come accennavamo, il convegno succitato “Amore, instabilità, violenza. Famiglie ieri ed oggi”. Giani ricorda che il 2 giugno 1946 fu un giorno determinante per le donne, che per la prima volta andarono al voto, esprimendosi a favore della Repubblica o della Monarchia, dopo un ventennio fascista autoritario, dittatoriale. In realtà, però, sottolinea il Presidente, fu un giorno importantissimo anche per gli uomini: infatti prima del ‘46 non esisteva suffragio universale, si votava solo in base al censo e dunque soltanto gli uomini che avevano un certo livello di retribuzione fiscale potevano andare a votare. Quindi nel ’46 fu una vittoria elettorale per tutti, uomini e donne, che per la prima volta, dal ’46 diventano soggetto attivo, sebbene in ritardo rispetto ad altri paesi. In Finlandia ad esempio il suffragio universale fu approvato già nel 1907; in Belgio nel 1919; in Inghilterra nel 1928 e in generale nella maggiorparte dei paesi le donne andarono al voto già negli anni ’20. Più che una ricorrenza da festeggiare, conclude Giani, è un ricordo da rivendicare, e da tenere sempre a mente.
Olga Raffo, dopo i dovuti ringraziamenti, tiene a ricordare quanto ancora oggi siano diffusi i casi di maltrattamenti, abusi, violazioni, aggressioni, femminicidio. Quasi ogni giorno purtroppo assistiamo a episodi di violenza brutale, raccapricciante, aberrante e vigliacca perpetrata nei confronti di donne, e molto spesso capita che questi atti di ignobile e sconcertante crudeltà provengano da persone che fanno parte della cerchia dei legami di queste donne: mariti, fidanzati, figli..parenti in generale. Alla base vi è molto spesso l’idea che la donna sia vista come un oggetto, una proprietà su cui io posso esercitare ogni diritto, un oggetto che possiedo e qualora mi sfuggisse di mano, qualora non fosse più “mio”, allora non deve essere di nessun’altro; allora quell’ “oggetto” deve essere distrutto, eliminato, annientato, cancellato, fin quasi a non lasciare più alcuna traccia della sua esistenza (come nel caso recente della ragazza che è stata carbonizzata dal fidanzato). Certo, ogni caso è diverso e i motivi sono i più svariati, ma quasi sempre alla base di quei gesti così vili, così tremendi, e nella mentalità di coloro che li compiono c’è l’idea che quella donna non è una persona dotata di libero arbitrio, con un corpo e una testa sua, con i suoi desideri e i suoi bisogni, con il suo pensiero e la sua libertà di scelta, con la sua volontà e con la sua autonomia e le sua capacità e possibilità decisionali, bensì appunto qualcosa che gli appartiene, qualcosa che è nelle loro mani, non più persona ma oggetto appunto, legittima, o presunta tale, proprietà. Raffo afferma tenacemente che occorre essere rigorosissimi e duri nella condanna senza se e senza ma di qualsiasi atto lesivo nei confronti di una donna, fisicamente più debole, spesso impotente e disarmata, spesso soggiogata dalla violenza fisica e psicologica dell’aguzzino. Bisogna avere chiaro che non può esserci alcuna possibile giustificazione o legittimazione verso chi usa la propria forza per schiacciare, maltrattare, violare, annientare una donna (e in generale qualsiasi altro essere umano). È mostruoso leggere tra i commenti di giornali o social che certe donne “ se la sono andata a cercare” o hanno avuto atteggiamenti provocanti. Chi prova a giustificare queste violenza con simili sentenze diviene quasi complice del crimine. Bisogna semmai aiutare queste le vittime di violenze, abusi o maltrattatamenti a denunciare, a esprimere la loro condizione e la loro sofferenza, a parlare, per fermare questa crudeltà vile e gratuita nei loro confronti.
Nel 2010, ricorda Raffo, ci fu una potente e importante manifestazione in Messico di un movimento di donne che si ribellavano al femminicidio in Messico (uno dei paesi latinoamericani con il maggior numero di casi di violenza sulle donne tanto che il 40% delle donne ne è vittima o vi è costantemente esposto, negli ultimi nove anni più di 2.300 donne sono state uccise, secondo quanto riporta il National Citizen Femicide Observatory) e ad ogni tentativo di giustificarlo.
La mostra è accompagnata da un audio, curato dall’associazione “Scritture femminili, memorie di donne”, in cui sono state registrate voci che interpretano le deposizioni di donne che hanno subito uno stupro: sono 4 deposizioni, tre che risalgono al ‘700 e una all’’800 (questo fa capire come il fenomeno abbia una lunga storia e che ancora oggi le dure parole che sentiamo risultino ancora molto attuali, come se appartenessero a episodi recenti, anziché a fatti accaduti nel settecento e nell’ottocento). L’audio, molto forte e suggestivo è un monito per capire quanto la denuncia sia fondamentale, anche a costo di dover raccontare particolari particolarmente brutali, anche a costo di rivivere drammaticamente quei momenti atroci, le cui ferite non rimarranno soltanto incise nel corpo violato di quelle donne, ma rimarranno indelebili anche nel loro spirito, nella loro memoria, nella loro vita, segnata irrimediabilmente da una violenza che non si potrà mai più cancellare.
Infine prende la parola Ubaldo Dati, la mente e il braccio (quasi tutte le fotografie portano la sua firma, insieme ad altri membri del circolo l’Altissimo) della mostra, che dopo i doverosi ringraziamenti dichiara che quella per la fotografia è una passione fortissima ma accompagnata anche dalla convinzione che la essa sia uno strumento potentissimo, efficace e di grande impatto comunicativo, soprattutto quando si vanno a raccontare storie così forti e difficili. Le immagini possono avere una potenza maggiore rispetto a mille parole, a mille titoli di giornale, perché arrivano subito, colpiscono senza mediazione, come lance che trafiggono in maniera lancinante. Per questo, prosegue Dati, ci sono solo delle immagini a parlare, nessuna iconografia le accompagna. La voce delle donne ritratte è quella dei loro sguardi, dei loro gesti, della loro luce o del loro buio. La mostra si divide in due capitoli diversi, entrambi molto attuali. Il primo, già accennato, è appunto quello della violenza a danno delle donne, in particolare perpetrata in ambito familiare, domestico. Sono dodici storie in bianco e nero e ogni storia è articolata in tre immagini-momenti diversi: il primo pannello ritrae il volto della donna,che può essere arrabbiata, spaventata, col braccio che va a coprirsi parte del volto, rassegnata, triste, desolata, con la voglia di riscatto etc.; il secondo pannello, centrale, ritrae invece una sorta di album di famiglia, con tanti frammenti di scene di vita quotidiana, felice, serena, ordinaria e idilliaca, o comunque normale, come potrebbe essere il nostro album di famiglia (con i nostri compleanni, le nostre prime candeline, la nostra prima comunione, le vacanze con la famiglia, i sorrisi, le scampagnate, i momenti più importanti, ritratti di noi a diverse età e via dicendo); l’ultimo pannello infine, ritrae il momento in cui la donna subisce la violenza ed è movimentato, dunque fluido, mosso, proprio per rendere in maniera efficace l’azione, il movimento, l’affanno, l’agitazione, la tensione, la concitazione e la confusione di quei momenti, e forse anche la paura e i battiti del cuore che vanno a mille. L’intento di queste foto è che esse possano diventare davvero uno strumento di coscienza, uno strumento per le coscienze, non solo per gli uomini, ma anche per le stesse donne, per stimolare la loro possibilità e il loro dovere di agire e reagire, di parlare e comunicare il disagio per poter così prevenire le conseguenze. Vorrebbero ciò essere un piccolo contributo di sensibilizzazione e presa di coscienza, per non restare inerti e passivi, indifferenti e complici di fronte a queste violenze intollerabili.
La seconda parte della mostra – o il secondo capitolo – riguarda invece un altro elemento importante, anch’esso al centro del nostro dibattito quotidiano: la famiglia. La famiglia che si vorrebbe (almeno in certi ambienti o da parte di un certo tipo di pensiero) come una struttura granitica, immutabile, un istituto naturale che dovrebbe essere rigidamente composto in un certo modo, è invece una struttura fluida, aperta, allargata, variegata, in costante mutamento. Non esiste “la famiglia naturale” ma esistono tanti tipi diversi di famiglia, tanti modi diversi di considerare ciò che è famiglia, tanti tipi diversi di amore. Ecco che allora vengono ritratte famiglie di genere, composte da due donne con una bambina, o da due ragazzi, famiglie di persone sole con i loro animali, famiglie che hanno adottato al loro interno un’altra famiglia di migranti, famiglie miste, formate da membri di culture, nazionalità, religioni diverse. Insomma, il concetto di famiglia non ha potenzialmente limiti ed è sbagliato provare ad affibbiargliene pretendendo di far valere un solo tipo di famiglia, quella tradizionale (o presunta tale) che erroneamente si ritiene essere la famiglia naturale, quando invece sappiamo che la famiglia è una costruzione sociale e culturale.
Mentre i relatori parlano, sulla parete della sala scorre un video, di altrettanto forte impatto, con le immagini della mostra, curato da Alessandra Cieli e montato grazie al contributo dagli studenti del Liceo Pascoli di Massa.
La mostra è un percorso sconvolgente e coinvolgente. Ci immergiamo nella profondità abissale degli sguardi delle prime donne ritratte, che con i loro occhi enormi e scuri ci confidano il loro dolore muto, la loro ferita inguaribile, il loro terrore o la loro desolante disperazione, senza però alcuna retorica, senza eccesso né forzati estremismi. Ovviamente le donne ritratte sono attrici che non hanno subito davvero quelle violenze (molte di loro fanno parte del circolo fotografico), ma la loro bravura (così come la bravura dei fotografi) è quella di sembrare vere, perché non c’è enfasi, non c’è tentativo di estremizzare, di urlare un dolore che appare invece raccolto, quasi sussurrato sommessamente ma in maniera tremendamente incisiva. Si avverte un certo pudore, come se quei volti non volessero ancora del tutto esprimere la loro sofferenza, proprio come spesso accade nella realtà. Alcune sembrano “dire” soltanto basta. E noi quel pudore, quella sofferenza intima ma non sbandierata, non resa platealmente ed enfaticamente, li avvertiamo nel profondo e quasi ci sembra di starli spiando quei volti, quegli sguardi, come se volessimo catturare un segreto spaventoso che in parte quelle donne pare vogliano tenerlo ancora stretto. Quel dolore lo si intuisce dai loro gesti, dai loro occhi così pungenti che ci guardano fissi, che quasi ci interrogano, quasi ci mettono a disagio, quasi ci fanno diventare colpevoli di quel che hanno subito. Ci inchiodano e ci mettono in discussione. Ma con timido riserbo, con uno sguardo che non accusa ma che con la sua forza e la sua orgogliosa dignità destabilizza, ci fa sentire piccoli, ci fa perdere l’equilibrio e per un attimo scuote la sicurezza e la tranquilla solidità delle nostre esistenze al riparo da disagi così terribili, da traumi così forti. La scena della violenza rimane mossa e quindi possiamo intuire quel che sta succedendo: il fotografo ha saputo creare uno stato di suspance e tensione come se vi stessimo assistendo davvero. Una donna viene trascinata per i capelli, un’altra sale le scale di corsa inseguita dall’ombra di un uomo, un’altra donna fugge da una macchina che la sta rincorrendo..e noi viviamo tutta la paura, l’affanno, il terrore, la palpitazione e l’ansia di quegli istanti, come se anche noi fossimo catapultati dentro quelle immagini. Entriamo dentro la scena e quasi ci sembra di riviverla, anche se i dettagli non sono messi a fuoco, ma forse, proprio per questo, essa ci stravolge e ci sconcerta ancor di più, perché quel che non si vede lo immaginiamo; la fotografia nella sua concitazione vertiginosa ci spinge a guardare anche oltre quel che vi è ritratto e viene da trattenere il respiro, ascoltando i battiti del proprio cuore che corrono all’impazzata, insieme a quelli delle vittime.
Per fortuna il respiro riprende il suo ritmo consueto quando, nella seconda stanza, si viene avvolti dall’abbraccio caldo di persone felici che si amano. Qui non c’è alcuna finzione: si tratta di famiglie reali e nella loro realtà sono del tutto spontanee, genuine, sincere. Ma non si tratta di famiglie patinate stile mulino bianco, non c’è leziosità né forzatura. Sono persone normali riprese nelle loro case. Bellissima una fotografia giocata tutta sul colore rosso: dalle pareti, alle luci, ai capelli di una delle due figlie. Un’altra che colpisce molto ritrae due ragazzi: uno dei due è girato verso l’altro con uno sguardo carico dell’amore più grande, con occhi innamorati e serenamente persi in quelli dell’altro che invece guarda avanti con uno sguardo serafico, beato, incantato, remoto e sognante, quasi magicamente atemporale ed etereo. Uno sguardo rapito dentro lontananze azzurre come lo sfondo della casa, quasi perso in un’atmosfera celestiale, tanto che sopra di loro un fascio di luce pallida, diafana, sembra richiamare davvero quei barlumi di luce divina che indorano quasi tutti i dipinti di Caravaggio (primo tra tutti “La conversione di San Matteo”). In tutte le foto appare infatti evidente l’accurato studio della luminosità e dei colori, per esaltare volti, dettagli, gesti, sfondi. Un’altra foto ritrae due donne sorridenti con un bambino e anche il loro sorriso è sincero, genuino, aperto. Non mancano neanche le famiglie cosiddette tradizionali, ma, almeno una di queste proprio tradizionale non è: nonostante sembri la famiglia più classica, con nonni e figlio e moglie con loro bambine, in realtà il figlio è adottato, e anche la consorte non sembra di nazionalità italiana, dunque, anche in questo caso non c’è un pieno conformismo alla famiglia ritenuta tradizionale per eccellenza. Una mostra fotografica vivamente consigliata, che mentre riempie occhi e cuore spinge a pensare, a riflettere, in un viaggio in cui a parlare sono solo le immagini e che passa dal dolore all’amore, dalla morte alla vita, dalla tragedia alla speranza, dalla disperazione al riscatto; in questo viaggio dentro la bellezza indicibile di volti in cui si scorgono e si indovinano mondi e storie infiniti, a volte teneramente quotidiani e dolci, altre pericolosamente calamitanti, che ci fanno sprofondare nel loro abisso di sofferenza, rabbia, terrore; mondi che spesso non abbiamo il coraggio di guardare perché ci fanno male, ci fanno paura o perché stupidamente non ne accettiamo l’esistenza. E invece queste foto ci dicono di essere guardate e di essere guardate fino in fondo, dentro la luce più chiara e dentro quella più nera.