Martedì, 09 Dicembre 2014 00:00

Penne e pellicole: gli animali, la letteratura, il cinema

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Dopo una cena squisita totalmente cruelty free si è svolta la presentazione del libro Penne e pellicole del neurologo Massimo Filippi e del cinemologo (e cinefilo) Emilio Maggio, riguardante il rapporto tra società umana ed animali nella letteratura e nel cinema, organizzata dalla trasmissione radiofonica Restiamo animali (in onda su Controradio Firenze) e dalla Casa del Popolo di Settignano, dove per altro, ha avuto luogo l’evento. Il libro, spiega Massimo Filippi, ha cercato di evitare quell’approccio molto spesso un po’paternalistico che si ha quando si parla di animali adottando piuttosto una prospettiva che invece di parlare degli animali, si rivolgesse proprio a loro, parlasse e dialogasse con loro, o attraverso il loro punto di vista. Gli animali sembrano senza voce non perché non ne abbiano una, ma perché troppe volte abbiamo posto loro domande sbagliate. E questa voce invece emerge in tutta la sua potenza attraverso spezzoni di filmati molto intensi e attraverso frasi tratte da alcuni libri.

Una delle prime immagini che i due relatori ci mostrano rappresenta il campo di concentramento di Birkenau. Si tratta di 4 pezzi di pellicola scattate nel 1944 presso il campo d concentramento di Birkenau, precisamente presso il crematorio numero 5, da alcuni uomini del Sonderkommando (tra cui un certo Alex di cui non si conosce il cognome), ovvero di quelle squadre speciali formate da detenuti che dovevano gestire lo sterminio programmatico di altri detenuti, analizzate dal filosofo e storico dell’arte Geroge Didi-Huberman, nel suo racconto fotografico “immagini malgrado tutto”. Questi “poveri pezzi di pellicola” finirono nelle mani di polacchi clandestini, con cui probabilmente Alex e gli altri avevano contatti, dentro un tubicino vuoti di dentifricio, accompagnate da una lettera:

“Urgente. Inviateci di corsa rullini di pellicola da sei per nove. Noi faremo delle foto. Qui ne alleghiamo alcune: Birkenau, i detenuti spediti alle camere. Inuna si intravedono le fosse all’aperto, ci bruciano i cadaveri, ché il crematorio non gli basta più. Sull’orlo, i corpi morti che fra breve rovesceranno spingendoli dentro. Nell’altra il luogo in mezzo ai boschi dove i detenuti si spogliano nudi, gli dicono, per “prendere una doccia”. Ma di lì a poco se ne vanno in gas. Mandateci di fretta altri rullini. E queste mandatele da Tell – ingranditele, mandatele lontano.

Foto che ritraggono frammenti, “scorze”, di quell’orrore che ha devastato e ferito indelebilmente la nostra storia. Una, come è spiegato nella lettera, ritrae soltanto uno squarcio di bosco di betulle, un’altra donne spogliate che procedono verso la camera a gas. Huberman dice che è sempre possibile feticizzare un’immagine, edulcorarla e queste immagini sì, dicono di più dell’immagine stessa, ma non più ancora, una volta depurate della loro carica di orrore. Da queste riprese infatti, successivamente è stato tolto, sostiene lo storico dell’arte, il contesto di pericolosità, ad esempio è stato sottratto il movimento e il fuori-fuoco dato dalla posizione della macchina che aveva scattato le fotografie: “Si rileva, in particolare, che le immagini della prima sequenza […] vengono regolarmente riquadrate. […] Vi è […] in quest’operazione, la volontà – buona, inconsapevole – di avvicinarsi isolando “quel che c’è da vedere”, purificando la sostanza immaginante [imageante] dal suo peso non documentario. [… ] Sopprimere una “zona d’ombra” […] a vantaggio di un’“informazione” luminosa è […] fare come se Alex avesse potuto tranquillamente scattare le sue foto all’aria aperta. È quasi insultare il pericolo che corse […].”(Images malgré tout, pp. 50-51) Secondo i relatori questo è un po’ quello che accade quando si vuole dare la rappresentazione di un animale: lo si preleva da un contesto di pericolosità, di difficoltà e se ne fornisce un’immagine purificata, edulcorata, mentre bisogna ricostruire uno sguardo differente dell’animalità, uno sguardo che non depuri la crudezza, l’orrore, la realtà in tutta la sua interezza.

Emilio Maggio, ritiene che il dispositivo del cinema possa tirar fuori in modo cosciente la rappresentazione di una data realtà, e il cineanimale è fondamentale quanto a espressione artistica dell’animale. I primi dipinti raffiguranti l’animale risalgono al paleolitico, anzi, l’animale era addirittura l’unico soggetto-oggetto di questi disegni rupestri che ritraevano bisonti, rinoceronti, elefanti, orsi... L’animale dunque come primo soggetto della rappresentazione artistica attraverso cui poi si è emancipato l’essere umano. L’animale nelle rappresentazioni, che si tratti di film, fotografie, dipinti, può funzionare sia come “esperimento/laboratorio” (si pensi alle fotografie di cavalli in corsa di Maybridge, atte a mostrare l’anatomia e la posizione delle gambe di un cavallo in movimento), sia come vera e propria forza motrice che emerge anche in tutta la sua bellezza estetica, tanto da venir idealizzato. Spesso accade infatti, che molti film abbiano sì come protagonisti degli animali, ma il più delle volte questi rimangono idee, o idealizzazioni iperboliche di qualità e virtù umane proiettate su di essi. Basti pensare a Rin Tin Tin (la cui immagine infatti è stata scelta come emblema sulla copertina del libro), che riproduce virtù tratte dal mondo umano, più che appartenenti a lui in quanto animale, a lui come cane, dotato di una personalità e una realtà propria.

Seguono poi spezzoni di vari film. Il primo di questi è “The cave of forgotten dreams”, uno dei docu-film di Werner Herzog. Il film fu girato per la prima volta nelle grotte di Chauvet, in Francia, famose appunto per i loro dipinti preistorici sulle pareti della grotta che risalgono a 30/40 mila anni fa e che sono i primi segni di arte umana. Questi dipinti rupestri rappresentano gli animali che gli homo sapiens incontravano e sono significativi perché, oltre ad essere la prima “mediazione visiva” del mondo dei nostri antenati, o per lo meno di una parte del loro mondo, mostrano la loro volontà di emancipazione dal caos mortale e incombente della natura, che costantemente li esponeva a minacce di pericoli e morte. Ma, forse, cosa ancora più importante nell’ambito del nostro discorso, è che in quei disegni stilizzati di orsi, elefanti, buoi ecc.. non si avverte una cesura tra mondo umano e animalità, tra uomini e animali, proprio perché l’uomo si sentiva ancora un animale e questo di conseguenza era visto con stupore, forse meraviglia, probabilmente con estatico rispetto, ammirazione, e fatto risaltare in tutta la sua potenza.

Un altro spezzone è tratto dall’ “Uscita dalle officine Lumière” dei fratelli Auguste e Louis Lumière, che essendo stato il primo film visto dal pubblico, nel 1895, viene considerato il punto di partenza della storia del cinema, benché alcuni lo ritengano un falso. Si tratta di un breve filmato di immagini che sembrano ripetere la stessa sequenza (ovvero il gruppo di operai, soprattutto donne, vestite in stile belle époque, con larghe gonne e grossi cappelli piumati, che esce dall’officina, situata alla periferia di Lione, probabilmente dopo una giornata di lavoro, ovviamente ignari dell’occhio della cinepresa che li “spiava” filmandoli), mentre invece si prestano a visioni molteplici e diverse. Il proto-film dei fratelli francesi è una vera e propria opera di ricostruzione che fa capire come la macchina cinematografica riesca a “docilizzare” la realtà, si nota come i due fratelli si divertano a giocare con quella che loro chiamavano “invenzione senza futuro”, sbagliandosi della grossa, per fortuna! Questo filmato apparentemente innocente già produce una gerarchizzazione del vivente, perché insieme ai lavoratori, compaiono di tanto in tanto anche alcuni cani, che però sembrano sfuggire a uno sguardo disciplinante, a un regime scopico, vi sfuggono e sembrano divertirsi, subentrano ortogonalmente rispetto all’uscita disciplinata degli operai. La figura del cane richiama alla mente di Filippi un racconto , che narra la storia di un ebreo che riesce a tornare a casa che si lasciava sempre accompagnare dai cani del campo di concentramento, essendo gli unici a riconoscerlo come essere vivente. E quando a un certo punto un nazista alza un bastone, il cane associando quest’oggetto al gioco, gli va incontro “creando un turbine di gioco generalizzato”, tanto che il delatore nazista stesso, contagiato dallo slancio e dall’entusiasmo ludico del cagnolino, abbassa il bastone con cui aveva intenzione di picchiare la bestiola, e si abbandona a questa dimensione dinamica di gioco che l’animale era riuscito a creare.
Un passaggio di “Fisica della malinconia” romanzo di Gosponidov Georgi, parla di un film ripreso in un macello ed esprime proprio una specie di cruda “fisica della malinconia”, dato che il protagonista si immagina che la pellicola, anziché riprendere il macella mento dell’animale, scorra al contrario, e dai pezzi di carne smembrata, maciullata si riformi l’intero corpo del povero animale, così che “i blocchi di carne tagliata si trasformano in mucca (…) le bistecche ridiverrebbero cosce..”

Il successivo spezzone di film è terribile, di una crudeltà infinita: mostra infatta la messa a morte di un’elefantessa. Il titolo del docufilm, di Thomas Alva Edison, è proprio “Electrocuting an elephant” e rappresenta tutta la violenza e l’orrore della morte di un elefante indiano, Topsy, ucciso, dietro consiglio dello stesso Thomas A. Edison (che poi appunto ne filmò l’esecuzione) tramite elettrocuzione nel 1903 nel luna park di Coney Island, in quanto “colpevole” della morte di tre persone, tra cui il suo addestratore. Si avverte un’esasperazione della violenza che secondo Maggio sfocia una dinamica morbosa di mediatizzazione del dolore, nasconde quel voyerismo orrorifico che molto spesso, ancora e soprattutto oggi, invade i nostri media. L’elefante che si era ribellata al dominio dell’uomo, all’addestramento forzato, alla subordinazione coatta, esprime la resistenza indomita di cui può esser capace un animale, che lotta strenuamente fino alla morte, fino alla punizione distruttiva, per difendere la propria essenza di animale libero e indomabile. Ma la sua morte, così dura, così straziante nasconde, anche secondo Filippi, una componente morbosa che diventa una sorta di pornografia animale in cui lo sguardo e la macchina che riprende la bestiola che cade e muore concupisce il corpo dell’altro e lo scandaglia, lo scava fino alle viscere, fin dentro le grinze della pelle, dentro gli occhi che si spengono, fin quasi a voler carpire ogni pezzo di quel corpo, di quella carne. E lo sfruttamento del corpo degli animali lo conosciamo bene: basti pensare a tutte quelle pubblicità che si servono degli animali per vendere prodotti spesso ricavati dalla loro stessa pelle. Vi è cioè uno sfruttamento del corpo dell’animale all’interno di quello stesso sistema di sfruttamento e produzione di merci animali.

Si passa poi a Maybridge e al suo proto cinema, al suo crono film che filma la corsa di un cavallo: il cinema nasce come arte nuova capace di rappresentare il movimento stesso e utilizza la corsa di un animale – in questo caso il cavallo – proprio per dare enfasi e bellezza a quel movimento, così che come dicevamo all’inizio l’animale, diviene sia forza motrice che animale estetico e da questo punto di vista il cavallo, più di altri costituisce il modello per eccellenza (si pensi a uno degli ultimi film di Spielberg, Warhorse o al genere di film western in cui i cavalli occupano un ruolo fondamentale, soprattutto per la bellezza e l’armonia delle loro cavalcate e l’eleganza del loro galoppo, la potenza visiva della loro corsa nelle praterie infinite e della loro criniera che danza nel vento impetuosa).

In uno dei cult movie della storia del cinema, The Misfits ovvero, Gli spostati, film del ’61 di John Huston, con Clark Gable, Montgomery Clift e una bravissima Marilyn Monroe, ambientato nel deserto sconfinato del Nevada, oltre alle interpretazioni magistrali degli attori salta all’occhio anche quell’aspetto selvaggio, selvatico, ribelle dato dai mustang, che sprigionano quella libertà e quell’energia che nessuno, neanche l’uomo che vorrebbe catturarli o ucciderli, può strappare loro. Marilyn in questa sua ultima straordinaria interpretazione, è la figura che stravolge tutti i presupposti e cambia il corso delle cose. Ciò è evidente soprattutto in una scena in cui riesce a far liberare questi bellissimi animali che erano stati catturati dai cosiddetti loosers, quei disperati, quegli spostati del titolo del film, che è una sorta di tragedia greca o di epopea tragica. Anche nella scena sopradetta appare la consueta gerarchia del vivente: Marylin, che, oltre ad essere donna (e quindi già gerarchicamente inferiore all’uomo per l’ideologia patriarcale occidentale) esce pure fuori dagli schemi, è etichettata un po’come una matta, e sotto di lei ci stanno soltanto i cavalli. L’uomo invece, che biblicamente e tradizionalmente è posto al fulcro dell’universo e del creato, occupa la posizione centrale, l’uomo inteso ovviamente come maschio adulto eterosessuale bianco e magari ricco. L’uomo come unità di misura a cui tutto il resto deve rapportarsi e sottomettersi, in primis l’animale. Ma attenzione, non solo l’animale, perché dietro questi parametri tutto può essere trattato come una bestia e venir bollato di inferiorità e quindi privato della sua dignità e dei diritti fondamentali, anche quello della vita. Chiunque si decentri, chiunque si discosti dal modello di questo homo oeconomicus, questo uomo immaginario, prodotto di una vera e propria idealizzazione e ideologizzazione, di una superficiale artificializzazione , frutto di una forzata e innaturale mutilazione (gli vengono sottratti sentimenti, emozioni, spiritualità, sensibilità, fragilità …) viene confinato in quelle periferie dove non valgono più né diritti né rispetto né dignità.

Eccoci poi a una scena del già accennato Warhorse di Steven Spielberg: un cavallo, terrorizzato dall’incombere e dal rumore di un carroarmato durante la prima guerra mondiale, si mette a correre all’impazzata nel buio delle trincee, tra il fumo grigio delle bombe, tra gli schianti assordanti, tra i baleni abbaglianti delle cariche delle mitragliatrici, tra le esplosioni e i fili spinati, fino a che, esausto, si lascia cadere e muore proprio tra le catene spinate di uno di quei fili. Siamo di fronte a un epifenomeno della cineanimalità, a un’umanizzazione totale dell’animale verso cui è impossibile provare empatia, o operare un’immedesimazione, come se riuscisse a trascinare anche noi spettatori in quella corsa potentemente ebbra e folle, ma disperatamente avida di vita e di salvezza, che sboccherà sì nella morte, ma quasi riscattandosi da essa, come a dire che la mia corsa batte la mia morte, la mia voglia forsennata di vivere, la mia urgenza frenetica di correre in faccia e davanti alla morte, alla violenza la ferma, sì, il filo spinato ma non ne distrugge quell’animazione, quella tensione esplosiva e lancinante: quell’ultima cavalcata è ultima solo fisicamente, solo materialmente, il mio animo, il mio animo di cavallo, il mio cuore equino che batte all’impazzata sopravviverà a questo orrore, a questa distruzione, a questo sterminio. Il cavallo, come una saetta infuocata sparata dalla bocca di un cannone, come un proiettile d’acciaio tra i proiettili, come uno scoppio tra gli scoppi, come una bomba tra i bombardamenti, esplode tra le esplosioni con tutta la sua potenza, la sua irruenza, e quella corsa in picchiata, quel galoppare furioso ed estremo verso la morte sconfigge la morte stessa, tanto da far sembrare che il cavallo, sfinito per la corsa, si adagi semplicemente su quel filo come su una culla, e finalmente, trovi pace e si addormenti. Per sempre. Il cavallo si chiama Joe e sembra appunto un supereroe, investito di una carica mitica, che lo rende quasi immortale. Spielberg, dice Maggio, ha cercato probabilmente di umanizzare con un’ideologia obamiana, ovvero una forma di pacifismo universalizzante resa appunto da un animalismo altrettanto universalistico e in cui le guerre, più che essere viste come un fenomeno di conflitto sembrano una lotta tra bene e male in cui è proprio l’animale a porsi nel mezzo, a sublimare questa immemore e atemporale discrasia tra le forze del bene e quelle del male.

Infine, l’ultimo, e forse il più delicato, tenero, commovente filmato è tratto da “Au hasard Balthazar”, film di Robert Bresson del ’66. La scena in questione di questo film che è tutto filtrato attraverso lo sguardo, il punto di vista dell’asino Balthazar, è quella finale, in cui l’asinello muore, in mezzo a qualche cane pastore sporadico e soprattutto a un gregge di pecore che lo circonda come a fargli da morbida bara. Balthazar, dolcissimo, chino al centro di questo gregge bianco, sbatte le lunghe ciglia e pian piano, con estrema delicatezza, estremo candore chiude i suoi grandi occhi umidi, mentre intorno continua lo scampanellio vivace dei campanacci degli ovini, quasi fossero le campane delle chiese che danno l’ultimo, malinconico saluto a colui che è morto. Il momento così struggente, della morte del piccolo protagonista raccontata con pudore e tenerezza mostra la capacità, da parte dell’animale di morire in maniera dignitosa, senza quel delirio di onnipotenza che oggi appartiene un po’all’uomo moderno, che cerca di eludere vecchiaia o malattia in maniera artificiale. Quella scena ci dà un estratto, un quadro non della vita che viviamo, ma della vita per cui viviamo, non quella vita che divide in classi e gerarchie, ma che ingloba, unisce, ospita, proprio come si nota dal dialogo interspecifico tra asinello e pecore. Il film, inoltre, rappresenta anche, proseguono i relatori, il modo in cui le società capitaliste tendano sì a farti il dono della vita, ma per poi alineartela, riprendersela, prima o poi. Nasci ma è come se già tu fossi sotto ricatto, perché la vita che ti do prima o poi me la dovrai rendere, in un modo o nell’altro. Questa pellicola, che segnò uno spartiacque nella storia del cinema, sembra infatti anticipare lo slogan del ’68 che recitava più o meno così: “nasci, lavora, crepa”.

Per concludere, Filippi cita un passo tratto da Axolotl, un racconto breve di Julio Cortàzar, in cui c’è un personaggio affascinato da animali profondamente diversi che gli restituiscono una prospettiva diversa del mondo, tanto da perdersi in essi, da diventare l’animale stesso, come se rinascesse dentro di lui, o come se il proprio corpo umano venisse seppellito in quello dell’animele, come accade al protagonista quando si mette a guardare un azoto, una specie di salamandra:

C’è stato un tempo in cui pensavo molto agli Axotl. Andavo a vederli all'acquario del Jardín des Plantes e rimanevo per ore a fissarli, osservando la loro immobilità, i loro oscuri movimenti. Ora sono un axolotl (…) Non volli consultare opere specialistiche, ma  tornai il giorno seguente al Jardìn des Plantes. Cominciai ad andarci tutte le mattine, a volte mattina e sera. Il custode degli acquari sorrideva perplesso ritirando il biglietto d'ingresso. Mi appoggiavo alla barra di ferro che circonda le vasche e li guardavo. Non c'era nulla di strano in ciò poiché dal primo momento compresi che eravamo vincolati, che qualcosa di infinitamente perduto e distante si ostinava ancora ad unirci. Gli occhi degli axolotl mi parlavano della presenza di una vita differente, di un altro modo di guardare. Premendo la mia faccia contro il vetro (a volte il custode tossiva inquieto) cercavo di vedere meglio i piccoli punti dorati, quell'entrata nel mondo infinitamente lento e remoto delle creature rosate. Era inutile picchiettare col dito il cristallo, nelle loro facce non si avvertiva la minima reazione. Gli occhi d'oro continuavano ad ardere con la loro dolce, terribile luce; continuavano a fissarmi da una profondità insondabile che mi dava le vertigini. Ora so che non ci fu nulla di strano, che il fatto doveva succedere (…)Loro ed io sapevamo. Per questo non ci fu nulla di strano in quel che accadde. La mia faccia era incollata al vetro dell'acquario, i miei occhi cercavano una volta di più di penetrare il mistero di quegli occhi d'oro senza iride né pupilla. Vedevo da molto vicino la faccia di un axolotl immobile contro il vetro. Senza transizione, senza sorpresa, vidi la mia faccia contro il vetro, invece dell'axolotl vidi la mia faccia contro il vetro, la vidi fuori dell'acquario, la vidi dall'altro lato del vetro. Allora la mia faccia si allontanò e capìi. Rendermi conto di ciò fu sulle prime come l'orrore del sepolto vivo che si sveglia al suo destino (..) io ero un axolotl e sapevo ora, istantaneamente, che nessuna comprensione era possibile. Lui era fuori dell'acquario, il suo pensiero era un pensiero fuori dell'acquario. Conoscendolo, essendo lui stesso, io ero un axolotl ed ero nel mio mondo. L'orrore veniva - lo seppi nello stesso istante- dal credermi prigioniero in un corpo di axolotl, trasmigrato in lui con il mio pensare di uomo, sepolto vivo in un axolotl, condannato a muovermi lucidamente tra creature insensibili. Ma questo fini quando una zampa mi sfiorò la faccia, quando muovendomi appena di lato vidi un axolotl vicino a me che mi fissava, e seppi che anche lui sapeva, senza possibilità di comunicare ma tanto chiaramente. O io stavo anche dentro di lui, o tutti noi pensavamo come un uomo, incapaci di una espressione, limitati allo splendore dorato dei nostri occhi che guardavano la faccia dell'uomo incollata all'acquario.

E quello splendore che brilla dentro lo sguardo di un animale, che sia immortalato dall’occhio di una cinepresa o dalle bellissime pagine di un libro, ce lo portiamo dietro alla fine di questo affascinante viaggio attraverso il mondo, o meglio, i mondi dell’animalità, cercando di tenerlo sempre stretto e di conservarlo come un gioiello prezioso.

Ultima modifica il Lunedì, 08 Dicembre 2014 19:14
Chiara Del Corona

Nata a Firenze nel 1988, sono una studentessa iscritta alla magistrale del corso di studi in scienze filosofiche. Mi sono sempre interessata ai temi della politica, ma inizialmente da semplice “spettatrice” (se escludiamo manifestazioni o partecipazioni a social forum), ma da quest’anno ho deciso, entrando a far parte dei GC, di dare un apporto più concreto a idee e battaglie che ritengo urgenti e importanti.

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