Il volume Reddito di Cittadinanza. Emancipazione dal lavoro o lavoro coatto? (Asterios, giugno 2017) di Giuliana Commisso e Giordano Sivini approfondisce il dibattito con rigore scientifico, ponendo il tema all’interno della fase storica e del contesto europeo in cui il reddito di cittadinanza viene utilizzato come strumento della politica sociale ordoliberale.
Già vari paesi stanno utilizzando tali forme di governo della povertà, la Germania e la Gran Bretagna sono gli esempi trattati nel testo e l’intento principale degli autori è rivolto ad evitare in ogni modo l’introduzione anche in Italia di tali forme coercitive. L’analisi svolta dagli autori è alquanto interessante per la capacità di leggere il tempo in cui viviamo, ci ricordano infatti sin dalle prime pagine come il neoliberalismo abbia «introdotto una cesura rispetto al sistema liberal-keynesiano della previdenza, sostituendo il concetto di povertà assoluta a quello di povertà relativa. Non si tratta più di intervenire mediante schemi burocratico-disciplinari sulle cause della povertà attraverso la redistribuzione dei redditi e la produzione di beni collettivi quali la salute e l’istruzione, ma di agire sugli effetti a prescindere dai fattori che l’hanno generata, reintroducendo le categorie di povero e di povertà che le politiche sociali del New Deal avevano cercato di cancellare» (p. 14).
Sin dalle prime pagine si ha quindi la netta sensazione di assistere ad un vero e proprio governo della povertà tramite il lavoro. Il cosiddetto workfare funziona tramite la riclassificazione della categoria dei poveri in occupabili, ma quello che risulta con nettezza è l’indispensabilità di una forma di basic income come necessità impellente alla riproduzione del capitale. Infatti, in questa fase caratterizzata da una produzione basata su sempre meno lavoro vivo, una forma di reddito di base universale incondizionato sosterrebbe i consumi. La critica al filone di pensiero guidato da Toni Negri che ritiene il reddito di cittadinanza una forma di lotta contro il lavoro salariato quale forma generale del dominio del capitale è esplicita. Si pensi solamente che quest’ultimo ritiene “il reddito di cittadinanza decente ed incondizionato”, “un’arma per ricomporre una forza comunista” (sic!) (qui).
La disamina del caso inglese rivela la presenza di un’ampia fetta del mercato del lavoro ridotta al lavoro coatto gratuito, o quasi, pena la perdita del sussidio statale. A questo sarebbe ridotta la flexsicurity decantata dagli europeisti come nuovo modello di welfare. Anche nello Stato capofila dell’Unione, cioè in Germania, le cose non vanno certamente secondo quanto stabilito dai teorici della flexsecurity che disegnavano un idilliaco orizzonte di reddito continuativo tra un cambio di lavoro ed un altro per assecondare la spirale virtuosa del libero mercato del lavoro. Insomma, seppur non si sia ancora giunti ai casi estremi della Gran Bretagna, lo sconquasso del mercato del lavoro e la perdita di dignità dei lavoratori ridotti alle celebri forme di mini-jobs è evidente. La perdita in termini di capitale umano pure.
Quello che i due autori compiono è poi un’attenta disamina dei disegni di legge in materia attualmente presenti in Italia. Il primo, quello del blocco di forze politiche governative, prevede un Reddito di inclusione sociale (Reis) ed è ufficialmente promosso dall’Alleanza contro la povertà che riunisce organizzazioni cattoliche e confederazioni sindacali. Seppur il governo abbia creato un Fondo per il contrasto della povertà con stanziamento di risorse crescenti, è infatti previsto un passaggio da 0,6 miliardi di euro nel 2016 a 1 nel 2017 a 1,1 nel 2018, questo è però il frutto dei tagli in molti altri settori che vanno dalla sanità all’istruzione. Dunque, per aiutare le fasce più povere si contribuisce ad estendere la pauperizzazione, un controsenso. Inoltre, i sussidi mensili di 480 euro alle fasce della popolazione in povertà assoluta verranno stanziati unicamente tramite l’imposizione del lavoro. Una non soluzione ai problemi di disoccupazione tecnologica che la nostra epoca impone di affrontare e il deliberato disinteresse per la povertà relativa.
Viceversa, la proposta di Reddito di Cittadinanza del M5S, appoggiata anche da SEL, si rivolge a contrastare anche la povertà relativa, agendo quindi su una fascia di popolazione molto più estesa con sussidi rivolti a non far scendere al di sotto dei 780 euro mensili (la soglia della povertà relativa) il reddito percepito.
Eppure, la proposta del Reddito di Cittadinanza, pur avendo il merito di sostenere tutte le fasce della popolazione in povertà, senza distinzioni, mantenendole all’interno di condizioni di vita dignitose non sembra convincere gli autori. La ragione è la stessa che li porta a criticare i modelli europei ispirati alla flexsecurity, a cui anche il M5S si ispira, cioè il passaggio per i Centri per l’Impiego che obbligherebbero alla quotidiana ricerca del lavoro e alla riqualificazione pena la perdita del sussidio. In altre parole, anche tramite la proposta del M5S si avrebbe la coazione al lavoro e nessuna emancipazione dal lavoro, questo è il motivo di fondo che porta gli autori al rigetto anche della proposta del Reddito di Cittadinanza che resta tuttavia «un obiettivo valido» anche se «gli strumenti per realizzarlo devono essere cambiati» (p.105).
Certamente nessuno credeva che con l’introduzione del Reddito di Cittadinanza si sarebbe mai giunti all’abolizione del lavoro salariato, come avrebbe voluto il citato André Gorz, quello che però è necessario fronteggiare è l’impoverimento crescente della popolazione, la quale evidentemente non è più in grado di sostenere il ciclo di riproduzione del capitale che si sta avvitando in dinamiche di pauperizzazione che riguardano sempre più estese fasce della popolazione mondiale.
Giuliana Commisso, Giordano Sivini, Reddito di cittadinanza. Emancipazione dal lavoro o lavoro coatto?, Asterios, Trieste, 2017, p. 112, € 13.00.
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