Il regista, a differenza del fondatore dello Studio Ghibli, pur scegliendo un soggetto fantastico – tratto da un romanzo di Joan G. Robinson – non riesce del tutto a creare quella dimensione surreale e magica a cui ci ha abituato Miyazaki, anche se non ha niente da invidiare a quest’ultimo nella resa poetica e nella delicatezza della storia. Un punto a suo favore, cosa non scontata per Anime, è la particolare attenzione data al lato psicologico e introspettivo dei personaggi.
La protagonista è Anna, dodicenne orfana che vive con la “zia” ed è una ragazzina introversa, solitaria e un po’ ombrosa, non ha amici e soffre di asma; per questo motivo il medico le consiglia di andare a respirare aria fresca in un piccolo paesino di campagna, dove verrà accolta dai suoi unici parenti rimasti in vita. Qui Anna conoscerà la coetanea Marnie, ragazzina misteriosa e con alcuni tratti comuni a lei; la nuova amica vive in una villa al di là del lago, figlia di una famiglia ricca e mondana ma incapace di dedicarle attenzioni che le desidererebbe e lasciandola spesso nelle grinfie della nonna e delle domestiche. Le due bambine stringeranno un rapporto particolare fatto di grande affinità ma che pare sempre sospeso sull’orlo tra il reale e l’onirico, lasciandoci costantemente il dubbio che Marnie sia soltanto una proiezione immaginaria dell’irrequieta Anna. Una storia di amicizia fra bambine incapaci di sentirsi capite all’interno del proprio mondo, le cui emozioni restano solo all’interno della loro anima: Anna si arrovella nel riuscire a vivere una vita “normale” ma preda dei suoi fantasmi si chiude sempre di più in un’ ostinata solitudine, respingendo anche i propri cari; Marnie, che all’opposto amerebbe feste e mondanità, viene totalmente reclusa nella sua stanza o nel posto più spaventoso del piccolo villaggio, un grande silos. Tutto il film si gioca su un incontro fra due anime sole, che grazie ad esso però riusciranno a crescere e cambiare come nella tradizione dei migliori romanzi di formazione, e Anna finalmente riuscirà a fare i conti con il proprio passato e a scoprire e ad accettare la sua vera identità, uscendo dal suo guscio di ovattato silenzio.
Il film riesce a non stancare lo spettatore, poiché, come in una scatola cinese, si aprono continuamente domande la cui risoluzione ne pone delle nuove. Nella prima scena risalta subito agli occhi la particolarità somatica della protagonista, l’azzurro delle sue iridi. Proprio quello che può sembrare un difetto di questo genere di film, la minor presenza dell’atmosfera onirica e magica propria delle fiabe di Miyazaki, si trasforma forse nel suo più grande pregio: il travaglio psicologico e il dolore muto delle protagoniste sono in grado di suscitare maggiormente rispetto ai film del maestro, una forte immedesimazione mentale ed una sentita partecipazione emotiva che accompagna lo spettatore durante tutto lo svolgimento della storia, creando persino una certa tensione nell’attesa di ogni nuovo colpo di scena, fino alla risoluzione chiarificatrice del finale, che dipana ogni ombra e ogni mistero, come in qualsiasi favola che si rispetti.
Voto ***