Questo racconto è di Pedrag Matveiević, professore bosniaco di letteratura che ha insegnato a Zagabria e alla Sorbona di Parigi. Risale al 1997, quando tornò a Sarajevo due anni dopo la fine del conflitto in Bosnia. Purtroppo è di una attualità disarmante. La capitale dello stato bosniaco ha perso quell’elemento mitteleuropeo che ne aveva per secoli caratterizzato la storia. La stessa Bosnia Erzegovina non è più quell’esempio di integrazione jugoslava, di stato multietnico, di convivenza culturale e religiosa che era stata durante gli anni della Federazione jugoslava e anche prima. La guerra e tutto quello che ne è seguito hanno raggiunto il risultato della pulizia etnica dei territori, non tanto da una sola etnia ma dalla multietnicità. Gli accordi sottobanco tra Milošević e Tuđiman prima e tra Izetbegović e lo stesso Tuđiman in seguito puntavano proprio all’obbiettivo della rottura di quest’ultima eredità della Federazione jugoslava, il degenero dell’equilibrio etnico e culturale che si era instaurato, vista l’impossibilità della vittoria definitiva di una sola fazione.
Che in realtà non è mai stata preventivata da nessuna delle parti in conflitto, non era nell’interesse di nessuno dei tre governi nazionalisti. Quella guerra è stata combattuta perché la classe dirigente che aveva provocato il collasso dello stato jugoslavo si spartisse i brandelli di quello stesso stato, le sue risorse, la sua popolazione. Un conflitto combattuto da predoni, bande di ladri organizzatesi in gruppi paramilitari, alleate con i governi nazionali e sfruttate da questi per gettare la popolazione bosniaca in un mattatoio di sangue che avrebbe cambiato lo stato delle cose per sempre. E il bottino riguardava proprio la Bosnia Erzegovina, sempre definita una piccola Jugoslavia, con la sua popolazione divisa in differenti culture religiose ma unite in quella cultura fatta di multietnicità e tolleranza secolari che addirittura aveva reso Sarajevo tra il XV e XVII secolo una meta di rifugio per gli ebrei sefarditi, eretici e perseguitati di molte religioni. Questo elemento multietnico era sopravvissuto all’Impero ottomano, grazie anche alla politica dei distretti che rendeva i territori del sultano estremamente variegati dal punto di vista culturale e religioso; aveva passato indenne gli anni della Prima Guerra Mondiale e proprio a Sarajevo si erano diffusi quegli elementi nati dalla cultura propriamente jugoslava che voleva annullare le differenze tra i popoli balcanici, per sollevarli alla rivolta contro le grandi potenze degli Imperi austro-ungarico e ottomano.
Lo jugoslavismo fu una corrente di pensiero fondamentale a partire dalla seconda metà dell’Ottocento per i popoli della penisola balcanica, abbracciando ambiti culturali, religiosi e politici. E proprio Sarajevo all’indomani della Prima Guerra Mondiale ne fu uno dei centri principali, con l’organizzazione studentesca di stampo rivoltoso “Mlada Bosna”, la Giovane Bosnia, di cui faceva parte anche Gavrilo Princip. Si parlava già di serbo bosniaci, come lo era il giovane che aveva ucciso l’erede al trono di Vienna, di croato bosniaci e di bosniaci musulmani ma lo si faceva in un ambito sovranazionale, guardando alla possibilità di riunire queste culture in un’unica entità statale. Il dramma dell’occupazione del Regno di Serbia e Croazia durante la Seconda Guerra Mondiale, l’azione di sterminio da parte degli Ustascià di Ante Pavelić e dei Cetnici di Mihajlović contro la popolazione musulmana e l’avanzata delle truppe partigiane di Tito misero a repentaglio l’eredità secolare di questo stato multietnico. Che il leader comunista jugoslavo riuscì poi a preservare, dopo gli anni di ricostruzione di questo territorio lacerato da un conflitto estremamente sanguinario, senza entrare nel merito dei metodi e delle politiche adottate che poi portarono allo sfascio di quella Jugoslavia sognata per almeno un secolo. Dalla morte di Tito presero forma tutte le tensioni di anni di insoddisfazioni, promesse non mantenute, crisi economica che sfociarono in una deriva di odio nazionalista e religioso esplosa definitivamente nel 1991.
Se la guerra in Slovenia fu una scaramuccia e un teatro allestito per coprire quello che si preparava dietro le quinte, lo spettacolo dell’orrore incominciò con la guerra tra Serbia e Croazia. L’annientamento di Vukovar, i bombardamenti di Dubrovnik e Spalato, l’attacco delle milizie croate in Krajina furono gli episodi più sanguinosi e misero il mondo davanti alla cruda realtà di quello che stava avvenendo nel cuore dell’Europa. La guerra in Bosnia fu il processo conclusivo, l’attacco a quella realtà multietnica che resisteva da secoli e che doveva scomparire. Un’occasione per le potenze occidentali di strutturare il nuovo “ordine mondiale”, messo da parte il nemico sovietico era necessario identificare un pericolo per tenere in riga gli alleati occidentali e iniziare una missione globale di guerra per la democrazia, che nascondeva una strategia precisa di influenza politica, sociale ed economica. Per questa operazione e per la nascita dell’Europa unita uno stato come la Bosnia Erzegovina non poteva esistere. L’Islam e il cristianesimo non potevano più convivere pacificamente in una realtà multietnica, almeno non dopo le guerre all’Iran e la prima guerra del Golfo. Si doveva tracciare una trincea immaginaria, delineare un fronte di combattimento per gli anni successivi e porre le basi per la guerra al terrorismo islamico, che ancora oggi sconvolge le cartine del Medio Oriente e non solo. Una guerra che nasconde interessi ben maggiori di uno scontro ideologico o di una vocazione democratica, come si è visto anche nel conflitto bosniaco. Per questo motivo la posizione delle potenze occidentali in Bosnia è sempre stata ambigua: contemporaneamente criticavano i serbo bosniaci dei generali Radovan Karadžić e Ratko Mladić e il presidente serbo Milošević, attaccavano i croati per le loro ingerenze in Erzegovina e gli stessi bosniaci per i ripetuti finanziamenti e aiuti che ricevevano dall’Iraq, dall’Iran e dallo stesso Osama Bin Laden.
In realtà i caschi blu dell’Onu e le varie commissioni non erano altro che arbitri di uno scontro che doveva esserci, restavano a guardare quel processo sanguinoso di dissoluzione che doveva essere portato a termine. Sin dai primi giorni di marzo del 1992, quando i serbi del quartiere di Grbavica a Sarajevo abbandonarono la città per spostarsi sulle montagne e contribuire alla morsa dell’assedio, gli osservatori dell’Onu rimasero a guardare, anche nel momento in cui l’Armata Federale Jugoslava posizionò i suoi cannoni intorno alla città. Sarajevo la cosmopolita doveva diventare un mattatoio, terreno di scontro religioso e culturale, una visione allestita dagli stessa media occidentali. Il giornalista bosniaco Zlatko Dizdarević rispose così alla CNN: “Sono stufo di dover continuare a dire alla gente che non sono fondamentalista, che mangio prosciutto e bevo cognac e che qui le ragazze portano la minigonna. Non siamo noi, è l’Occidente che ci vuole islamici”. Sino all’ultimo atto del dramma della guerra, che già aveva vissuto il lungo assedio di Sarajevo e i combattimenti feroci intorno a Mostar, ovvero il massacro di Srebrenica. Quell’enclave di rifugiati e sfollati, a cui il generale dei caschi blu Philippe Morillon aveva promesso protezione e sicurezza, fu vergognosamente consegnato in mano alle truppe serbo bosniache. Una decisione voluta per evitare un accordo ai tavoli di pace tra le popolazioni in guerra, inquadrare i capri espiatori del conflitto nascondendo i veri responsabili della tragedia bosniaca e sancire definitivamente la volontà delle grandi potenze sul destino della Bosnia Erzegovina.
L’epilogo della “guerra di Madeleine”, in riferimento al segretario di Stato USA Madeleine Albright responsabile principale degli errori dell’Onu nel conflitto, furono gli accordi di Dayton del novembre 1995. Viene riconosciuta ufficialmente la presenza in Bosnia ed Erzegovina di due entità ben definite: la Federazione croato-musulmana che detiene il 51% del Territorio bosniaco e la Repubblica Srpska (49%). Altra voce importante di questo accordo è la possibilità dei profughi di fare ritorno presso i propri paesi di origine. Con le sue due entità, un distretto, dieci cantoni, tre presidenti e più di un centinaio di ministri, la Bosnia Erzegovina è uno Stato non-funzionale. La divisione di ogni livello dell'amministrazione su linee etniche non consente il normale funzionamento della macchina statale. Inoltre, non garantisce il rispetto per i diritti dei singoli, come chiarito nel 2009 dalla Corte di Strasburgo con la sentenza Sejdić-Finci. a Bosnia di oggi è la somma di un insieme di comunità locali, città e regioni etnicamente divise. Il processo di ritorno, disciplinato dall'Annesso 7 degli Accordi di Dayton, che avrebbe dovuto consentire a profughi e sfollati di rientrare nelle proprie case, non ha modificato i risultati della guerra. I rifugiati hanno sì riavuto le proprie case ma, soprattutto dove si sono trovati ad essere minoranza dopo la guerra, hanno deciso di rivenderle, oppure di tenerle come seconde case, senza abitarle. La struttura del sistema educativo è l'elemento che più di ogni altro contribuisce a questo lento processo di disgregazione sociale. In Bosnia esistono oggi tre curriculum di studio differenti, articolati in base alle cosiddette “materie nazionali”. Le nuove generazioni non crescono in un ambiente inclusivo, con una base di valori e riferimenti comuni, ma in un sistema frammentato, in cui non esiste un ministero dell'Istruzione su base statale.
Il vero risultato di Dayton è stato raggiunto. A Sarajevo e nella parte orientale della Bosnia a maggioranza musulmana, si sono moltiplicati minareti in stile asiatico finanziati da associazioni saudite e iraniane. In Erzegovina, composta maggiormente dai croati fedeli a Zagabria, si sono moltiplicati i campanili delle chiese, quasi punte di lancia di un esercito sempre pronto alla crociata. Le comunità serbe ortodosse si stringono intorno alle rovine dei loro monasteri, restaurati spesso con i soldi di Belgrado, ascoltano i loro monaci messianici sempre pronti ad infiammare gli animi dei ferventi nazionalisti. Un regime di pace armata e divisa è stato imposto in Bosnia Erzegovina, che ancora una volta, come per tutto il corso della sua storia, è lo specchio della situazione nel resto dei Balcani. Una regione nel cuore dell’Europa e i cui stati si sono candidati a entrare nell’Unione Europea, di cui già fanno parte Slovenia e Croazia pur senza aver adottato la moneta unica, che ancora non conosce la pace. In Bosnia si sono fermati a guardare immobili le macerie di un conflitto che la stessa popolazione non ha voluto e in cui si è ritrovata coinvolta, una guerra che ha distrutto un mondo che sopravviveva da secoli e da altre guerre passate. La ricostruzione non è avvenuta perché non è stata voluta, non era possibile in questo nuovo mondo fatto di nuove guerre religiose e di scontro tra civiltà, parole vuote per mobilitare come in Bosnia masse di disperati in un conflitto sanguinoso internazionale fatto di interessi e strategie. Ci deve sempre essere un nemico ed è sempre il vicino diverso.