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Il film della settimana nelle sale è il GGG, potete leggere la recensione cliccando qui.
Eccovi in pasto la sorpresa di fine anno. Un ricco speciale sul 2016 cinematografico. Ecco a voi i top e i flop. È stato un anno dove si sono registrati aumenti di reboot, remake, sequel piuttosto inconsistenti. La differenza la fanno sempre i grandi talenti e l'autorialità delle storie. C'è poco da fare, la classe non è acqua. Le classifiche si basano sui film usciti nei cinema italiani nell'anno solare 2016 e tengono conto di vari fattori: qualità, andamento della pellicola, accoglienza di pubblico e critica, gusti personali.
Mitski, la sorpresa dell'anno
Recensione del folgorante Puberty 2, solidissimo pasticche di cantautorato indie
Una delle sorprese più piacevoli del 2016 è il sanguigno e febbrile Puberty 2, piccola grande gemma di cantautorato rock alternativo che impone Mitski Miyawaki come la stella in ascesa di un movimento di musiciste indie, prevalentemente americane, che negli ultimi anni ha partorito lavori di ottima qualità, dal gothic rock ruvido di Chelsea Wolfe, al dream folk vittoriano di Marissa Nadler, passando per l'alt-rock muscoloso di Angel Olsen e la wave artistoide di St. Vincent. Ciò che è stupefacente è che rispetto a questo ampio e variegato ventaglio di artiste, Puberty 2 ha la presunzione di porsi proprio alla convergenza stilistica fra queste varie anime del cantautorato contemporaneo, riuscendo di fatto a intercettare sensibilità e approcci variegati per ricollocarli entro una proposta forse non estremamente originale, ma tremendamente stimolante e solida.
Si può allora parlare di un mash up di influenze e di tendenze che trovano il minimo comun denominatore nell'approccio diretto e sofferto di una Mitski espressionista e irrequieta come non mai che si spoglia di ogni patina di mistero per mettere completamente a nudo le sue angosce e paure e i suoi desideri più reconditi che affondano nella disperata ricerca di una felicità che non si riesce mai ad afferrare. Sebbene si tratti già del quarto lavoro dell'artista nippo-statunitense, la freschezza, l'immediatezza, la spontaneità e la densità musicale presente in questo disco farebbero pensare a un esordio tanto ispirato quanto fulmineo.
Puberty 2 rappresenta una seconda adolescenza almeno in due sensi. Innanzitutto, la musicista problematizza in maniera più matura e profonda le trasformazioni che si accompagnano all'età adulta, mettendo in luce contraddizioni, stati d'animo, contrasti fra sogni e responsabilità, momenti di debolezza e coraggiose decisioni di autonomia. D'altro canto, la maturità non è solo personale ma anche e soprattutto artistica laddove si ha una nuova presa di coscienza che influenza profondamente sia i testi, che si elevano decisamente dalla media di quelli delle cantautrici indie contemporanee, sia anche la musica stessa che raggiunge livelli di consapevolezza e rifinitura eccellenti.
Che questo lavoro rappresenti un cambio di ritmo notevole nella produzione artistica della 26enne Mitski è stato messo in luce da più parti e rimarcato dagli elogi della critica specializzata. Così, meritatamente, sembra proprio che la carriera di questa giovane ragazza sia arrivata a un momento di rottura decisivo che dal semi-anonimato dei primi tre lavori, porta dritto al relativo successo che il music business alternativo può offrire a un cantautorato che ha molto più da spartire con i Pixies e Lisa Germano che non con Bob Dylan o Joan Baez.
La propensione di Mitski alla contaminazione emerge lampante fin dai primi ascolti. Il disco si apre con la dichiarazione di intenti di "Happy" che in realtà è un lacerante resoconto di una brutale storia di abbandono, geniale numero di scuola wave e art rock alla St. Vincent, un sofferto mid-tempo dalle splendide linee melodiche intervallate da synth vigorosi e dolenti intermezzi di sax. La tensione nervosa va persino aumentando nella splendida cavalcata adrenalica indie pop di "Dan The Dancer". Gettate la coordinate, non resta che abbandonarsi al resto del disco che si prodiga meravigliosamente tanto nei meandri di un rock raccolto, dimesso e dolente ("Once More to See you": Lisa Germano filtrata attraverso Anna Calvi e Julia Holter), quanto in quelli di un indie rock ruvido e spigoloso (la corrosiva e isterica "My Body is Made of Crushed Little Star", bel numero grunge fra le Hole e Kate Bush e sopratutto "Your Best American Girl" prodigioso momento di sofferta epicità alla Car Seat headrest che è anche un memorabile inno di autoaffermazione).
Passando fra sognanti elegie notturne ("Fireworks", la più vicina all'eleganza folk senza tempo di Marissa Nadler e sopratutto "A Burning Fire", commovente commiato che richiama a gran voce la dolce solennità di Hope Sandoval) e languide giornate spese ad autocompatirsi ("Crack Girl", fra Lana del Rey e i Portishead), si arriva al capolavoro del disco che è l'elegante e straziante ballata "I Bet On Losing Dogs", momento di delicato abbandono e serena rassegnazione che si colloca fra i migliori pezzi del 2016.
Con Puberty 2 Mitski si impone come una delle più rappresentative cantautrici contemporanee. Nella sua ricerca di un equilibrio fra il suo animo folk e la sua vena indie, sta la grandezza di questo disco. Le doti vocali innegabili, i testi irrequieti e la spiccata ricerca melodica fanno il resto, elevando nell'olimpo delle grandi una ragazza di appena ventisei anni che ha ancora margini di miglioramento.
voto: 8,5/10
Il ritorno sperimentale di Bon Iver
recensione del nuovo disco "22, a million" del grande folksinger
Cosa è rimasto del Justin Vernon che registrava in totale solitudine un album già epocale come For Emma, Forever Ago (2007), nella sua baita nelle montagne del Wisconsin? Dal geniale folksinger che si nasconde dietro il moniker Bon Iver e diventato presto oggetto di culto da parte di un vasto pubblico alternativo, non ci possiamo più aspettare le spettrali, intimistiche e scarne ballate folk autunnali degli esordi, né a dirla tutta, la ricerca della dimensione più corale e aperta del convincente Bon Iver, Bon Iver (2011).
Questo perché Vernon si vuole ormai affrancare del tutto dagli stilemi del folk (persino dall'indie-folk) che aveva fin qui esplorato e rivisitato con estrema lucidità. L'esigenza è quella di spingere la sua formula folk straniante e destrutturata alle estreme conseguenze. La rottura del canone implica abbracciare pienamente l'incompiutezza e l'indeterminatezza, come del resto sembra aver fatto anche il suo amico e collega James Blake il cui spettro aleggia fra le note di questo misterioso nuovo lavoro intitolato 22, A Million. Ma non si tratta solo di incorporare nel suo stile le suggestioni che vengono dall'elettronica underground (sopratutto quella britannica: nu soul e dubstep) e dall'r'n'b contemporaneo (Kanye West, Kandrick Lamar). Qua siamo in presenza di un lavoro di amalgamazione che definisce le coordinate di un folk sperimentale senza confini e frutto della torrenziale creatività di Vernon che fonde linguaggi musicali diversi con apparente naturalezza e disarmante semplicità pur - e qua sta la grandezza - rimanendo fedele a se stesso, alla sua musica tormentata e profonda che ricerca una resurrezione esistenziale nelle note senza tempo della sua stessa musica.
I primi ascolti possono risultare alquanto stranianti. Bon Iver si avvale di arrangiamenti elettronici complessi e stratificati, fonde melodia cristallina con cacofonie "glitch" (si ascolti la pietra grezza "715 - CRΣΣKS" e i beat obliqui e disagiati con accompagnamento di sassofono di "10 d E A T h b R E a s T " ), mentre gli effetti e i filtri vocali, a tratti vistosi, infondono un generale senso di inquietudine e di radicale astrattezza. Ma Vernon non si è affatto estraniato dietro una supposta plastificazione musicale, bensì ricostruisce una dimensione intimistica facendo emergere dal profondo la sua anima folk, dando priorità assoluta al coinvolgimento emotivo (l'incanto senza tempo di "29 #Strafford APTS" o del lacerante congedo di "00000 Million").
Il disco, pieno di canzoni tanti preziose quanto impronunciabili, vede l'uso del simbolo del tao, ovvero l'unione di ying e yang: il movimento che unisce gli opposti creando armonia, secondo la filosofia cinese. Ma nel disco il processo di ricerca di un ordine (esistenziale e di senso) sembra in pieno divenire, lontano da qualsiasi soluzione. Siamo un presenza di una opera di musica pienamente postmoderna, liquida e sfuggente ma non di un manifesto del postmodernismo. L'ansia per l'indeterminatezza, i continui riferimenti ai luoghi della prossimità, gli ossessionati e frequenti riferimenti alla simbologia cristiana, il bisogno di redenzione che emerge candido ed esplicito dalle sue liriche, ripropongono quella sofferenza intimistica che tanto aveva toccato il cuore dei tanti ascoltatori che si erano avvinati a Bon Iver con "For Emma". Emotivamente, Vernon è sempre nello stesso posto di dieci anni fa, in quella baita di montagna nel Wisconsin, intento a mettere in musica le sue angosce più profonde e forse quelle di un'intera generazione.
voto: 8/10
Teutoburgo: la tomba del sogno di un Impero romano germanico
Un impero bruno e biondo, questo era il sogno di Ottaviano, dopo aver ricevuto dal Senato romano il titolo di Augusto (“degno di venerazione e di onore”) e successivamente la carica di Princeps (“primo cittadino”) nel 19 a.C. Dopo le guerre e conquiste repubblicane precedenti culminate nella grande conquista della Gallia con Giulio Cesare, si era diffuso nella Repubblica l’idea di un imperium senza fine, uno stato romano civilizzato in continua espansione, quello che Cicerone definiva “l’unico luogo degno al mondo in cui vivere”.
Nella vita si può sbagliare ma bisogna provarci
FLORENCE ***1/2
(Gran Bretagna 2016)
Regia: Stephen FREARS
Cast: Hugh GRANT, Meryl STREEP,
Rebecca FERGUSON, Simon HELBERG
Durata: 1h e 50 minuti
Distribuzione: Lucky Red
Uscita: 22 Dicembre 2016
I film di Spielberg, i bambini e i sogni sono fatti della stessa materia
IL GGG - IL GRANDE GIGANTE GENTILE ***1/2
(USA 2016)
Regia: Steven SPIELBERG
Cast: Mark RYLANCE, Ruby BARNHILL, Rebecca HALL
Durata: 1h e 58 minuti
Produzione: Walt Disney
Distribuzione: Medusa
Uscita: 30 Dicembre 2016
Quando c'è il nome di Steven Spielberg, tutti pretendono sempre tanto. E hanno ragione a farlo, visti i precedenti. Tuttavia quando c'è di mezzo la Walt Disney (ormai proprietaria quasi unica di marchi e saghe cinematografiche) non sempre i grandi registi riescono a fare le ciambelle con il buco. È stato il caso di "War horse" o di "Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo" (a proposito il sesto episodio uscirà nel 2019). Tanto per fare degli esempi.
Dopo Tim Burton con il riuscito remake de "La fabbrica di cioccolato", anche Steven Spielberg si è fatto sedurre dallo scrittore Roald Dahl. La cosa era quasi inevitabile, viste le tematiche che da sempre affascinano il regista. Così ha ripreso in mano la macchina da presa e si è "abbassato" a dimensioni di bambino. A livello tecnico ha riunito la vecchia squadra: alla fotografia il fido Janusz Kaminski, alle musiche il solito John Williams, al montaggio Michael Kahn, alla stesura dello script c'è, per l'ultima volta, l'autrice di "E.T. l'extraterrestre", Melissa Mathison (morta di tumore il 4 novembre 2015 all'età di 65 anni). Una sceneggiatura un po' zuccherosa e un po' appesantita da eccessi di dialoghi che rendono il film non sempre fluido. Il resto, a livello produttivo, lo ha fatto la Disney.
Questo poteva rappresentare un grande problema per la riuscita del film. In troppe pellicole si nota che le parti in computer grafica sono affidate a studi esterni, spesso per pigrizia o per tempi produttivi ristretti. Questa "diversità" si nota perchè stona con la visione del regista. Inoltre i mostri, le scene di distruzione sono tutte uguali. Ricordatevi una regola: quando gli studios annunciano prima la data d'uscita al pubblico, spesso hanno bisogno di incassare, più che di fare buoni film. Ciò influisce anche sulla qualità dell'opera prodotta. Fortunatamente questo non avviene qui perché Spielberg ha da sempre grande rispetto per il pubblico.
Vi spiego il perchè con l'ausilio della storia.
Londra. Sophie (l'esordiente Ruby Barnhill) è una bambina orfana che non dorme mai. Una notte assiste all'incontro con il GGG (Grande Gigante Gentile) che la rapisce e la porta nel Paese dei Giganti. Ben presto Sophie si renderà conto che è un singolare soggetto amichevole ed è pure vegetariano (non vegano, questa è già una novità). Lo scopo del GGG era quello di sottrarre Sophie dai terribili abitanti del Paese dei Giganti che si nutrono solo di esseri umani. Appena porta la piccola nel "suo" mondo, lei capisce che il lavoro di questo gigante buono (l'acchiappa sogni) potrebbe essere utile per tanti bambini. I due uniscono le forze per migliorare la propria situazione, ma dovranno fare i conti con la feroce cattiveria dei Giganti. Sophie allora decide di parlare alla Regina d'Inghilterra (Penelope Wilton) per avvertirla del pericolo e per sbrogliare una volta per tutte la matassa.
"Il GGG" è un film artigianale ad alto budget, ma è anche una riuscita sintesi tra lo Spielberg dei vecchi fasti e quello più recente: da una parte si rivedono luci, atmosfere di "Hook Capitan Uncino", dall'altra le tecniche già utilizzate recentemente nello sperimentale "Le avventure di Tintin". La computer grafica incontra la live action, l'analogico si fonde con il digitale. Al resto ci pensa la perfomance capture. Questa tecnica permette di registrare i movimenti del corpo dell'attore e riprodurli su un computer. Il GGG è reso possibile anche dalla recitazione del bravissimo Mark Rylance (già premio Oscar per "Il Ponte delle spie", sempre di Spielberg) che rappresenta il simbolo di una persona diversa che si oppone alla mentalità imperante della massa più rozza e violenta. Il suo sogno più importante è cercare di cambiare i suoi simili. Per farlo però ha bisogno di Sophie. I bambini ci insegnano che "i sogni non sono oggetti". Vanno liberati e concretizzati.
Come i film di Spielberg che ci dimostrano,ancora una volta, di essere fatti della loro stessa materia.
TOP
- La poetica di Spielberg
- La commistione di tecniche creano un immaginario mai visto mescolando live action, computer grafica, perfomance capture
- L'amalgama di Spielberg con il suo cast tecnico e con l'attore Mark Rylance, già premio Oscar per "Il ponte delle spie"
- Mettere in scena un libro difficile come quello di Dahl non è da tutti
- Spielberg riesce a tenere a bada l'invasiva produzione Disney
FLOP
- La sceneggiatura non sempre è particolarmente fluida e appesantisce con troppi dialoghi alcuni momenti del film
- L'esordiente Ruby Barnhill non crea un feeling con lo spettatore come altri "bambini prodigio" del firmamento spielberghiano
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