Cade così definitivamente l'accusa ancora mossa alla cantautrice newyorkese di essere un mero prodotto artefatto delle case discografiche. In realtà, anche le hit di Born to Die ("Videogames", "National Anthem", "Dark Paradise", "Diet Mountain Dew" ecc...) mostravano un'intelligenza melodica sconosciuta all'ambiente mainstream degli ultimi decenni. Quello spiazzante disco del 2012 anzi, sanciva la Lana del Rey come più credibile modello di musicista postmoderna. Più che l'approccio vuoto e stereotipato di Lady Gaga (banalizzazione musicale del post-umano, del cyberpunk, dell'orientamento sessuale, dell'amore), Lana del Rey ha contribuito a sovvertire l'ultimo baluardo elitario del rock, quello della divisione fra musica alternativa e commerciale. E lo ha fatto almeno su due coordinate: quella musicale in senso stretto, creando una formula indie mainstream ambigua, accessibile ma anche stimolante e quella testuale, in cui la narrazione, che procede apparentemente per banali luoghi comuni legati alle relazioni amorose e alla vita quotidiana, nasconde tutta l'angoscia e la perdita di senso del mondo contemporaneo. Niente male per una giovane che nel suo curriculum può vantare in ordine sparso, fra le altre cose, una carriera da top model, una fase di alcolismo preadolescenziale (!), un successo planetario da popstar, diverse operazioni di chirurgia estetica e una laurea in filosofia (metafisica).
Tutti i cliché che emergono dai testi delle hit radiofoniche degli ultimi anni sono ripresi e sottilmente derisi; tutto, nell'amara ironia del metadiscorso, viene relativizzato, e in sostanza, schernito. Sullo sfondo, il crollo dell'american dream, il desiderio di fama e ricchezza che, pur appagato, non genera più felicità ma è solo fonte di nuove inquietudini. Come quelle di Honeymoon in cui non si intravvede alcun orizzonte salvifico. Anzi, in cui non si vede proprio alcun orizzonte, nemmeno nel breve termine: non resta che abbandonarsi a guardare i ragazzi in spiaggia ("Music to Watch Boys to") o vincere la noia drogandosi in riva al mare ("High By the Beach").
La Lana del Rey del successo planetario, delle melodie accattivanti, delle milioni di copie di dischi vendute, si intravede solo molto pallidamente e timidamente nei languidi refrain ipnotici che coronano l'album di una eleganza distaccata eppure sofferta ("High By the Beach", "Religion") il resto è un languida e sonnolenta caduta in atmosfere depresse e noir, in una tormentata crisi esistenziale che sembra produrre solo rassegnazione.
Gioiranno dunque i critici musicali un po' snob nel vedere una peccatrice redenta dal mondo dello show business e definitivamente pronta a intraprendere una carriera artistica e cantautorale propria, eppure questa immersione in stilemi quasi puramente indie rendono la sua proposta musicale meno affascinante e provocatoria: finisce, ahimè, per mancare quell'equilibrio fra espressionismo chanteuse e malizia power pop che ha reso la del Rey così originale. Si potrebbe dire che il suo approccio così cinematico e catatonico (un continuo giocare ad essere tutto e il contrario di tutto, ad apparire come un personaggio lynchiano, una Laura Palmer distante e rarefatta: I know what only the girls know, lies can buy eternity canta su "Music to Watch Guys to") tende ad affievolirsi in favore di atmosfere al limite del narcotico, in cui l'estetizzazione più che dal movimento è garantita da una serie di eleganti, patinate, istantanee noir.
Quelle contenute in Honeymoon, sono tutte vicende biografiche incentrate su un amore in crisi (forse quello col frontman dei Black Keys, Dan Auerbach), sullo sfondo di una società liquida senza punti di riferimento. Resta un sentimento religioso di fondo ("Religion", "God Knows I Tried"), ma anch'esso evanescente ed individualista, mentre l'amore è concepito ora come unica àncora salvifica ora come un passatempo (su "Music to Watch Boys to" si possa nel giro di una strofa da I live to love you boy a it's all a game to me anyway).
Come nel precedente album, la violenza, in quanto prodotto dell'isteria e dell'anomia della vita moderna, è ultra repressa e iper-latente, ma appare, sotto forma di desiderio autodistruttivo o vendicativo un po' ovunque. Stavolta però tutto appare languidamente piatto, accrescendo l'inquietudine di fondo. A dare ulteriore risalto a questa soffocante impressione di turbamento, gli arrangiamenti, curati molto bene, mettono in evidenza tutto il languore disilluso della Del Rey. È qua la principale differenza rispetto a Ultraviolence, dove la produzione più muscolosa, rock e ritmata di Auerbach costruiva architetture più nervose ma meno inquietanti. L'espressionismo decadente della giovane artista, tocca così corde parzialmente nuove: la cover elegante di "Don't Let Me Be Misunderstood" di Nina Simone, la ballata pianistica "Terrence Loves You" che guarda al dream folk di Marissa Nadler, la composizione classicheggiante da operetta con trionfo di archi di "Salvatore" e lo spettro sempre presente di Nancy Sinatra (una "gangsta Nancy Sinatra" come lei stessa si definisce), mostrano il lato più variegato e duttile della Lana del Rey post-pop star.
Honeymoon porta il dream pop postmoderno, plastico e disturbato di Lana del Rey verso territori sempre più languidi e narcotici, mentre i suoi testi apparentemente semplici e innocui, si strutturano di messaggi metatestuali che riescono ancora a risultare sottili e graffianti, impreziositi da atmosfere sfumate e noir. Continua a stupire come la vacuità e l'indeterminatezza che così sottilmente critica come difetti della società contemporanea, vengano restituiti con una sensualità infinita, provocando quel cortocircuito fra realtà e rappresentazione, fra giusto e sbagliato che, ancora, in parte (sugli episodi più riusciti come "Music to Watch Boys to", "High By the Beach", "Religion") riescono a restituire tutta l' affascinante ambiguità della sua musica.
Voto: 7/10