Altro parametro che ha travolto il mondo del cinema hollywoodiano è quello della questione di genere. La questione della disparità salariale, unita a quella della preponderanza maschile tra gli sceneggiatori e i registi, ha sentito sollevare la voce di attrici come Meryl Streep e Charlize Theron, Keyra Nightley e Geena Davis, con le giovani Emma Watson e Jennifer Lowrence tra le più agguerrite. Le ultime passerelle hanno visto sfilare sotto i riflettori attrici, cantanti e donne dello spettacolo che hanno sfruttato la propria posizione per fare luce sul problema.
In campo femminista ciò ha aperto un (feroce) dibattito a partire dalla domanda se chiedere di vedersi riconosciuti contratti milionari dello stesso livello possa essere considerata una battaglia se non cruciale, almeno utile al movimento femminista del nuovo millennio. La pratica del pink washing è oramai ampiamente diffusa e basta pensare alla scorsa campagna elettorale negli Stati Uniti per avere prova di quanto la tematica di genere possa essere utilizzata per ovviare su altre questioni (“Eh, ma almeno sarebbe stata la prima presidente donna degli Stati Uniti). La portata del tema (e i nomi di coloro che lo hanno sollevato, direbbero le voci maligne) hanno fatto sì che questo nuovo parametro si aggiungesse a quelli di valutazione tradizionali, tanto da vedere nascere il dibattito su quanto e se The beauty and the beast di cui è protagonista Emma Watson sia o film femmnista.
Questa premessa per arrivare a parlare di Wonder Woman, ultimo film tratto dall’allargato universo fumettologico della DC e uscito la scorsa settimana nelle nostre sale cinematografiche. Il film di Patty Jerking (regista di Monster con una lunga collaborazione a serie tv come Grey’s Anatomy e The O.C.) vede protagonista l’eroina (interpretata dalla modella ed ex militare israeliana Gal Godot) che avevamo già incontrato in Batman vs. Superman di Zack Snyder. Il film è stato accolto con larghissimo favore dalla critica, che raramente ha evitato di sottolineare come un film su una supereroina diretto da una regista donna non potesse che essere un inno all’autodeterminazione.
Valutazioni che sembrano plasmate sulla Diana creata circa da un secolo fa da William Moulton Marston (psicologo inventore della macchina della verità, appassionato di bondage e fervente sostenitore dell’autodeterminazione femminile) ma di cui non si ritrova traccia nel film.
Il mondo utopico nel quale viene cresciuta Diana, l’introvabile isola di Themyshira su cui le amazzoni, uniche abitanti, riescono a vivere lontano dalla guerra, plasma una ragazza che, per quanto scalpitante dalla voglia di combattere, è l’emblema dell’ingenuità. Non ha mai visto un uomo, non viene sconvolta dalla rivelazione della sua forza sovrumana (effettivamente non sembra nemmeno accorgersene) e decide di partire con uno sconosciuto per fermare la II Guerra Mondiale, causata dal dio della guerra Ares.
Il film si snoda lungo una trama sconvolgentemente banale, con personaggi caratterizzati in modo quasi dozzinale che non riescono a sollevare dal torpore che assale nella prima metà della pellicola. Sembra quasi che tutto nel film sia stato costruito per permettere a Diana di esaltare, più con la sua presenza fisica e con la sua forza che con la sua personalità. Si tratta infatti, come accennato, di un personaggio ingenuo quasi a livelli irritanti, che non riesce nemmeno a rendere divertente l’impatto Londra di inizio Novecento dopo una vita tra le amazzoni. Le scene pensate per ridicolizzare le divisioni di genere che caratterizzavano l’Occidente di inizio secolo non riescono nell’intento, in quanto risultano essere del tutto decontestualizzate.
La domanda è quindi come sia possibile che un film del genere, all’insegna di una banalità profondamente noiosa (che, badate bene, è ben altra cosa rispetto alla semplicità che caratterizza film dell’universo Marvel come i Guardiani della Galassia) possa essere stato accolto dalla critica con toni tanto solenni. Per quanto mi riguarda, la risposta viene dalla premessa da questo articolo: sembra quasi che la necessità di dare risposta ad un problema effettivo e gravoso come quello della disparità di genere e dell’impossibilità di una completa autodeterminazione femminile abbia portato ad accettare il deludente risultato, come se una regista donna che dirige una supereroina “femminista” che salva il mondo potesse dare un segnale inequivocabile in tal senso.
La cosa però purtroppo non funziona. E non perché chi scrive è del parere che i film in cui si fa a cazzottoni debbano essere solo film di cazzottoni, quanto piuttosto per il fatto che, nel momento in cui si vuole far passare un messaggio è necessario che sia chiaro il contesto in cui ci si muove. In questo caso il contesto è quello di un film d’azione che mira ad essere un colossal in grado di sfidare le ottime ultime uscite (su tutti Logan e I guardiani della Galassia). Il risultato è però una storia sconclusionata, animata da personaggi improbabili e dal un finale tanto melenso e sempliciotto da riuscire a ridicolizzare anche la Seconda Guerra Mondiale che di certo non riesce a dare alcun contributo alla causa di genere.