La professoressa si è concentrata sull’amore tra genitori e figli, che, dice, è possibile, anche in un mondo così difficile come quello attuale, in cui i legami rischiano di intiepidirsi sempre di più. Il termine amore, continua la psicologa, apparentemente, sembra avere una connotazione forte, suscita immediatamente un sentimento positivo che pare non aver bisogno di alcuna definizione. Invece questa parola, così usata, così fin troppo gettonata alla volte, o trattata con superficialità, possiede infinite sfumature, molteplici valenze e può assumere miriadi di forme diverse. Può essere platonico o carnale, altruistico o possessivo, può essere delicato o sfociare in forme di gelosia estrema, spesso, purtroppo, molto violenta, può essere univoco o reciproco, passionale o tenero; può ondeggiare tra affetto e rivalità (come tra fratelli o amici anche cari), può creare uno stato di fusione, quasi estasi, può essere “intossicante”, diventare una prigione soffocante e dar vita a relazioni di morbosa e asfissiante dipendenza, può generare insofferenza se non viene ricambiato e infine, quando l’amore finisce, può trasformarsi in forte risentimento. Anche l’amore genitoriale verso figli, e viceversa, è un amore ricco di sfumature e da trattare con estrema delicatezza, cura e attenzione, come si trattasse di un vaso di porcellana che potrebbe rompersi da un momento all’altro, tanto è fragile e vulnerabile, soprattutto da parte dell’adulto, perché il tipo di amore che donerà al figlio, condizionerà la crescita, il percorso formativo e la costruzione della personalità del bambino. Per questo fare il genitore è un compito difficilissimo e molto oneroso, tanto che Montaigne nel suo saggio De l’institution des enfants, arriva a dire che “La maggiore e più grave difficoltà della scienza umana par che s’incontri proprio là dove si tratta della educazione e della istruzione dei fanciulli” e lo è fin dall’inizio. Infatti, continua Ferraris, già i neonati sviluppiamo un attaccamento verso coloro che ci curano, ed è proprio questo primo legame, questo primo dono d’amore a renderli sicuri, forti e fiduciosi nel loro progressivo cammino dentro e incontro al mondo che gli si spalanca davanti. Sentirsi amati, questo per chiunque, ma a maggior ragione fin da quando si è in fasce, produce un’immagine positiva di sé stessi, fornisce sicurezza e senso di stabilità. Anche l’amore senza un oggetto preciso verso cui si direzioni, anche il gesto dell’amare stesso, senza necessariamente esser corrisposto, può suscitare una positiva sensazione di forza e saldezza interiore.
Riprendendo il discorso sui neonati, la professoressa afferma che il primo legame affettivo si sviluppa nei primi tre anni del bambino, cosa, questa, di cui gli psicologi si resero conto soltanto dopo la seconda guerra mondiale, quando, entrando in contatto con moltissimi orfanelli, notarono che pur essendo stati nutriti, vestiti ecc.. risentivano di quella lacuna affettiva provocata dalla mancanza dell’amore genitoriale, o comunque di un legame di attaccamento stabile, che molto spesso, si ripercuoteva nei loro rapporti relazionali o addirittura provocava in loro alcune turbe, proprio perché deficienti di quel senso di sicurezza, punto di riferimento, senso di fortificazione, data da una stabilità affettiva alla base che permette al bambino di osare, di aprirsi fiduciosamente e coraggiosamente al mondo. Questo primo legame originario, che sta alle fondamenta dell’edificio che poi si costruirà l’infante, e che appunto si sviluppa nei suoi primi tre anni, presenta le seguenti caratteristiche: è di lunga durata, forte e significativo; è selettivo (può riversarsi verso determinate e specifiche persone, che sia la mamma, il babbo, un parente, un fratellino..); implica una vicinanza fisica; fornisce benessere e sicurezza; quando si interrompe produce angoscia.
Gli effetti di un buon rapporto affettivo, che sono sì immediati ma anche di lunga durata sono i seguenti: facilita la crescita del bambino (il bimbo si sente sicuro e amato e quindi non cresce impaurito ma si lancia senza eccessivo timore nelle sfide che il mondo esterno o anche interiore gli sottopone); incoraggia lo sviluppo del pensiero logico; gli permette di cogliere rapporti di causa ed effetto; lo incoraggia a fare delle previsioni; promuove aspettative; facilita la sensibilizzazione e la formazione di sane relazioni con gli altri; aiuta a fronteggiare le frustrazioni e lo stress; permette di raggiungere un sano equilibrio tra dipendenza e indipendenza; promuove la formazione della propria identità. Passando poi a quelli che sono i bisogni psicologici dei bambini che il genitore dovrebbe soddisfare, Ferraris ci delinea un ampio e ricco elenco: dare cure fisiche; provare rispetto per la personalità del bambino, che deve essere considerato una persona nella sua interezza; disponibilità di tempo da parte dell’adulto; prestarsi come punti di riferimento; fornire istruzione, cultura, sostegno; consentire al bambino di giocare (oggi, ci sono sempre meno spazi in cui i bimbi possano dar sfogo al gioco, che è anche terapeutico per loro, permette di sfidare il mondo in maniera giocosa, creativa, curiosa e attiva, ma sempre di più gli spazi di gioco vengono meno, se non dentro quattro mura che impediscono al fanciullo di liberare tutta la sua energia cinetica e le sue potenzialità di gioco all’aria aperta, correndo, muovendosi, saltando..); bisogno di protezione che però gradualmente dovrà evolvere nell’autonomia, via via che il bambino cresce (in questo la Montessori è stata maestra fondamentale); bisogno di ascolto e di dialogo. Accanto a questo tipo di amore, che la professoressa riassume sotto il sintagma “amore-tenerezza” – l’essere affettuosi, teneri, pazienti, non partire in quarta appena il bambino fa i capricci, aver la capacità di rilassarsi ecc.. – , è però essenziale che si accompagni un altro tipo di amore, ovvero l’ “amore-fermezza”: sapere essere sì gentili e affettuosi ma allo stesso tempo fermi, coerenti, saper indicare la strada, dare delle linee guida, fornire una scala di valori e soprattutto dare delle regole educative, importantissime per la stessa formazione del bambino che grazie a queste, per quanto sul momento possa detestarle, desteranno in lui un’impressione di sicurezza, lo proteggeranno dal caos e dalla mancanza di punti solidi, di riferimenti e limiti che necessariamente esistono nella nostra società. Ovviamente l’amore fermezza non significa freddezza, indifferenza, disinteresse, durezza, umiliazione o addirittura maltrattamento, ma coerenza e sana e adeguata autorità, se così posso permettermi di chiamarla. Molti genitori però non riescono a trovare un giusto equilibrio tra i due tipi di amore, che dovrebbero andare sempre a braccetto, spesso perché temono la disapprovazione da parte del figlio e finiscono per far sì che i due ruoli si invertano: sono loro a diventare dipendenti dai figli, perché non tollerano le divergenze, rimangono inermi o impotenti di fronte ai conflitti, fanno di tutto per evitarli, rifiutando di assumere quell’atteggiamento fermo e coerente che è necessario per la crescita del bambino, di porre quei limiti e quei confini oltre i quali non si può andare e che vivendo in società, sono inevitabili in qualsiasi fase della vita.
Anna O. Ferraris opera poi un’ulteriore distinzione, quella cioè tra i bisogni e i desideri. I primi (cure, protezione, affetto, istruzione ecc..) sono sempre da soddisfare, mentre i secondi, molto spesso e oggi ancor di più indotti dal mercato, dalla pubblicità bombardante, dagli sponsor, dalla commercializzazione furiosa, dalla mercificazione di qualsiasi cosa, anche dei sentimenti, possono essere rimandati nel tempo o anche non venir soddisfatti. In questo caso però allora, c’è bisogno di un impegno maggiore da parte del genitore per colmare in altro e migliore modo quel senso di delusione, frustrazione, scontento che probabilmente resterà dentro un bambino ancora piuttosto inconsapevole, quando un suo desiderio o un suo capriccio non vengono appagati.
Un'altra difficoltà che può svilupparsi nell’amore genitoriale può innescarsi quando l’amore per i figli diventa fusionale, tanto da non permettere il giusto distacco da parte del genitore che finisce per proiettare sé stesso nel proprio figlio, come se si trattasse di un suo clone, così da cercare in lui la realizzazione di quelli che invece sono le proprie aspirazioni, i propri sogni, i propri desideri e non quelli reali del bambino, spingendo quest’ultimo ad essere il suo proprio alter-ego, la propria copia, o la realizzazione di quello che magari il genitore non è riuscito ad essere. allora il genitore spinge il figlio verso inclinazioni o attività che il più delle volte non sono i veri sogni o i veri desideri del bambino, magari non sono le sue aspettative né le sue qualità. Quante volte assistiamo a genitori che amano un determinato sport e sottopongono il figlio ad allenamenti o diete stakanoviste per farlo diventare campione di quello sport, anche quando non è il bambino a volerlo! Un conto è dare il sostegno adeguato o cercare di indirizzare quelli che vediamo essere determinati “talenti” o abilità, doti naturali o meno, del bambino, fornendogli consigli, suggerimenti, appoggiandolo nelle sue scelte, motivandolo a perfezionare la propria dote o dandogli il giusto incoraggiamento nel seguire quelli che sono le sue reali aspirazioni e i suoi personali desideri, un altro è cercare di realizzare sé stessi nel bambino, modellarlo a nostra immagine e somiglianza, come se fosse lo specchio di ciò che vogliamo noi o di quello che avremmo voluto essere, come se volessimo vedere in lui il riflesso di noi stessi, l’immagine compiuta di ciò che avremmo voluto essere noi senza, a volte, esserci neanche riusciti. Così come è sbagliato costruire, plasmare, forgiare il bambino secondo la rappresentazione ideale, l’idealizzazione artificiosa che il genitore può farsi di lui, così da strappargli il germe da cui poi dovrebbe fiorire la sua vera personalità, così da mutilarne il vero essere, abortirgli i sogni prima che possano nascere o creandogli aspettative e sensi di colpa, perché magari da grande (ma anche da piccolo) potrà non sentirsi adeguato all’immagine che gli ha cucito addosso il genitore, cancellando in anticipo la vera essenza del figlio e inibendone l’autonoma realizzazione una volta diventato adulto.
L’amore, prosegue la prof.ssa Ferraris avviandosi alla conclusione, deve essere gratuito, incondizionato, non deve pretendere di plasmare il figlio né deve essere così possessivo e intossicante da creare una forma quasi morbosa di dipendenza. Lo svincolo, il progressivo e necessario “taglio del cordone ombelicale”, il distacco dal genitore comincia nella fase adolescenziale e il ruolo degli adulti deve esser quello di lasciare che il figlio si metta addosso le sue ali e voli via dal nido, per approdare versi i suoi cieli e raggiungere i suoi orizzonti, per seguire le proprie orme. Come disse il giornalista e scrittore americano William Hodding Carter II “ci sono due lasciti inesauribili che dobbiamo sperare di trasmettere ai nostri figli: le radici e le ali”. Le tracce del genitore, le sue radici infatti restano ed è giusto che rimangano, ma le sue orme devono rimanere dietro a una giusta distanza, come un’impronta importante di cui il ragazzo, e poi l’adulto non si dimentica, ma non devono tracciare il cammino davanti a lui o seguirlo passo dopo passo. Un bravo genitore non è quello che fa di tutto per impedire che il figlio possa inciampare o cadere, ma semmai è quello che gli dà una mano a rialzarsi una volta caduto. Un buon genitore deve lasciar evolvere il figlio nel proprio percorso di crescita, autonomia, emancipazione e realizzazione, senza inculcargli eventuali sensi di colpa per aver “abbandonato” il genitore. Lo spazio di protezione deve restringersi e si deve espandere, dilatare quello dell’indipendenza e dell’autonomia, che non significa abbandonare la propria madre o il proprio padre o sradicare del tutto le proprie radici, ma significa uscire dalla loro ombra e magari anche rischiare di accecarsi d fronte a un sole che ancora non si conosce, ma solo se gli si va incontro, potremmo illuminarci di luce nostra e illuminare, autonomamente il nostro cammino. Il faro dei genitori resta, ma non dobbiamo adagiarci nella sua sola luminescenza, che può risucchiare la nostra. Le barche devono staccarsi dal porto per poter viaggiare nell’immensità del mare. Perciò l’adulto deve saper mantenere la giusta distanza. I genitori, conclude Anna O. Ferraris, “sono l’arco e i figli le frecce”, il loro destino è staccarsi da questo arco e lanciarsi, proprio come frecce, alla misteriosa scoperta del mondo, buttarsi in questa difficile, a volte dolorosa, ma anche meravigliosa e immensa avventura, chiamata vita.