Nato a Bagno a Ripoli (FI) il 13 settembre 1990, sono uno studente laureato alla triennale di Storia Contemporanea presso l’Università di Firenze, adesso laureando alla magistrale di Scienze Storiche. Appassionato di Politica, amante della Storia, sono “fuggito” dal PD dopo anni di militanza e sono alla ricerca di una collocazione politica, nel vuoto della sinistra italiana. Malato di Fiorentina e di calcio, quando gioca la viola non sono reperibile. Inoltre mi ritengo particolarmente nerd, divoratore di libri, film e serie tv.
Venti anni tra le macerie: la mancata ricostruzione della Bosnia Erzegovina dopo Dayton
“Sono stato qui l’ultima volta nell’inverno del 1995, sotto le pallottole. Ricorreva una triste ricorrenza: mille giorni di assedio. E’ difficile confrontare la situazione di allora con quella odierna. Molti edifici distrutti sono stati rinnovati o almeno resi abitabili. Per le strade la gente cammina senza dover temere i colpi dei cecchini. La vita torna a scorrere nelle vene della città, ma non c’è più quella solidarietà tra cittadini costretti a sopportare gli stessi tormenti insieme.”
La guerra continua negli stadi: il ruolo del calcio nella violenza nazionalista nei paesi della ex Jugoslavia
Sfido chiunque appassionato di pallone a non aver mai provato questo gioco malinconico. Provate a inserire tutti i più forti calciatori dei paesi della ex Jugoslavia in un’unica squadra. Dzeko, Jovetić, Modrić, Ivanović, Handanović: solo per citare per ogni ruolo alcuni dei più forti giocatori a livello europeo e mondiale; vedrete che il risultato sarà un “dream team” tale da far impallidire la stessa Jugoslavia precedente alla guerra.
Quel conflitto sanguinario e drammatico, come solo possono esserlo le guerre civili, che ha portato alla disgregazione della federazione jugoslava e di conseguenza questi calciatori a giocare con casacche nazionali diverse. Le guerre balcaniche si sono concluse oramai da anni, ma l’odio che per quasi un decennio le ha alimentate continua a infiammarsi alla minima occasione. Che fosse probabile una protesta con tanto di lancio di oggetti nei confronti del premier serbo Alexsandr Vučić in occasione della cerimonia a Srebrenica per celebrare i vent’anni dalla strage era plausibile. Prevedibile che Kolinda Kitarović, nuovo presidente della Croazia, sottolineasse l’importanza dei voti croati in Erzegovina dopo la vittoria alle presidenziali, acclamata da molti reduci di guerra. Ma che un anno fa la partita valida per le qualificazioni al prossimo Europeo francese tra Serbia e Albania si trasformasse in una battaglia, con tanto di drone militare portante di una bandiera del Kosovo, non se lo aspettava nessuno.
Osservando lo stupore e l’indignazione della Uefa e la reazione della stampa europea sembra quasi che tutto ciò fosse totalmente inaspettato (solamente due anni prima, per le qualificazioni ai Mondiali in Brasile, la partita tra Serbia e Croazia si era conclusa con cinque espulsioni in campo e scontri fuori dallo stadio). Come gli intellettuali jugoslavi che, increduli, osservavano l’evolversi drammatico degli eventi di quella estate drammatica del 1991, mentre proprio dagli stadi si diffondeva l’incendio della guerra. Il calcio nella diffusione dei nazionalismi della penisola balcanica ha sempre avuto un ruolo fondamentale, ancor di più che nel resto d’Europa. Qui la violenza calcistica come risultato del rapporto tra condizioni economiche e sociali difficili e la strumentalizzazione politica ha portato a conseguenze disastrose. In Bosnia Erzegovina si ricordano di Vedran Puljić, tifoso del Sarajevo a cui spararono fuori dallo stadio di Široki Brijeg due anni fa.
Sempre in territorio bosniaco, il derby tra le due piccole squadre della tristemente famosa cittadina di Mostar è una delle partite più pericolose del campionato, in una nazione che in Europa è tra i primissimi posti come violenza negli stadi. La guerra sui campi di battaglia e la distruzione di intere città e paesi è stata rinchiusa negli stadi, in un clima generale di tensione e rigidi controlli dell’informazione, come accade in Serbia, dove sugli scontri tra tifoserie è stata imposta la censura. I conflitti nella penisola balcanica negli anni Novanta probabilmente sono iniziati negli stadi, in quella generazione cresciuta dopo la morte di Tito, figlia di uno stato oramai decadente vittima di anni di corruzione e grande povertà, causati da un sistema federale incapace di riformarsi pronto all’autodistruzione. Non è un caso se molti vedono nella partita tra Stella Rossa e Dinamo Zagabria del 13 maggio 1990 l’inizio della guerra. Quel match valido per le qualificazioni alla Coppa dei Campioni allo stadio Maksimir di Zagabria si trasformò in un mattatoio, dove la stessa polizia jugoslava che doveva garantire la sicurezza della partita iniziò a pestare i giocatori e tifosi croati. Famosa la foto dell’calciatore croato Zvonimir Boban che allontana a calci un poliziotto serbo che pestava un suo giovanissimo compagno di squadra. Želiko Raznatović, comunemente noto come “Arkan” la Tigre dei Balcani, arruolava i componenti del suo agguerrito branco di Tigri nella curva dello stadio Maracanà di Belgrado, tra i più coloriti e facinorosi tifosi dello Stella Rossa.
I meritevoli giovani disoccupati, magari figli come lo stesso comandante di militari serbi o burocrati, venivano invitati dopo la partita nella gelateria in Kneza Miloša, una delle vie principali di Belgrado, di proprietà di Arkan per discutere sul futuro della Serbia. In quel locale gremito di ragazzi frustrati dall’impossibilità di un futuro e ubriacati di dottrina nazionalista, gli ultras dello Stella Rossa diventavano così membri di uno dei gruppi paramilitari più famigerati attivi nelle guerre jugoslave. Inoltre il comandante serbo decise di ripulire una parte del bottino di guerra nel calcio a fine del conflitto in Bosnia Erzegovina, investendo proprio nel pallone. Il primo due di picche lo prese proprio dalla sempre amata Stella Rossa nel 1996, l'allora presidente del club più famoso di Belgrado rifiutò l'offerta di Arkan. La Tigre scelse allora di acquistare l'Obilic, l'altra squadra della capitale, e nel giro di un paio di anni non solo la portò nella massima serie ma gli fece conquistare il primo e unico titolo nazionale della sua storia. La scelta di puntare su un club originariamente così modesto era dettata da suggestioni al limite tra storia e leggenda nonchè megalomania. Obilic FK come Milos Obilic, uno dei sovrani serbi che combatté nella battaglia contro il Kosovo, nella quale il popolo serbo perse contro i turchi e restò senza patria per 500 anni. Arkan, tra l'altro, si sentiva il messia, il nuovo Obilic, capace di riscattare il popolo serbo e il conflitto appena terminato ne era la prova.
Proprio con questa immagine abilmente costruita, Arkan riportò le sue Tigri in Kosovo all’inizio dell’ultimo conflitto balcanico, trovando nuove reclute proprio nella tifoseria della sua nuova squadra. L’esaltazione nazionalistica serba è sopravvissuta alla guerra ed è ancora fortemente presente negli stadi. L’effige di Arkan è visibile sugli stendardi degli ultras della squadra belgradese, il cui negozio ufficiale è pieno di T-shirt con la scritta “Kosovo je Srbija”. “Snage Srbjia”, la sigla “1389” anno della leggendaria battaglia del Campo dei merli nella piana di Kosovo Polje tra l’esercito serbo e gli ottomani. Non solo in Serbia la cultura calcistica è pesantemente invasa da derive nazionalistiche. I tifosi dell’Hajduk Spalato, oltre a bandiere che riportano la tradizione degli aiducchi, i pirati che terrorizzavano l’Adriatico nell’età moderna, hanno coloratissime magliette con l’effige dell’ex presidente croato Tudjman e il simbolo del suo partito nazionalista. La tifoseria della Dinamo Zagabria, in particolare i famigerati Bad Blue Boys (BBB), possiedono un vasto repertorio di cori nazionalisti e colorate bandiere che inneggiano alla grandezza dello stato croato. Recentemente è nato un nuovo gruppo ultras appoggiato dal nuovo presidente Mapić, molto più incline a relegare da una parte il forte sentimento nazionalista croato della curva, che però è stato oggetto di agguati e numerosi scontri da parte del nucleo storico dei Blue Boys.
Come citato in precedenza, la divisione amministrativa della Bosnia in tre repubbliche autonome (Croata, Serba e Musulmana) si riflette anche nel calcio, aumentando nel paese gli scontri tra tifoserie di matrice nazionalista e religiosa. Un calcio bosniaco preda oltretutto di una federazione completamente in mano a un manipolo di corrotti, che si spartiscono tra di loro i ricavi delle amichevoli giocate dalla Nazionale bosniaca e i fondi della Uefa per lo sviluppo delle strutture calcistiche; una corruzione denunciata in piazza più volte dagli stessi tifosi in manifestazioni spesso represse dalle forze dell’ordine. Episodi di violenza che vengono sottovalutati pericolosamente dalla Uefa e dagli organi di vigilanza del calcio europeo e mondiale, inseriti in una escalation silenziosa che già una volta in passato ha prodotto danni enormi. Negli anni Settanta e Ottanta il fenomeno hooligans nel Regno Unito era nato in quelle cittadine e sobborghi della classe operaia e industriale, in cui stava covando un sentimento di rabbia pronto a esplodere per le difficili condizioni economiche del paese e per quella guerra condotta contro l’industria manifatturiera e mineraria a favore della nascente politica finanziaria mondiale.
Nei paesi balcanici questo sentimento di rabbia alimentato dalla retorica nazionalista ha prodotto una guerra e ancora oggi il focolaio del nazionalismo aggressivo non si è spento. In quella pace traballante che regna sui paesi della ex Jugoslavia, la guerra è stata rinchiusa e relegata negli stadi, tenuta nascosta agli occhi del continente e riemerge in occasione delle celebrazioni della memoria bellica. Le tifoserie di questi paesi ovunque vanno ostentano con manifestazioni violente e disordini questi sentimenti di odio, tramite gruppi minoritari di facinorosi che macchiano intere nazioni. Gli incidenti dei tifosi serbi a Genova in occasione della partita con l’Italia lo scorso anno e i disordini all’estero dei tifosi croati di quest’ultimo periodo ne sono una testimonianza. Elementi nazionalistici che sono presenti in altri sport: basti guardare le esultanze di Novak Djoković ad ogni vittoria e trofeo, il tuffo in piscina della nazionale di pallanuoto serba facendo con tre dita della mano il simbolo della trinità serba agli ultimi europei ecc.
Per combattere questa violenza nata da sentimenti che con il calcio e con lo sport non hanno niente a che fare, sarebbe necessaria una più severa vigilanza da parte degli organi competenti per bastonare tramite dure sanzioni (come la minaccia del taglio ai fondi di finanziamento alle federazioni, l’esclusione dalle competizioni internazionali sia di club che delle Nazionali, penalizzazioni nel ranking ecc) le federazioni calcistiche per costringerle a promuovere presso i propri governi delle legislazioni severe sulla violenza negli stadi. Nella sua immobilità causata da una mancata unione d’intenti e nella sua vocazione economica, l’Europa del calcio osserva indifferente l’esplodere momentaneo di questi casi di violenza, ignorando una situazione che in questi paesi è diventata la normalità. Una delle missioni principali dello sport e del calcio dovrebbe essere quella di trasmettere sentimenti di unione e amicizia, cercando di far dimenticare davanti a un pallone anni di guerre e di odio, non contribuire a soffiare sulle ceneri ancora ardenti di un conflitto dimenticato. Che ancora rumoreggia negli stadi, aspettando il momento in cui il pallone volerà fuori dagli spalti riversandosi in strada.
Storie di uno Stato di mafia
Il nostro è un paese sedato, un malato cronico schizofrenico tenuto tranquillo, pronto a esplodere a seconda di determinati momenti in brevi attacchi isterici senza troppe conseguenze. Non si capisce quali siano i reali sentimenti della popolazione, nel confuso ma abilmente orchestrato valzer di notizie: immigrazione, riforme presentate con un tecnicismo ignorato da gran parte degli italiani, guerra allo Stato Islamico, cronaca nera ecc. In questo confuso e ciclico teatrino, portato avanti da una stampa sempre meno indipendente, la notizia dei funerali del boss mafioso Vittorio Casamonica irrompe come un fulmine a ciel sereno nei telegiornali e nella stampa cartacea, oscurando allo stesso tempo la notizia dell’inizio del maxiprocesso per gli imputati dell’inchiesta “Mondo di Mezzo”.
La nascita di una alternativa al Partito Socialista Europeo è la chiave per una svolta significativa in Europa
“La federazione europea non si proponeva di colorare in questo o quel modo un potere esistente. Era la sobria proposta di creare un potere democratico europeo”.
Con queste parole Altiero Spinelli descriveva la sua idea di un'Europa unita. Oggi ci ritroviamo a vivere in un soggetto politico europeo che di politico ha ben poco. L'Unione Europea di oggi, nonostante i propositi e le buone parole spese in questi anni, non si è evoluta. Rimaniamo ancora strettamente legati a quel processo di unificazione prima di tutto monetario e economico, privo di una solida base politica che impedisce uno sviluppo egualitario dei suoi stati. Un processo che per la sua struttura economica e monetaria ha inevitabilmente portato benefici ai due maggiori stati europei, Francia e Germania, che dalla nascita dell'Unione si sono sempre contesi il controllo della linea politica da dettare a tutti gli stati. Insieme ovviamente al predominio economico e alla ricerca delle migliori condizioni per i propri paesi di diventare le locomotive del continente.
Pronti via, dopo due minuti senti le note della bellissima colonna sonora di John Williams (adattata magistralmente da Micheal Giannino) e ti ritrovi scaraventato indietro nel tempo a quando eri bambino, che guardavi con lo stesso sguardo rapito del dottor Grant un brontosauro issarsi sulle due zampe posteriori per arrivare a strappare le foglie più in alto di un albero. Perché questo è il sequel della fortunata saga “jurassica”: un omaggio al capolavoro di Spielberg e un tentativo ben riuscito di far tornare alla luce un mondo che avevamo lasciato completamente in rovina nel terzo film.
La vittoria in Irlanda del referendum sui matrimoni civili. Un Sì su cui riflettere
Fino al 1993 una coppia omosessuale che si baciava per strada a Dublino o in una qualsiasi città irlandese salutandosi dopo una serata al pub, anche solo con un casto bacio della buonanotte, poteva essere incriminata. Oggi quella stessa coppia omosessuale, appena dodici anni dopo che l’omosessualità è stata depenalizzata, può sposarsi e sette persone su dieci non hanno niente da ridire.
La cattolicissima Irlanda dice sì ai matrimoni gay. Il 62,1% ha votato sì nel referendum sull’introduzione delle nozze omosessuali. I no si sono fermati al 37,9%. I voti complessivi a favore sono stati 1.201.607, mentre quelli contrari 734.300. L’affluenza a livello nazionale è stata del 60,5%. Andando oltre a questo grigio calcolo matematico e statistico, è il risultato a essere importantissimo. L’Irlanda è il primo paese a livello mondiale che per l’approvazione dei matrimoni tra persone dello stesso sesso richiede il parere del suo popolo attraverso il referendum. In un paese estremamente cattolico, dove la cattolicità non ha solo un valore religioso ma anche nazionalistico, distinzione fondamentale nella lotta fratricida con l’Irlanda del Nord e contro l’eterno nemico inglese, il risultato non era affatto scontato. Superare il dogmatismo cattolico sulla famiglia tradizionale sembrava quasi impossibile, fino al 1993 l’omosessualità era ancora un crimine e vedere l’Irlanda affiancarsi all’eterno rivale britannico nell’estensione dei diritti civili alla comunità omosessuale sembrava utopico.
Il risultato del referendum e la sua grande partecipazione hanno messo a tacere tutti. Troppo facile fare un paragone con la situazione in Italia, quasi avvilente. Tutti i partiti politici irlandesi avevano appoggiato il referendum e hanno applaudito alla vittoria del fatidico “Sì”, dal primo ministro Enda Kenny nonostante dichiaratamente cattolico praticante che ha ringraziato i giovani irlandesi per la spinta data alla vittoria, sino ai leader dei partiti d’opposizione. Nel nostro paese invece Matteo Salvini che, dopo aver posato nudo per il settimanale “Oggi”, non perde occasione per ostentare la sua virilità e mascolinità, sottolineando l’importanza di essere veri uomini rispetto agli omosessuali e la devianza delle donne lesbiche, affermando inoltre la crescita deficitaria di un bambino cresciuto da due genitori omosessuali, ignorando gli anni di studi mondiali e europei medici, psicologici e pedagogici sulle differenze nulle di crescita di un bambino con genitori dello stesso sesso rispetto a un bambino con genitori eterosessuali. La gravità della situazione italiana non sta solo nell’arretratezza in materia di diritti civili rispetto al resto d’Europa (paesi come la nazionalista e cattolica Croazia, la Slovenia e la pericolosa Ungheria di Orban ci hanno sorpassato da anni), vista l’arretratezza politica che abbiamo può anche essere normale, ma sta nell’arretratezza culturale.
A partire dai nostri politici, sino alla vita di tutti i giorni, la comunità lesbica e omosessuale italiana (per non parlare della situazione relativa alla transessualità) è bersaglio di dichiarazioni degradanti, luoghi comuni, additata come un pericolo per la mascolinità dell’uomo italiano, concetto che ci portiamo dietro dall’epoca fascista e affinato con il ruolo patriarcale dell’uomo nella famiglia e la sudditanza della donna, eredità questa della tradizione cattolica. Non vi è alcuna tutela, solo strumentalizzazione politica da parte dei partiti e totale ignoranza sul tema dalla gran parte della popolazione. Gli stessi partiti politici che si ritengono progressisti e dovrebbero fare loro la battaglia per i diritti civili, a partire dal PD che si proclama rappresentante assoluto della sinistra italiana sino agli altri partiti della sinistra, si dimostrano ancora incapaci di affrontare con successo il problema. Questo perché a mio parere gli elementi culturali conservatori della tradizione fascista e cattolica di cui ho parlato prima hanno contagiato ormai da troppo tempo anche quelle formazioni politiche che ideologicamente dovrebbero aprirsi alle lotte per i diritti. La famiglia tradizionale, l’uomo italiano forte e virile, la difesa di una presunta moralità sono elementi ideologici che hanno condizionato il progresso ideologico sui temi della sessualità e dei diritti civili e che hanno segnato anche formazioni politiche di sinistra. Basti pensare al ruolo del Partito Comunista nella battaglia sociale per il divorzio e l’aborto, un partito quello che al suo interno aveva molti elementi sociali conservatori. In questo paese a causa di questa impalcatura ideologica e cultura conservatrice, accompagnati da un misto di bigottismo culturale e ipocrisia, non si è mai seriamente portato avanti una politica di educazione sessuale nelle scuole, certe tematiche sono ancora oggi considerate dei tabù e il ruolo stesso della donna all’interno della società continua a essere traballante. Elementi che possono apparentemente sembrare scollegati, ma che invece si intrecciano in questa lotta comune contro una società estremamente maschilista, conservatrice e arretrata. Non siamo ancora arrivati a capire che il riconoscimento dei diritti civili è strettamente legato al diritto di un cittadino italiano a essere felice e di costruirsi una vita.
Senza portare questi cambiamenti e smetterla di pensare che l’omosessualità sia un problema e un pericolo, non aiuteremo mai tutti quei ragazzi e ragazze che crescono con un disagio enorme una volta resosi conto negli spogliatoi dove praticano sport, nelle scuole, nei locali ecc che gli piacciono persone dello stesso sesso e questa sensazione di diversità inserita all’interno del clima rigido e ostile che abbiamo li porta a sentirsi rifiutati, problematici, malati nonostante ormai l’omosessualità non sia più considerata una malattia psicologica come erroneamente si pensava prima. E vi assicuro che certe esperienze lasciano più segni di qualsiasi patologia mentale e anzi compromettono l’equilibrio psicologico di un ragazzo nella sia crescita. Il problema della mancata educazione o semplice discussione nelle scuole frena questo processo di supporto e di far capire ai nostri ragazzi che i loro coetanei con un orientamento sessuale diverso dal loro non sono nulla di patologico o pericoloso.
Si parla spesso di difendere i giovani, soprattutto lo dice la Chiesa cattolica nel suo sforzo di repressione, ma non si capisce che continuando su questa linea intransigente e senza riconoscere i diritti e le tutele noi i giovani li distruggiamo. In Irlanda tutti quei giovani che si riteneva fossero minacciati da quella che molti cattolici e conservatori chiamano “teoria gender” (come se vi fosse in atto una qualche cospirazione internazionale) erano nelle piazze a spingere per l’approvazione del referendum e hanno festeggiato tutti assieme, senza badare all’orientamento sessuale, per il riconoscimento dei diritti di tutti i giovani a essere felici. In Italia non si capisce che questa lotta va di pari passo con le lotte sociali, si continua a utilizzare la scusa dei problemi economici per mascherare un senso di repulsione diffuso e di conservatorismo ideologico. La contraddizione dell’odio diffuso nei confronti della Chiesa cattolica accompagnato però dalla strenua difesa dei suoi capisaldi. Insieme a una mancata comprensione e mancata acquisizione di uno dei maggiori fondamenti degli stati moderni, la laicità di uno stato rispetto alle istituzioni religiose, e questa mancata consapevolezza è frutto di decenni se non addirittura secoli di profonda collusione politica e economica che hanno instaurato un rapporto di sudditanza tra la Chiesa e molti partiti. In Italia oramai la proposta di legge per i diritti civili è diventata esclusivamente materia elettorale, una vuota promessa che riecheggia annualmente dalle voci grosse del Partito Democratico mai accompagnata da iniziative serie e decise. A sinistra del PD, la perduta credibilità politica di Vendola impedisce che la sua propaganda a favore dei diritti venga recepita e ancora più a sinistra si sono dimenticati che Rifondazione Comunista è stato sinora l’unico partito a presentare un progetto di legge respinto per le unioni civili. Nelle formazioni politiche di destra o conservatrici, si continua con il ripudio e le denigrazioni, rifiutandosi di affrontare la questione in maniera civile e moderna come hanno fatto molti partiti conservatori europei. A dimostrazione del fatto che il problema più che politico è culturale. La Chiesa cattolica in Italia continua con il suo ostruzionismo e le dichiarazioni in merito di Papa Francesco vengono gonfiate dai media oramai preda dell’orgasmo collettivo seguito alla sua elezione al soglio pontificio, dimenticandosi la sua storia all’interno delle istituzioni ecclesiastiche e che le sue frasi sono soggette a più interpretazioni.
Lontane le parole dell’arcivescovo di Dublino e Primate d’Irlanda Diarmuid Martin “È una rivoluzione sociale. La chiesa ora deve fare i conti con la realtà”. In questo clima di ignoranza soprattutto e di chiusura mentale è impensabile poter arrivare al traguardo raggiunto dall’Irlanda, un paese che ancora oggi non ha legalizzato l’aborto se non in casi eccezionali, cosa che i nostri giornali e media continuano a ripetere quasi a esorcizzare il senso di vergogna che si prova quando ci si sente sorpassati. Guardando la cartina europea in materia di diritti civili, tutela e riconoscimento delle comunità Lgbt non si può che provare un profondo senso di vergogna e rifiuto, chiedendosi come mai ancora anche l’Unione Europea non intervenga per normalizzare la situazione in tutta l’eurozona e combattere chi ancora ipocritamente ne sostiene la non normalità di questi provvedimenti. Forse perché qualcuno in questo paese proverà un senso di orgoglio a guardare questa cartina dei diritti, sentendosi protetto da una qualche minaccia. Ma basta pensare a queste tristi cose. In fondo questi discorsi mi vengono perché, guardando esultare quei ragazzi sotto il cielo d’Irlanda, se da una parte sono felice dall’altra rosico invidioso. Best wishes to the newlyweds!
Lo stridio del falco adirato davanti al ruggito trionfante del leone. Una metafora perfetta per descrivere la reazione rabbiosa del rieletto premier Benjamin Netanyahu di fronte ai festeggiamenti del presidente iraniano Hasan Rohani e degli altri membri del suo governo dopo il raggiungimento di un’intesa sulla politica nucleare dell’Iran a Losanna lo scorso 2 aprile.
La caduta dei giganti: maestri inglesi viola di rabbia
Lo aveva detto mister Pochettino prima della partita: “Giocheremo in un ambiente caldissimo. I tifosi della Fiorentina fanno paura”. Il timore del manager degli Spurs si è concretizzato al momento dell’entrata in campo della sua squadra per il riscaldamento, quando si sono ritrovati davanti una muraglia di sciarpe e bandiere viola che ha rumoreggiato intensamente per tutta la partita. Si parla troppo spesso di stadi vuoti, tifosi disinnamorati, ma la sera del 26 febbraio si è confermata l’esistenza di alcune eccezioni all’interno del calcio italiano oramai in crisi da troppo tempo.
Nubi sui Balcani: la vittoria di Kolinda Grabar Kitarovic e la rinascita nazionalista croata
Una notizia che ha trovato poca risonanza nei media italiani, pur trattandosi di un paese poco lontano da noi, in un momento in cui i fari della stampa europea sono ancora puntati sulle ferite di Parigi e sull’Isis, mentre in Italia si stava giocando la partita politica per il Quirinale: per la prima volta dall’uscita di scena di Franjo Tudiman, il partito Hrvatska demokratska zajednica (Unione popolare croata) riesce a eleggere un suo candidato come capo dello stato nel nuovo presidente Kolinda Grabar Kitarovic.
Dopo le stragi nelle metropolitane di Londra e Madrid, un altro deciso attacco in una grande capitale europea da parte del terrorismo di matrice islamica. O perlomeno questa è la definizione scelta e ripresa dai media di tutto il mondo per dare un volto alla banda di assassini che ha attaccato la sede del giornale di satira francese “Charlie Hebdo”, nel cuore di Parigi in Rue Nicolas Appert, a due passi da Place de la Bastille. Un attacco pensato e organizzato con cura, come dimostra la scelta del giorno della riunione mensile di redazione, nella quale erano riunite le principali firme del giornale: Jean Cabut, Georges Wolinski e Bernard Verlhac in arte “Tignous” insieme al celebre direttore “Charb”, Stèphane Charbonnier, tutti uccisi a sangue freddo dai terroristi. Condanna a morte arrivata a causa della pubblicazione nel corso degli anni di vignette satiriche nei confronti del terrorismo islamico, che avevano causato un primo attacco nel 2012 nel quale la sede del settimanale era stata colpita da delle molotov causando un pur piccolo incendio.
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