Sabato, 02 Agosto 2014 00:00

Delle barriere anti rom a Firenze e di Hegel

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Premetto subito che quello che mi accingo a scrivere è più uno sfogo, piuttosto che un vero articolo. Lo sfogo scaturisce dalla recente decisione da parte del “nostro” primo cittadino, Dario Nardella, di mettere delle barriere fisse all’ingresso dei binari, atte a “scoraggiare l’accattonaggio e il facchinaggio molesti” (Firenzetoday). Il sindaco, dopo l’incontro a Roma con l’amministratore delegato di Ferrovie dello Stato, Michele Elia, ha annunciato che “Ferrovie dello Stato si è impegnata ad aumentare la sicurezza dei viaggiatori che quotidianamente frequentano la stazione rendendo permanenti con opere fisse le recenti misure di sicurezza e tutela dei passeggeri in stazione" (Firenzetoday).

È vero che barriere ci sono anche prima dell’ingresso alle metropolitane in quasi tutti i paesi europei che ne sono provvisti, ma in quel caso, credo, quelle barriere sono state pensate contro chiunque volesse accedere ai treni senza aver pagato il biglietto, indipendentemente dall’essere cittadini europei, stranieri, senzatetto, tossici, o venditori ambulanti. Stop per chiunque voglia entrare senza aver pagato il biglietto. Qui lo stop a me sembra esplicitamente (e dichiaratamente) rivolto contro un gruppo di persone, costituire prevalentemente da rom (“la stazione è piena di zingari che rubano o infilano le mani nelle borse mentre ci si accinge alle macchinette per fare il biglietto elettronico”) accattoni o chi cerca di vendere qualcosa. Premesso che non sto difendendo chiunque (e sottolineo chiunque, che sia italiano, sinti, polacco, americano ecc..) cerchi di rubare, che sia nelle stazioni o altrove, ma la soluzione pensata da Nardella rientra a mio avviso in quella chiusura sempre più razzista e intollerante che sta dilagando, purtroppo, ovunque, non solo da noi e rientra anche, sempre secondo il mio modesto parere, in quella logica, già molto portata avanti dalla precedente amministrazione di Renzi, mirante a rendere Firenze sempre di più una “città vetrina”, una città plastificata e anonima a totale misura di turista, con l’immagine finta di città in cui vige “ordine e pulizia”, in cui non ci siano senzatetto che cercano un riparo dal freddo nelle stazioni, o zingarelle sedute sui gradini, né banchini dello storico mercato di San Lorenzo (togliendoli si è distrutta, secondo me, una radice di storia tradizionalmente fiorentina, un pezzo di tradizionale, vivace e colorata popolarità e quotidianità).

Insomma la logica che appunto non vuole i banchi del mercato a “deturpare” la bellezza (innegabile ovviamente) delle Chiese di Firenze ma che lascia che le piazze vengano completamente invase e riempite dai Dehors dei ristoranti costosi (anch’essi sempre più anonimi e conformati, sempre più uguali l’uno all’altro) con le loro tende che si allungano (iperbolicamente) per un kilometro – basta andare in piazza della Repubblica, prima c’erano solo gli storici “Giubbe Rosse” e “Pakoski”, ora è difficile scorgere un frammento della piazza che non sia sommerso di simil-ristoranti e attinenti camerieri acchiappa-turisti! – La logica consumistica e da imprenditore che vuole vendere una Firenze da cartolina, una Firenze globalizzata, sventrata nei suoi angoli e nei suoi luoghi più tipici e storici, una Firenze da comprare, più che da ammirare, più che da scoprire, da vivere, da conoscere. Una Firenze commerciale in cui diventa più bello entrare (e comprare) nei negozi di marca piuttosto che in qualche negozietto nascosto e piccolino con i suoi prodotti fatti a mano, o in cui si preferisce mangiare in catene di fast food all’americana, piuttosto che in qualche buona vera trattoria con prodotti realmente toscani. Una Firenze in cui ci si fa abbagliare e imbambolare dalle vetrine dei negozi piuttosto che incantare dalla bellezza di una passeggiata lungo i ponti, lungo i vicoli infrattati, le stradine labirintiche che magari ti fanno perdere, e anziché guardare in alto verso palazzo vecchio o il campanile di Giotto, si preferisce fare un selfie di fronte al negozio di Prada, Cavalli o La Rinascente!

Tale è la stessa logica che ha abbandonato al loro triste (tristissimo) destino librerie storiche come la “Martelli” o la “Edison” per rimpiazzarle con mega catene quali Eataly o la Red della Feltrinelli. La logica che tappa le buche quando ci deve passare l’olimpiadi turistica ma che le lascia nelle periferie, perché “chissenefrega di quelle, tanto i turisti mica ci passano!”; che acclama all’ordine e alla pulizia pattugliando le piazze di forze dell’ordine (perché non l’esercito allora, come vuole la Lega!) contro chi si “fa le canne” ma lascia che i turisti (per lo più americani mi sembra, ma non solo)vomitino per terra i loro cocktail o gettino con tranquilla noncuranza bottiglie e lattine. La logica che spolpa la città snaturandone l’essenza più propria, tipica e profonda, prelevandone il cuore segreto. Strapparle la sua anima più vera, la sua anima altera e popolana, allegra, nello stesso tempo, sublime e “spartana” insieme, orgogliosa e fiera delle sue meraviglie, della sua arte incomparabile, dei suoi monumenti, della sua storia, dei suoi prodotti così come però dei suoi mercatini, dei sui posti di simpatica e sboccata convivialità. Quell’anima che probabilmente era aperta e tollerante.

Quell’anima rossa la stanno tinteggiando coi colori sbrilluccicanti delle vetrine o quelli, ancor peggiori, del verde leghista o del nero fascista. E allora stop a chiunque deturpi questa vista plastificata della città, stop a chiunque la inquini con la sua povertà e la sua marginalità. Dobbiamo nasconderle, in modo che non si vedano. Ma questo non è un modo per risolvere “il problema”, la polvere non sparisce anche se la si getta sotto il tappeto, rimane lì e lì avrebbe diritto a protestare, a farsi sentire con maggior forza di ribellione, perché lì è schiacciata, soffocata sotto l’ipocrisia di un’immagine che è solo immagine patinata e non realtà. La realtà è che queste persone non sono microbi da schiacciare, da emarginare più di quanto non lo siano già adesso, da disprezzare, su cui inveire appena succede qualcosa, a cui dar fuoco perché danno solo noia, da cacciare via, perché “non sono come noi”, perché sciupano la bellezza della città e la sicurezza dei buoni e bravi fiorentini e dei turisti internazionali con i soldi. la risposta al problema della sicurezza, a mio avviso non è quella di barricarsi o ghettizzare quelle persone, ma creare una politica di integrazione e accoglienza. Farli sentire anch’essi cittadini di Firenze, con tutto l’apporto che potrebbero dare. È troppo semplice e ipocrita tentare di risolvere le situazioni di disagio umano impedendogli di “entrare” in certi luoghi della città, ma aprirsi a una logica dell’amore contro quella del ferreo logos razionale, contro quella della legge come sottoscriverebbe la Arendt (è solo con il Cristianesimo e in particolare con la figura di Gesù che viene superata la struttura “colpa-legge-punizione”, la logica della giustizia distributiva basata su azione-reazione, la legge del taglione o della vendetta, che non fanno che aumentare e rendere più incolpabile la frattura prodotta dalla colpa anziché sanarla e si entra in una logica del perdono, della caris, dell’amore incondizionato e pienamente gratuito – o Simone Weil.

Anche Hegel comunque, parlava di superamento della propria unilateralità – Antigone è solo “l’altra faccia di Creonte”, perché anch’essa non è disposta ad accogliere l’altro in sé, rimane anch’essa impantanata, ciecamente imprigionata nella propria ovattata unilateralità, che appunto, può essere superata solo se si fa entrare l’altro in sé stessi, se si provano a comprendere le sue ragioni, se si diventa, in qualche modo, l’altro stesso – e di logica dell’amore, soprattutto nel capitolo VII nel passo della Fenomenologia dello spirito intitolato “la religione rivelata” sulla contrapposizione tra coscienza giudicante e coscienza colpevole. Secondo il filosofo tedesco la polarità apparentemente inconciliabile tra queste due figure può risolversi nella versӧhnung – riconciliazione – solo se la coscienza giudicante (o “il cameriere della moralità che sa solo imputare colpe, che vede il male dietro ogni azione e che quindi è asfittica, inerte) non rifiuta il perdono all’altra, la quale si fa avanti e va incontro confessandole i propri peccati proprio perché riconosce, anche in quella coscienza giudicante, in quell’ “anima bella” un’uguaglianza di fondo, una comunanza, ovvero la condivisione e la partecipazione della stessa umanità e quindi della stessa finitudine e fallibilità. Solo se l’anima bella smette di giudicare dall’alto della sua non-azione, solo se smette di puntare il dito contro l’altra e riconosce anch’essa di essere potenzialmente colpevole perché ugualmente umana, può avvertire l’empatica con la coscienza colpevole e può quindi accoglierla, uscir fuori dalla sua chiusa unilateralità e dal suo trono di perfetta purezza e innocenza (ma la sua è una perfezione fasulla, vuota, in quanto priva di azioni e scelte, e quindi di contenuti) e perdonare quei peccati che avrebbero potuto essere i suoi, perdonare l’imperdonabile (come dice J. Derrida un perdono o assoluto o non è tale e solo l’imperdonabile può essere perdonato) - e suturare così la frattura, il solco, aperto dalla colpa; non cioè colmando quell’abisso con la punizione o peggio ancora il rifiuto, la non-accoglienza di chi le è venuto incontro confessando le sue colpe, ma sentendolo uguale a sé, percependolo identico, riconoscendo la medesima umanità, la medesima mediocrità umana troppo umana.

Ed è il riconoscimento di quella stessa umanità che spinge l’altra coscienza “colpevole”ad andare verso l’altra, ma non per umiliarsi, per soccombere sotto la purezza della prima, ammettendo dunque oltre che la propria colpevolezza anche un’implicita ammissione di inferiorità, ma proprio perché vede nell’altra una potenziale empatia, proprio perché la riconosce uguale a sé. Non è un atto di perdono caduto da chi si sente superiore quello che accoglie e libera la coscienza colpevole, ma la partecipazione alla stessa umanità, la consapevolezza che si trasforma in un comune sentire, della propria similarità, anche solo potenziale. Siamo tutti umani, siamo tutti colpevoli quindi. Ma allora, siamo tutti, forse, degni di essere perdonati (certo, di fronte a certe aberrazioni mi verrebbe da dire no, non siamo tutti perdonabili, ma qui si entra in un altro discorso). Al di là o meno del perdono comunque, ciò su cui mi pare di dover porre l’accento, per tentare per lo meno di giustificare la digressione hegeliana agganciandola meglio al tema da cui son partita, è l’accoglienza, o anzi, il riconoscimento dell’identità di fondo che ci accomuna, al di là delle imprescindibili diversità e particolarità, e che permetterebbe di colmare quella lacuna abissale che barrica ciascuno entro la propria “prigione dorata” tenendo a debita distanza colui che è altro, che è diverso, che fa paura perché minaccia la nostra sicurezza, la nostra fortezza impenetrabile. Accogliere l’altro in sé e comprenderlo, o meglio con-prenderlo, prenderlo entro se stessi, farsene in qualche modo carico, perché è parte della nostra identica umanità cui entrambi apparteniamo.

Condividerne il destino, prenderlo per mano anziché puntargli il dito contro accusandolo come fa la coscienza giudicante. Mani per invitare e abbracciare anziché votarle alla deissi, al dito imputatore e giudice. Scendere dall’altezza inarrivabile del nostro comodo trono, anziché ergervisi sopra rendendo incolmabile e irraggiungibile qualsiasi distanza che ci separa dall’altro. Non so come potrebbe attuarsi praticamente una politica di accoglienza e amore piuttosto che una di rifiuto, piuttosto che quella che ci fa allontanare, che ci fa dire “tu non entri qui”, piuttosto che una che ospita e invita. Per fare questo ci vorrebbe la volontà politica e sociale e una strategia competente e io non ne ho ovviamente gli strumenti. Non voglio neanche peccare di ingenuità e fingere che certe questioni di sicurezza non debbano esser prese in considerazione ma rimango convinta che le barriere non siano mai la soluzione giusta e adeguata, la quale persegue il fine di respingere piuttosto che quello di integrare, che non elude il problema ma semplicemente lo aggira, senza affrontarlo davvero nelle sue problematicità e in tutti i suoi aspetti complessi e da approfondire. Che abbia il coraggio di guardare in faccia anche alle situazioni più spiacevoli, problematiche negative, come può essere quella di persone costrette a rubare nelle tasche di qualche turista per comprarsi una mela o di gente che chiede l’elemosina o anziani o giovani senzatetto che bevono o dormono sotto coperte improvvisate lungo i marciapiedi.

Per riprendere Hegel, uno spirito consapevole di sé e capace di fare andare avanti la storia, deve saper tenere lo sguardo fermo, insistendovi, nel moortum, ne negativo, epr poterlo convertire in essere. Tagliarlo fuori, chiudere ottusamente gli occhi di fronte ad esso non serve a nulla, non fa progredire il cammino dialettico dell’umanità, della storia, della sua potenziale ricchezza umana, sociale, culturale, politica. Un cammino che dovrebbe essere all’insegna di una logica dell’amore piuttosto che di quella punitiva, emarginante, che si sente superiore, reazionaria, giudicante, intollerante, chiusa biecamente in sé stessa e quindi incapace di “maturare”aprendosi all’altro, al nuovo e che fa paura o disturba proprio in quanto tale. Un cammino che non sia fatto solo di azione-reazione, colpa-punizione, reato-vendetta, ma in cui possa irrompere la meravigliosa imprevedibilità di un aspettato e totalmente gratuito gesto d’amore.

Immagine tratta da: it.wikipedia.org

Ultima modifica il Venerdì, 01 Agosto 2014 21:31
Chiara Del Corona

Nata a Firenze nel 1988, sono una studentessa iscritta alla magistrale del corso di studi in scienze filosofiche. Mi sono sempre interessata ai temi della politica, ma inizialmente da semplice “spettatrice” (se escludiamo manifestazioni o partecipazioni a social forum), ma da quest’anno ho deciso, entrando a far parte dei GC, di dare un apporto più concreto a idee e battaglie che ritengo urgenti e importanti.

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