Domenica, 26 Aprile 2015 00:00

La minaccia fantasma di Israele e il fallimento di Netanyahu

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Lo stridio del falco adirato davanti al ruggito trionfante del leone. Una metafora perfetta per descrivere la reazione rabbiosa del rieletto premier Benjamin Netanyahu di fronte ai festeggiamenti del presidente iraniano Hasan Rohani e degli altri membri del suo governo dopo il raggiungimento di un’intesa sulla politica nucleare dell’Iran a Losanna lo scorso 2 aprile.

L’Iran e il gruppo chiamato 5+1 (i membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu più la Germania), insieme all’Unione europea, hanno infatti trovato la formula per dare garanzie alla comunità internazionale circa la natura pacifica del programma nucleare iraniano, mettendo fine a tutte le sanzioni economiche, unilaterali e multilaterali, nei confronti di Teheran.

Se, come ci si aspetta, riusciranno a sviluppare questo accordo di principio in un accordo definitivo entro la fine di giugno, avranno segnato un importante cambiamento geopolitico che aprirà la possibilità di cooperazione tra gli Stati uniti e l’Iran ben oltre il dossier nucleare, su altre questioni di interesse comune.

Un segnale preoccupante per il ruolo internazionale di Israele.

Perché se gli Stati Uniti ufficialmente continuano a presentarsi come il miglior alleato dello stato israeliano, dall’altro si sono resi conto di non potersi più fidare della politica portata avanti di Netanyahu.

Il diffondersi della crisi siriana in tutto il Medio Oriente, il maldestro e mancato controllo dell’Iraq, più il problema, da loro stessi creato, dello Stato Islamico, hanno portato le potenze occidentali a rivolgersi altrove per il mantenimento dell’equilibrio politico. La politica ambigua di Erdogan in Turchia inoltre non convince totalmente gli Stati Uniti e soprattutto i paesi dell’Unione Europea. Inoltre pesa la difficile situazione oramai incontrollabile della Libia e la mancata gestione dei profughi, di cui molti provengono dal “fronte israeliano” del Libano e dai campi che accolgono la popolazione palestinese proveniente dalla Striscia di Gaza.

Nel mutamento della percezione del ruolo di Israele, che ha dovuto assistere al riconoscimento dello stato palestinese da molti paesi europei e alle dichiarazioni della Casa Bianca sulla necessità di creare due stati separati, ha influito il fallimento della politica e della retorica di Netanyahu, che non ha messo da parte i toni aggressivi che ricordano gli anni Settanta, come se non fossero passati cinquant’anni dalla Guerra dei Sei giorni o dall’attentato di Monaco.

Un clima di tensione appositamente allestito anche per le elezioni da poco concluse, che gli hanno permesso di ottenere un altro mandato al governo del paese. L’appoggio determinante dei gruppi religiosi ebraici e addirittura il voto di molti arabi israeliani, probabilmente condizionati dal clima di alta tensione, hanno permesso la vittoria di Netanyahu che pure nei sondaggi era dato per sconfitto. Questo grazie all’enorme lavoro del leader del partito laburista Isaac Herzog, il quale è riuscito a risollevare il partito dopo lunghi anni di sconfitte elettorali pesanti. Un’operazione politica complessa, che ha puntato molto sul sentimento diffuso di frustrazione del popolo israeliano nei confronti di questa perenne situazione di pericolo e di sindrome da accerchiamento.

Dagli anni del premier David Ben Gurion, al momento della fondazione dello stato israeliano nel 1948, il partito laburista israeliano, erede del movimento sionista, ha completamente abbandonato quell’importante eredità ideologica legata al socialismo e al lavoro della terra. Il sacrificio dell’ideologia socialista laica, della visione più romantica della nazione e la perdita dell’esperienza dei Chibbat Zion, insediamenti espressione e frutto del pensiero socialista diffusosi in Russia con Nacham Syrkin, ebreo russo di Minsk, hanno portato a questa deriva nazionalista.

Syrkin espulso prima dalla Russia poi dalla Germania in seguito alla rivoluzione del 1905, partecipò ai congressi sionisti votando inizialmente contro la mozione di Herzl sulla possibilità di colonizzare la Palestina. Per Syrkin il sionismo doveva essere qualcosa di più dei progetti di colonizzazione di Herzl con forti limitazioni borghesi intellettuali occidentali. L’impronta definitiva alle nuove comunità agricole in Palestina dei primi anni del Novecento venne data da Aaron David Gordon, ebreo russo della provincia di Podolia. Fondò il gruppo di Ha-Poel ha-tzair (in ebraico “il giovane lavoratore") che si staccò dagli ideali socialisti europei ed enfatizzò il ruolo del sionismo, entrando in competizione con i gruppi religiosi. Il principio centrale della filosofia di Gordon si basava sul valore curativo del lavoro fisico, impregnandolo di una mistica esaltata che entusiasmava i pionieri rifacendosi al pensiero di Peter Kropotkin. Esaltava il ruolo dei giovani studenti istruiti e laici che componevano le comunità lavorative in Palestina, per modellare un nuovo popolo, in solidarietà con gli altri popoli e il cui atteggiamento verso ciò che lo circonda è ispirato da “impulsi di creatività e di amore per la vita”.

L’eredità di queste esperienze venne abbandonata da Ben Gurion per dare un’impronta più nazionalista al partito sionista e per instaurare un dialogo con le comunità religiose presenti in Palestina al momento della fondazione dello stato israeliano, per impedire la diffusione del movimento nazional religioso estremista dell’Irgun di Moshame Begin. Un nuovo corso nazionalista che ha condizionato nel corso della sua storia il partito laburista israeliano, con la perdita dei suoi valori socialisti e un sottile confine ideologico a dividerlo dai partiti nazional religiosi e dalla coalizione nazionalista del Likud.

La volontà della politica israeliana di collegare indissolubilmente l’identità dello stato alla terra ha condizionato pesantemente l’ideologia laburista, impedendo la nascita di un nuovo corso anche a sinistra. L’ultimo premier laburista che ha cercato di distaccarsi da questa deriva nazionalista, Yitzhak Rabin, con il suo tentativo di ricerca di un accordo di pace con il popolo palestinese e la concessione di territori al suo rivale Arafat, è stato ucciso come traditore da un ebreo ultraortodosso nazionalista, pur essendo stato un eroe nazionale per il ruolo rivestito nella Guerra dei Sei giorni. L’omicidio di Rabin fu visto da parte della popolazione israeliana legata al nazionalismo religioso come una punizione divina a causa della concessione dei territori ai palestinesi, retorica portata avanti sia dai leader nazionalisti che dagli stessi vertici religiosi ebraici.

A causa della situazione incendiaria creatosi, i nazionalisti del Likud vinsero le elezioni e il partito laburista entrò in una crisi politica e di valori senza fine, almeno fino a questo momento.

Il nuovo leader laburista Herzog ha portato avanti un’operazione politica di sintesi tra la ripresa dei valori tradizionali del sionismo originario, molto differenti dal sionismo attuale a cui siamo abituati, figlio della fusione tra nazionalismo e ortodossia, e appunto la consapevolezza a cui probabilmente era arrivato Rabin stesso dell’impossibilità di continuare a ignorare lo stato palestinese e le sue rivendicazioni.

Più volte Herzog ha condannato lo stato perenne di assedio instaurato da Netanyahu in questi anni, dando voce alla frustrazione di un popolo ormai abituato al rumore delle sirene di allarme dei razzi libanesi e di Hamas. E ha più volte sottolineato la necessità di trovare una vera intesa con i palestinesi, ipotizzando un dialogo con Hamas, per porre fine alla prigionia oramai pluridecennale di una popolazione che si è ritrovata senza uno Stato e priva di riconoscimento, prigioniera in pochi chilometri di terra nella Striscia di Gaza e separata dai loro connazionali in Cisgiordania.

Herzog ha perso le elezioni di poco, grazie all’astuzia di Netanyahu nel ribaltare l’ottica della questione nucleare iraniana come una politica aggressiva verso Israele e nel fomentare le paure degli israeliani di fronte a una situazione geopolitica del Medio Oriente instabile. Ma è ormai iniziato un processo di cambiamento ideologico in seno al partito laburista che porterà a risultati importanti, proseguendo sulla strada della ripresa dei valori socialisti e laici del sionismo, iniziando a riflettere seriamente sull’impossibilità dell’esistenza pacifica di Israele senza la risoluzione della questione palestinese e il pieno riconoscimento territoriale della Palestina.

Pur avendo vinto le elezioni, Netanyahu si trova comunque in una posizione instabile in politica internazionale. Per la prima volta, a causa della sua retorica bellicosa e del mancato intervento sulle colonizzazioni religiose selvagge, davanti a uno scenario oramai incendiato, Israele potrebbe essere visto dalla comunità internazionale non più solo come una vittima da difendere ma una minaccia per l’equilibrio e la pace. E il dato di queste ultime elezioni politiche evidenzia che la popolazione israeliana sta cominciando a comprenderlo. Herzog non deve far altro che continuare nella strada intrapresa e convincere il popolo israeliano che il punto d’arrivo della politica di Netanyahu è la rovina dello stato d’Israele.

Ultima modifica il Venerdì, 24 Aprile 2015 22:21
Marco Saccardi

Nato a Bagno a Ripoli (FI) il 13 settembre 1990, sono uno studente laureato alla triennale di Storia Contemporanea presso l’Università di Firenze, adesso laureando alla magistrale di Scienze Storiche. Appassionato di Politica, amante della Storia, sono “fuggito” dal PD dopo anni di militanza e sono alla ricerca di una collocazione politica, nel vuoto della sinistra italiana. Malato di Fiorentina e di calcio, quando gioca la viola non sono reperibile. Inoltre mi ritengo particolarmente nerd, divoratore di libri, film e serie tv.

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