Come abbiamo raccontato in questi giorni, la vicenda della storica fabbrica di ceramiche sta creando incredulità e rabbia. Lo scorso 7 gennaio i lavoratori in presidio promosso dai Cobas davanti al Tribunale di Firenze sono venuti a sapere del decretato fallimento dell’azienda. La reazione dei lavoratori è stata immediata: subito si sono organizzati per occupare la fabbrica e mettersi in contatto con le istituzioni per avere spiegazioni. E adesso che l’occupazione è stata interrotta e la loro protesta continua sottoforma di presidi quotidiani davanti all’entrata della fabbrica, è stata proposta una riflessione aperta e collettiva su quali potrebbero essere e motivazioni, che ai più non tornano, che avrebbero spinto a far fallire l’azienda.
Per quanto si debba precisare che prima di qualsiasi commento definitivo si debba aspettare il commento della sentenza che ancora non è stato reso pubblico, è impossibile che una sentenza come quella dello scorso gennaio non faccia sorgere dubbi sostanziosi.
Come è possibile che la Richard Ginori, un’azienda che stava uscendo dalla crisi che aveva attraversato, avendo trovato ben due compratori disposti a rilevarla, con un piano di rientro ben pensato ed una cassa ammontante a ben 4 milioni di euro sia stata fatta fallire?
La giustificazione data dal Tribunale, francamente, non regge: è stato affermato che il concordato preventivo stipulato con i creditori non avrebbe dato garanzie di affidabilità. Un’affermazione che lascia un po’ il tempo che trova: il concordato preventivo è un accordato tra creditori e debitori stipulato prima della procedura fallimentare che, in primo luogo, non contiene dettagli vincolanti (diciamo che potrebbe essere definito un accordo approssimativo, dal momento che è possibile che le vicende relative ad aziende in via di fallimento si concludano in modo inaspettato)e che, in secondo luogo, non dovrebbe essere affrontata nel dettaglio dai giudici chiamati a gestire un processo fallimentare (la Cassazione ha ripetutamente affermato che non sta al Tribunale giudicare l’affidabilità del concordato preventivo). In questo caso il paradosso è ancora più grosso: il concordato preventivo ritenuto non affidabile prevedeva il risarcimento del 13%-14% per i creditori, quando in caso di fallimento, solitamente, questi riesco a riavere il 4%-5% dell’ammontare.
Ma le perplessità relative a questa sentenza non si fermano qui. In primo luogo, dei tre giudici a cui era stato affidato il caso, nessuno dei tre era esperto di diritto fallimentare: è possibile che l’inesperienza nel campo li abbia spinti a tenere un atteggiamento eccessivamente prudente.
Secondo, la riflessione e la discussione che hanno portato i tre giudici a decretare il fallimento si sono basate su tutta una serie di inesattezze. Una su tutte, il fatto che il Tribunale abbia giustificato il fallimento con la preoccupazione per costo della cassa integrazione che lo Stato avrebbe dovuto pagare ai lavoratori se la Ginori fosse rimasta attiva. Peccato che la Lenox-Apulum, l’azienda disposta a rilevare la Ginori, avesse istituito un fondo di garanzia di 400.000 euro per coprire la mobilità di 270 lavoratori.
Altro elemento sconcertante è il fatto che la prudenza che ha spinto alla dichiarazione del fallimento non può essere una giustificazione per la violazione dei diritti come quella che si è verificata. Da una parte i diritti dei lavoratori, che senza nemmeno un motivo effettivo si son ritrovati senza stipendio, dall’altra quelli di tutti quei creditori che non sono classificati come privilegiati e che non vedranno alcun risarcimento.
La legge italiana dà la possibilità di fare ricorso contro una sentenza di fallimento anche se l’impugnazione della sentenza non ne sospende l’applicazione: anche in caso di ricorso, i lavoratori della Ginori non potrebbero tornare a lavorare. Per questo motivi gli sforzi dei lavoratori si concentrano in due direzioni. Da una parte, si cercano le garanzie maggiori possibili, presso la Regione e l’INPS, affinché siano garantiti con continuità i fondi per coprire la cassa interazioni prevista per i lavoratori della Ginori fino al 2014. Dall’altra, nel chiedere che nel nuovo bando di gara per la vendita della Richard Ginori venga posta la clausola sociale a tutela dei lavoratori: è necessario, per salvaguardare i diritti di coloro che sono il vero patrimonio dell’azienda, che venga posto il vincolo della piena occupazione, che venga previsto un piano degli investimenti serio che permetta all’azienda di mantenere il suo nome di eccellenza ed infine che il terreno di proprietà che il Consiglio Comunale di Sesto Fiorentino ha classificato non edificabile sia utilizzato per la costruzione del nuovo stabilimento.
Per quanto questa sentenza possa creare perplessità, dalla vicenda che sta vivendo la Richard Ginori in questi giorni una cosa è indubbia: la vera risorsa dell’azienda sono i suoi lavoratori. Questi lavoratori che hanno seguito con attenzione e competenza la crisi iniziata mesi fa e che, alla notizia del fallimento, non hanno esitato ad organizzarsi per occupare lo stabilimento per dimostrare il loro attaccamento alla fabbrica e al marchio.
Immagine tratta da www.toscanaoggi.it