Mercoledì, 08 Novembre 2017 00:00

Distopie, sessismo e un esercizio di comprensione del testo

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Distopie, sessismo e un esercizio di comprensione del testo 

Tra i tanti esercizi che ci toccava fare per i compiti in classe di italiano al liceo ce n'era uno che ricordo con particolare fastidio: l'esercizio di comprensione del testo. Al tempo mi pareva che le domande fossero banali e la forma del compito restrittiva, una costrizione per le reali capacità d'analisi dello studente, che avrebbero dovuto invece essere lasciate libere di spaziare e andare anche in direzioni non convenzionali, invece che guidate forzosamente nella direzione ovvia da domande le cui risposte erano altrettanto ovvie. La comprensione pareva allora una verifica superflua di una capacità che, ero certa, chiunque intorno ai quattordici anni doveva ormai avere ampiamente acquisito. Non c'era bisogno di insegnare nuovamente a studenti perfettamente capaci di farlo da soli come cogliere il significato immediato di un'opera; bisognava invece lasciarli liberi di esplorare autonomamente implicazioni, non detti e sotto testi, anche proponendo idee audaci, anche sbagliando, anche arrampicandosi talvolta sugli specchi.

Sono passati circa dieci anni da quando ero al liceo, ma la mia opinione su questo punto non è affatto cambiata. E tuttavia un evento recente mi ha fatto pensare che forse un discorso sulla comprensione del testo, al suo livello più basilare, dovrebbe essere riaperto. Dovrebbe esserlo non già in risposta alle accuse ormai generalizzate di analfabetismo funzionale che vengono indirizzate a chiunque abbia espresso un'opinione che si voglia contestare, ma perché esiste un problema evidente e diffuso che alla comprensione del testo è strettamente legato, e che rischia di dirottare discussioni importanti e delicate riguardo i contenuti dell'arte. 

Dei problemi correlati all'idea che ci sia bisogno di un'arte etica si è discusso a lungo. Esistono scuole di pensiero, che sembrano aver assunto negli ultimi anni sempre più rilievo in Italia e altrove (anzi, soprattutto negli ambienti di discussione di lingua inglese, americani in primo luogo), che sostengono che l'elemento etico sia imprescindibile quando si tratta di arte, e che un'opera, sia essa un libro, un film, un fumetto, e via dicendo, deve comunque tenere presente una certa bussola morale nella scelta di quel che rappresenta e di come lo rappresenta. Non deve quindi esserci alcun dubbio su chi è il buono e chi è il cattivo, ed elementi controversi e discutibili che possano essere interpretati come razzisti, o sessisti, o omofobi, per esempio, dovrebbero essere se possibile evitati e se no chiaramente stigmatizzati. Questo atteggiamento non è nuovo quando si tratta di arte, specialmente di letteratura; già nel tardo Ottocento era toccato nientemeno che a Oscar Wilde di indicarne i pericoli e le limitazioni, sostenendo che 'non esistono libri morali o libri immorali'. Ciononostante, una recrudescenza di questa scuola di pensiero è evidente. Non passa giorno senza che venga diffusa la notizia che una qualche università americana ha escluso dai suoi programmi un qualche famoso autore ottocentesco considerato 'razzista'. Già anni fa, quando Umberto Eco uscì con il suo Cimitero di Praga, fu sospettato di antisemitismo perché aveva scelto di rappresentare un protagonista ottusamente antisemita, senza che ci si soffermasse a pensare che non necessariamente le opinioni di un autore combaciano con quelle dei suoi personaggi, e che anzi è tipico di alcuni scrittori scegliere di raccontare una storia attraverso lo sguardo di personaggi le cui opinioni non solo non condividono, ma trovano ripugnanti. Una discussione di questo problema è senza dubbio necessaria, per non ricadere in un atteggiamento censorio che è dannoso non solo per la produzione artistica, ma anche per le cause che gli aspiranti censori credono di star difendendo. C'è un episodio recente, tuttavia, che ha dimostrato come il problema non sia limitato a un piano morale – ma si estenda anche, appunto, a una questione di comprensione del testo.

Nel bene e nel male, il recente seguito di Blade Runner, Blade Runner 2049, ha fatto molto parlare di sé. Amato da alcuni e detestato da altri, il film ha certamente dimostrato di avere un certo impatto, con elementi originali (e in parte inattesi) nell'estetica, nella colonna sonora, nel ritmo stesso della narrazione. Lungi dall'essere un'ennesima operazione nostalgia come tante se ne sono viste sugli schermi di questi tempi, il film ha dimostrato di avere un'ambizione notevole in quel che vuole raccontare e nel modo in cui sceglie di raccontarlo. Al di là dei dibattiti sulla qualità del film, nei quali non intendo scendere (per quanto non ho problemi ad ammettere che a me sia molto piaciuto), una critica diffusa è emersa tra tutte le altre. Il film è stato accusato da più parti, e con una certa veemenza, di essere sessista. La critica in questione porta ad esempio vari momenti del film in cui un'oggettificazione dei personaggi femminili è evidente: il trattamento della prostituta, per esempio, o il fatto che il protagonista abbia una fidanzata olografica che in una delle prime scene viene mostrata cambiare rapidamente aspetto da un momento all'altro, si presume in un tentativo di venire meglio incontro ai suoi gusti. In numerose altre sequenze del film l'oggettificazione dei corpi femminili è ugualmente evidente, si potrebbe dire plateale. La cosa non è sfuggita all'occhio di certa critica, e ha dato il via a una serie di commenti molto severi. “È un peccato che siamo in grado di immaginare un futuro con le macchine volanti ma non un futuro senza sessismo,” osservava una commentatrice. Un articolo, pubblicato sulla rivista femminista online The Pool, sosteneva che abbiamo bisogno di “visioni migliori”.

Alcuni dei pezzi in questione non si sono limitati ad accusare di sessismo Blade Runner 2049: hanno esteso l'accusa a un intero genere, quello della fantascienza distopica. Nei futuri desolati proposti da questo genere, le donne sono spesso mostrate come prive di diritti e ridotte a poco più che oggetti. Un altro film chiamato in causa è Mad Max: Fury Road, accusato di presentare donne in abiti discinti trattate da personaggi maschili come di loro proprietà, costrette a vivere una vita finalizzata unicamente alla riproduzione. I titoli coinvolti in questa critica sono numerosi; quasi nessun film di fantascienza distopica uscito in tempi recenti è stato risparmiato.

Che questi film presentino scenari in cui un elemento sessista è evidente è senz'altro vero. Ma gli strumenti per comprendere la ragione per cui questo elemento è presente stanno già nella definizione del genere stesso. La distopia, storicamente, è un pretesto narrativo che viene usato come strumento di critica sociale: presentando scenari futuri disastrosi, in cui la libertà umana è limitata (si veda ad esempio 1984 e Brave New World, capolavori della distopia per eccellenza), o le minoranze sono vessate in maniera estrema, o l'ecosistema terrestre ha subito danni irreparabili, il genere distopico vuole portare l'attenzione del lettore o dello spettatore sul germe di quegli stessi problemi, presente nella società contemporanea. L'estremizzazione serve a rendere più evidente un pericolo che nella società reale può spesso apparire strisciante, e sfuggire a un osservatore poco attento. Così, ad esempio, in Fahrenheit 451 Ray Bradbury criticava il problema della censura attraverso la sua estremizzazione – un futuro all'apparenza assurdo in cui esistesse una forza pubblica dedicata alla distruzione di libri. Questa strategia narrativa è tipica del genere distopico: ne è anzi in un certo senso l'essenza. Una distopia scollegata da una problematica reale non avrebbe senso di esistere. La distopia è quindi in un certo senso la proiezione del peggior futuro possibile, e l'ammonimento di cosa potrebbe accadere se i problemi e le ingiustizie presenti nella società contemporanea venissero portati al loro estremo. 

Sia Blade Runner 2049 che Mad Max: Fury Road, e altri dei titoli sotto accusa, fanno esattamente questo, e in maniera abbastanza evidente. Nel caso di Mad Max, se è vero che ci sono personaggi femminili oggettificati, privati della loro dignità e della loro libertà, è anche vero che l'intera trama è finalizzata alla loro liberazione ed emancipazione, che quegli stessi personaggi scelgono di perseguire di loro spontanea volontà, senza aspettare l'intervento del protagonista maschile, che si ritrova coinvolto nella loro fuga suo malgrado e a cose fatte. A perpetuare lo scenario sessista è qui evidentemente il cattivo: anche senza guardare più di cinque minuti di film, basta vedere la faccia del personaggio di Immortan Joe per sapere da che parte stia. Ugualmente, in Blade Runner 2049 l'oggettificazione è compiuta quasi esclusivamente da personaggi negativi. Se il protagonista ha una fidanzata digitale, è pur vero che questo personaggio è chiaramente costruito per far riflettere su problematiche legate all'idealizzazione dannosa delle donne, specie nei rapporti sentimentali (e c'è una scena verso la fine, quando il protagonista interagisce brevemente con una pubblicità per una di queste fidanzate olografiche, che lo rende estremamente chiaro). In sintesi, le critiche avanzate da questi articoli a film come Mad Max e Blade Runner 2049 finiscono per accusare di sessismo opere il cui intento evidente è di problematicizzare il sessismo. 

Non è un problema di morale, né di censura: è un problema di comprensione del testo. L'intento di queste opere dovrebbe essere evidente non solo a chi abbia un minimo di dimestichezza con i meccanismi della distopia come genere, ma anche a chi sia in grado di interpretare correttamente un sottotesto che, nei due casi appena discussi, è talmente evidente e presentato in maniera talmente lineare da non essere più nemmeno un sottotesto, ma il testo stesso. Il problema non è la critica a opere animate da intenti evidentemente sessisti – soprattutto in certe produzioni americane, nell'ambito, per dire, della commedia o dei film d'azione, opere del genere esistono eccome, e il problema del loro trattamento dei personaggi femminili è reale e va discusso. Ma esporre allo stesso genere di critiche opere che non solo abbracciano quel filone, ma deliberatamente cercano di discuterlo, non è solamente superficiale, è dannoso. 

Bisogna tornare, quindi, al banale esercizio di comprensione del testo: all'identificazione dei livelli di lettura, al riconoscimento del messaggio all'interno di una narrativa, alla caratterizzazione di un personaggio che informa il modo in cui le azioni di quel personaggio vanno lette. Rendere invisibili, completamente, i problemi della nostra società vietandone la rappresentazione in ogni forma e con ogni scopo non servirà per combatterli: al contrario, ne aiuterà la proliferazione, rimuovendoli dal discorso collettivo.

È vero, è un peccato che siamo in grado di immaginare un futuro con le macchine volanti ma non un futuro senza sessismo. È un peccato perché vuol dire che il sessismo è ancora un problema reale, che non è stato risolto. Fino a quando non sarà risolto, bisognerà ancora immaginare quel futuro, e discuterlo, e decostruirlo, perché è questo lo scopo delle distopie, la loro ragione di esistere. Immaginare un futuro perfetto, pulito e disinfettato non è utile per nessuno. Il compito dell'arte è affrontare i lati sporchi, difficili e meschini della nostra società e discuterli in pubblico, non voltarsi dall'altra parte e far finta che non esistano.

Immagine liberamente tratta da nyt.com

Ultima modifica il Lunedì, 13 Novembre 2017 22:43
Chiara Strazzulla

Nata in Sicilia, ha studiato a Roma e Pisa e vive a Cardiff, in Galles, dove lavora a un dottorato in Storia Antica e insegna latino. Autrice di prosa e teatro, è pubblicata in Italia da Einaudi Editore.

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