni rosse (foriere di quasi metà delle tessere) la seconda, era stato dato nei pronostici come probabile fino alla fine. Speranze probabilmente fiorite fra le file di un'organizzazione oggettivamente inesperta di congressi battuti a colpi di fioretto dal palco e in mezzo alla platea dei 579 chiamati al voto, delega in vista e coltello fra i denti. Uno scenario al quale domenica hanno invece assistito, fra il partecipe e l'incredulo, tutti i presenti nel Salone del Podestà del palazzo di Re Enzo.

 

Da una parte, quindi, gli storici insediamenti della Toscana, dell'Emilia Romagna e del Piemonte, nati presso le case del popolo con i loro servizi e le conseguenti forme di organizzazione dell’esistente, ma anche con sensibilità vicine ai partiti politici che in questi anni hanno governato quei territori. Dall’altra le giovani leve cresciute nei movimenti dei Social Forum, da Genova a Porto Alegre, che oggi rivendicano non solo un cambio generazionale, ma un’Arci molto più schierata, assolutamente non neutrale rispetto alle grandi questioni che in queste sedi si discutono: un nuovo modello di sviluppo, la lotta al precariato, un’alternativa per l’Europa, e dunque di conseguenza con forme organizzative più flessibili e inclusive. Due sensibilità che però paradossalmente si scambiano di ruolo, per ciò che ci si potrebbe attendere, nel momento che si va a vedere il rapporto con la vecchia dirigenza. Al centro di tutto le modalità con le quali utilizzare i soldi del tesseramento e non solo, al fine di gestire un debito crescente dell'organizzazione, accumulato negli ultimi anni. Una situazione non facile che molte parti dell'associazione, in modo trasversale, spinge molti a guardare ad una riorganizzazione dei quadri dirigenti.

 

Il campo di battaglia, neanche a dirlo, è stata la commissione elettorale. Tale infatti il consesso dal quale l'ultima decisiva spaccatura si è consumata, materializzandosi all'ora di pranzo, in un crescere di tensione, in due contrapposti meccanismi elettorali per la composizione del consiglio nazionale (75 proporzionale e 25% a tutela delle regioni «di frontiera», oppure rispettivamente 65% e 35%), organo adibito all'elezione del presidente. Il picco della tensione si è avuto però quando, in merito al voto su queste due opzioni, chiaramente due composizioni matematiche prive del minimo spirito di sintesi ed entrambe volte a favorire l'uno o l'altro schieramento, c'è stata la richiesta da parte del gruppo Miraglia di voto segreto. Una proposta discutibile più nella prassi che nei regolamenti, contro la quale però si è scagliata la risposta durissima dell'altro fronte, capitanato dalle delegazioni di Toscana ed Emilia che hanno minacciato a quel punto di abbandonare il congresso. Momenti concitati, tavolo di presidenza assediato, proposta di voto segreto ritirata. Ma il fronte Miraglia a questo punto non ci sta e si tira indietro sul voto. E' a quel punto, dopo una pausa di mezz'ora circa, che salta fuori fra le contestazioni la proposta di congelare il congresso, da riconvocare entro il 30 giugmo. Il “comitato dei garanti”, soluzione fin troppo nota alle cronace della sinistra degli ultimi tempi, sarà composto dai 17 presidenti regionali dell'Arci più il presidente uscente Paolo Beni.

 

Una situazione, in definitiva, figlia di una mediazione decisamente tardiva, iniziata ingenuamente da parte delle “colombe” e dello stesso presidente uscente solo nelle ultime concitate ore del congresso. Ma anche l'esito paradossale di un'organizzazione statutariamente impreparata ad affrontare uno congresso “a mozioni” che invece non si era realizzato in tutti i passaggi intermedi, nei congressi territoriali e regionali. Una platea composta con criteri unitari, mettendo peraltro in pratica tutte le assodate dinamiche di compensazione della debolezza storica di certe regioni del sud (spesso rappresentate oltre il mero criterio del numero di tessere).

 

Resta, comunque, l'evidenza di una crisi, analoga a quella che sta attraversando un'altra organizzazione già legata alla sinistra italiana, la Cgil. Ennesimo sintomo di un processo ormai evidentemente in atto a sinistra e che non accenna a diminuire. Nel cielo per tutti anche per oggi non si vola.

Lunedì, 02 Dicembre 2013 00:00

SEL a Pisa, nuovo segretario, nuova fase

È stato l'evento politico di questi ultimi giorni a Pisa, anche se con un esito che gli addetti ai lavori definirebbero scontato. La platea congressuale di Sinistra Ecologia e Libertà ha eletto con una maggioranza schiacciante (25 delegati a 7) il suo nuovo coordinatore provinciale, Francesco Cecchetti.

Capannorese di nascita e pisano d'adozione, 29 anni, due lauree in Storia e Scienze Politiche, lavoratore nel sociale, militante della prima ora nel partito che guiderà dai prossimi giorni.Una sfida, quella fra il giovane militante ed il suo concorrente Mauro Stampacchia, già ricercatore e professore a contratto a Scienze Politiche in Storia Contemporanea e Storia del Movimento Operaio, che in molti fra sinistra radicale e movimenti hanno seguito con un certo interesse e qualche sana scaramanzia.

3.261. E' questo il numero che in questi giorni viene ribadito con orgoglio dalla sinistra andalusa al governo, che in questa regione della Spagna conservatrice di Rajoy gode dell'appoggio sostanziale anche di Izquierda Unida (11,34% dei voti da queste parti, unita ai Verdi).

Sono questi, infatti, i primi risultati esposti dal governo in materia di sfratti scampati dopo il primo anno di attività. Dodici mesi caratterizzati da un preciso piano istituito per aiutare chi non riesce a pagare l'affitto o il mutuo in una delle regioni più povere della Spagna, con una disoccupazione al 36,4% e quasi il 68% di giovani sotto i 25 a casa senza lavoro.

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