Facciamo però un passo indietro, e cerchiamo di capire di cosa esattamente si parli quando si dice appropriazione culturale. Il concetto, in sintesi, è il seguente: quando una o più persone appartenente a una cultura (di solito una percepita come dominante, e quindi solitamente occidentale e bianca) adottano un elemento di una cultura altra dalla loro dalla quale sono affascinate, come per esempio un costume tradizionale, un tipo di musica, e così via, e lo fanno proprio, sono colpevoli di appropriazione culturale, in quanto si stanno impadronendo di tradizioni che non gli appartengono.
Sarebbe semplice, sulla base di questa definizione, condannare totalmente l'idea che un concetto del genere possa essere applicato nella vita reale. Ed è vero che, specialmente in alcune comunità internet cui l'intera galassia del politicamente corretto sta particolarmente a cuore, l'idea di appropriazione culturale ha generato dei veri mostri: fino al punto in cui qualcuno può sostenere – senza essere ironico – che andare a mangiare al ristorante cinese sia una colpa inaccettabile da parte di un europeo bianco, perché si tratta di appropriazione culturale. Una conclusione ovviamente assurda – se famiglie cinesi aprono ristoranti cinesi in paesi occidentali è chiaramente nella speranza che qualcuno ci vada a mangiare, e boicottarli non servirà certo per costruire un ponte tra diverse culture. Così verrebbe da pensare che la condivisione di elementi culturali di diversa provenienza sia fondamentale, specialmente in campo artistico, per poter pensare a qualsiasi sorta di sviluppo futuro. In un mondo in cui la comunicazione anche su distanze lunghissime è ormai diventata semplice e rapida, sarebbe impensabile sostenere che diverse tradizioni artistiche debbano rimanere localizzate, vincolate alla regione in cui si sono originate. Senza contare che, senza le contaminazioni culturali tra diverse tradizioni, non avremmo alcuni dei prodotti più interessanti della cultura moderna e contemporanea: dalla musica jazz al cubismo, e così via.
Esiste una seconda implicazione dietro l'idea di appropriazione culturale, se possibile più sinistra della prima: l'idea che una tradizione culturale possa appartenere a uno specifico gruppo di persone in base al loro patrimonio genetico. In un periodo in cui discorsi come quello che circonda la travagliata proposta di istituire lo ius soli in Italia sono quanto mai attuali, è forse particolarmente preoccupante che un'idea del genere goda di un certo apprezzamento in ambienti liberali, che dovrebbero essere più aperti alle contaminazioni e al discorso interculturale. Per chi vuole abbracciare la definizione più ortodossa di appropriazione culturale, per poter apprezzare – ad esempio – una forma d'arte tipica dell'Africa equatoriale, bisogna necessariamente essere perlomeno di origini centrafricane. Un'idea che può apparire perlomeno controproducente, se non del tutto aberrante, in un periodo storico in cui più che mai è necessario abbattere le barriere tra diversi gruppi etnici, non costruirne di nuove.
Il concetto di appropriazione culturale, dunque, è completamente da rigettare, visto il rischio ingente di stroncare sul nascere nuove, interessanti contaminazioni, e di creare invece nuovi ghetti culturali? Forse no, o perlomeno non del tutto. Che esista una situazione sbilanciata a favore della tradizione culturale occidentale e bianca, e particolarmente di lingua inglese e di stampo americanizzato, è purtroppo vero; ed esistono casi che fanno pensare che qualche aspetto, se non tutti, del ragionamento che sta dietro l'appropriazione culturale vada forse ripescato.
Prendiamo un esempio. Nel 2006 esce in Francia, e diventa un caso editoriale un po' in tutto il mondo, il romanzo di Muriel Barbery edito in Italia con il titolo L'eleganza del riccio. Il romanzo, indubbiamente ben scritto, si incentra sul rapporto tra una ragazzina dall'intelligenza eccezionale e con tendenze suicide e una portinaia dall'apparenza rozza, ma in realtà assai colta e con una passione per la cultura giapponese. E qui nasce il problema: la lettura del libro mi ha lasciato profondamente irritata proprio per la rappresentazione che offre della cultura giapponese. Una cultura che l'autrice descrive sempre delicata, sempre elegante, sempre sensibile, sempre eterea. Una cultura che, tuttavia, nell'esperienza reale, non lo è affatto: Barbery dimentica, non cita, o sceglie di ignorare, una miriade di altri aspetti della cultura giapponese che stridono con l'immagine che ne vuole dare. Non si trova, nel suo libro, una menzione degli tsukumogami, oggetti di uso comune – dall'ombrello di carta di riso agli zoccoli di legno, fino ai rosari buddisti - che, posseduti da uno spirito, prendono vita e assumono tratti buffoneschi, comportandosi spesso come piccoli trickster; né del resto di nessuno della miriade di yokai, demoni o spiriti che rappresentano uno dei punti centrali del folklore giapponese, spaziando dal grottesco, al terrificante, al comico. Non c'è posto, nella versione del Giappone secondo Barbery, per i tanuki, spiriti ispirati al cane procione dello stesso nome che è un animale locale, e che compaiono in molte stampe tradizionali. Non potrebbe essercene: i tanuki sono infatti celebri per il loro scroto sovradimensionato, che usano per fare qualunque cosa – come paracadute, per esempio, o come rete da pesca – in quello che è un tipo di umorismo decisamente grossolano e terra terra. E sì, per nulla poetico.
Spesso, quando in Occidente ci accostiamo a culture altre dalla nostra, facciamo come Barbery. Invece che indagare quelle culture come sono realmente, in tutte le loro sfaccettature, costruiamo uno stereotipo esteticamente piacevole e malamente semplificato, e lo spacciamo per l'essenza reale di quelle culture che non abbiamo realmente provato a comprendere. Lo commercializziamo, lo definiamo come autentico. Ne facciamo un oggetto di consumo, un ideale poetico, lo andiamo a cercare come turisti. La nostra comprensione di una cultura altra dalla nostra non ne risulta in alcun modo accresciuta, e tramite il diffondersi dello stereotipo, semplificato se non erroneo, potrebbe anzi risultarne danneggiata.
È questa, forse, la vera appropriazione culturale, quella contro la quale dovremmo stare in guardia. Ma non è sollevando muri, e suggerendo che le contaminazioni artistiche provenienti da culture differenti vadano evitate, che è possibile combatterla. Bisogna, invece, abituarsi a conoscere davvero le culture altre dalla nostra, e non la versione diluita e paternalistica che ne circola in Occidente; andare alle loro radici, leggere, documentarsi – farlo oggi è certamente più semplice di quanto fosse cinquant'anni fa. Acquisire contaminazioni che siano autentiche, valorizzare dettagli che rappresentino realmente quelle culture, raccontare le storie come andrebbero raccontate nel loro contesto originale.
Anche i tanuki, in fondo, hanno una loro eleganza. Le loro immagini si trovano sui paraventi decorativi del periodo Edo, esposti nel museo nazionale a Tokyo. Hanno una bellezza che per noi non è ovvia, ma per chi li ha dipinti doveva essere senz'altro evidente. E non guardare le cose che non ci risultano immediatamente ovvie non è un bene per nessuno.