Il legame che lo unisce alla letteratura è molto semplice e diretto: avendo bisogno di tante storie, si preferiva prenderle dai libri e adattarli al nuovo linguaggio, legato in modo particolare all’immagine e alla visione. Per cui esso nasce come mezzo di intrattenimento, una forma nuova di spettacolo da fiera. Nondimeno, il mezzo è talmente affascinante e ricco di possibilità che non mancherà molto per far in modo che alcuni pionieri decidano di sfruttare il cinema per parlare anche di altro e andare un po’ oltre. In particolare gli anni dal 10 al 20 sono per me molto fecondi, in questo periodo ci sono alcune opere sovietiche di grande impatto visivo e istruttive dal punto di vista politico Questo nuovo cinema di propaganda politica e analisi dei conflitti economici e sociali, mostra a tutti come far film sia anche un discorso di divulgazione del pensiero critico, di analisi della società, di fiera appartenenza a un’idea. Per cui nei film di Boris Barnet o altri grandi autori sovietici è il Popolo ad entrare in scena, a prender drammaticamente la “parola”, prima attraverso le didascalie poi col sonoro a piena voce. Per cui il cinema ha da sempre avuto questa doppia faccia: un grande spettacolo che nasce come prodotto all’interno di una forte industria e come mezzo di propaganda politica, analisi delle contraddizioni, difficoltà, conflitti nella società. Io penso che non sia una divisione vera e propria: leggi del mercato, linguaggio e grammatica cinematografica, possono anche esser le stesse, in alcuni casi; cambia la risposta alla domanda: “Cosa è il cinema?”. Domanda, che più passano gli anni, più mi viene difficile dar una risposta netta e precisa.
Ora: se un certo cinema comincia già, seppur in modo approssimativo e legato a una visione sottoposta al furore, giusto e nobile, dell’ideologia, a metter in scena il popolo, ci dovremmo chiedere: “Cosa contraddistingue una donna del proletariato, rispetto alle romantiche eroine dei romanzi rosa? Cosa un uomo del popolo da un cavaliere senza macchia e paura?” La risposta è semplice: il lavoro. Mentre nel cinema d’intrattenimento popolare esso è solo un elemento in più che arricchisce la personalità del personaggio, nel cinema popolar-politico esso è il personaggio in modo diretto e prepotente. Perché il lavoro, la fatica, l’alienazione in un tempio della produzione, profitto, a discapito della vita che marcisce in quelle mura, unisce gli spettatori dei ceti meno abbienti. Si vedono sullo schermo, comprendono le dinamiche alla base del loro esser sfruttati, cosa che magari non potrebbe accadere se dovessimo inseguirli brandendo una copia de Il Capitale, di Marx. Non è questa la sede per parlare in modo più approfondito della presenza operaia nel mondo della celluloide, cosa che mi riprometto di approfondire meglio in altri articoli. Qui mi preme, e sicuramente questo spunto verrà ampliato e aggiustato col passar del tempo, della sua presenza- quella del lavoratore salariato rinchiuso in una fabbrica- nel cinema italiano. Cioè cosa abbiamo capito del lavoro a cottimo o alla catena montaggio, grazie a quello che abbiamo potuto veder al cinema? Si può descrivere la vita vera di un operaio, al di là di un documentario ma usando proprio il mezzo cinematografico? Per cui anche la finzione scenica?
La risposta è : “Sì”. Il cinema può far e rappresentare tutto. Anche quando è documentario, in realtà segue una sua “finzione” che è l’idea alla base del progetto. Inoltre, pregio di non poco conto, i film formulano interessanti analisi sociali, che spesso sfuggono nell’eterno presente, nel “localismo” del qui e ora di molte sacrosante rivendicazioni. Per questo sfioreremo, lasciando spazio alla vostra curiosità di spettatori indisciplinati, alcuni film e l’impatto che si può ipotizzare sulla società e viceversa.
Certo l’operaio comparve come protagonista assoluto in quel capolavoro che è Ladri di Biciclette. Il paese distrutto e da ricostruire, la solitudine del lavoratore, il lavoro precario nel senso che le fabbriche sono da ricostruire, deve ricominciare tutto. Anni dopo sarebbe scoppiata la più grande e discussa Contestazione contro il potere economico-politico in mano alla Dc e ai capitalisti italiani. Da noi il padrone, spesso è una sorta di padre-padrone: durissimo, arrogante, prepotente, e in taluni casi ruffiano dei suoi sottoposti, che almeno in quel modo non si iscrivono al sindacato. Nondimeno dopo un decennio e passa di sconfitte e immobilismo, cogli anni Sessanta e un certo relativo benessere, anche la classe operaia, ormai urbanizzata e cittadina quasi del tutto, alza la voce e la testa. Trascinata dai giovani studenti, spesso figli ribelli di una borghesia incapace di comprendere i cambiamenti, come accade spesso. Sono gli anni dell’Autunno Caldo. Chi meglio di Leonardo “ Lulù” Massa, potrebbe rappresentarli?
“La Classe Operaia Va In Paradiso” di Elio Petri è un canto funebre grottesco, allucinato, amarissimo del conflitto portato avanti dalla nostra classe operaia. Non per niente scontentò parte della sinistra e dei militanti extraparlamentari, perché descrive in modo preciso e affilato il rapporto uomo- macchina sia all’interno della produzione che il suo prolungarsi nei rapporti al di fuori della fabbrica. Come se il lavoratore salariato appartenesse sempre al suo posto di lavoro, al suo padrone. Il cognome Massa punta a questo: alla spersonalizzazione, alla disumanizzazione del personaggio, sicuramente “umano, troppo umano”, ma vittima dei meccanismi di produzione, ai quali in un primo momento egli sente anche di appartenere, poiché grazie ad essi, per merito del lavoro a cottimo, ha l’illusione di far parte integrante del Miracolo Italiano. In realtà quel miracolo è costruito da uomini come lui, che prenderanno solo delle briciole concesse dal potere capitalista per tener a freno i sottoposti. Sono il frigo, la tv, la macchina. Il cinema coglie a pieno una parte esistente nel esser un lavoratore appartenente alla classe proletaria: il “machismo” stakanovista che porta lo sfruttato a lodare la sua fatica ripagata con poco, rappresentata da poche battute superbe di un indimenticabile Volontà. Mette in scena anche il conflitto eterno e masochista tra forze di sinistra organizzate e “inserite in una precisa realtà” e le divagazioni massimaliste di chi da fuori intellettualizza, crea tesi e teorie su un mondo che pretende di conoscere bene.
Visto in questa ottica, il film è attuale e moderno ancora oggi. Cambia il peso sociale del lavoratore nelle fabbriche, il suo spazio concreto nella prassi politica delle sinistre e dei tanti partiti e gruppi che in un modo e nell’altro si richiamano al comunismo. Cambia anche la figura del lavoratore, oggi non solo un operaio vive quelle esperienze di assoluta alienazione, di perdita della propria identità, ma tutto questo capita anche in alcuni lavori e mansioni prettamente impiegatizie o di rappresentanza, col peso della provvigione e di contratti farlocchi. Petri in un certo senso domina bene il conflitto reale tra l’indimenticabile Ugo Pirro, vicino ai movimenti, e Volontà più ortodosso e legato al Pci. In questo caso il cinema descrive a livelli altissimi e profondi il mondo del lavoro, la figura di un operaio-simbolo, ma mai astratto o idealizzato, e lo scontro autoreferenziale delle sinistre. Visto che siamo tutti cinefili, queste cose vengono spesso recitate nelle riunioni di partito dalle compagnie amatoriali delle minoranze o delle maggioranze. Per cui questa opera ha un forte impatto non solo per la sua visione del lavoro per nulla romantica e mitizzata, non solo per cogliere debolezze e splendori all’interno di una classe in quel tempo vista come rivoluzionaria a prescindere e fautrice di prossime rivolte, cosa vera perché a quei tempi i padroni temevano davvero una rivoluzione . Per quello con l’aiuto dei fascisti si colpì pesantemente il paese attraverso attentati e omicidi in piazza ad opera della sbirraglia. Il cinema-cinema, come diceva Leone, in questo caso diventa racconto immortale e apocalittico della nostra condizione di proletari, ai quali non rimane che impazzire per cercare una via di fuga, fino a quando fuggire diventerà impossibile.
Forse potremmo veder questo meraviglioso film, come opera troppo sofisticata per un pubblico delle classi meno abbienti, e infatti penso che sia opera di discussione per compagni politicizzati, con coscienza di classe. Per questo motivo credo che l’uscita nelle sale di “Romanzo Popolare”, abbia rappresentato un momento di reale narrazione operaia di assoluta veridicità e realismo ficcante. L’operaio interpretato da Tognazzi, Giulio Blasetti, è meno tormentato, teatrale, allucinato e allucinante del Leonardo Massa di Volontà, anche perché qui non si tratta di una riflessione politica- teorica, ma di rappresentare un pezzo di mondo reale. I luoghi dove vivono, la malinconia e l’orgoglio dell’operaio che vede la ciminiera della “sua fabbrica”, il carattere popolare del personaggio principale e di tutti gli altri protagonisti, il perfetto equilibrio tra commedia e dramma, sono i punti di forza di un film imperdibile e che anche oggi riesce a farci riflettere, non tanto su quel periodo, ma sui rapporti di forza che dalla fabbrica, dal posto di lavoro si spostano in casa. Può un operaio comandato e sfruttato sul posto di lavoro, comportarsi come un padrone con la sua donna? Quanto la classe proletaria è in grado di comprendere dei progressi borghesi in campo di vita sentimentale e sessuale? I conflitti sono solo economici e sociali o anche privati e sentimentali? In un certo senso il film è la storia della celebre poesia di Pasolini, tanto amata dai sinistri liberali di ogni età e varia cretineria, sui poveri poliziotti che pur stando dalla parte sbagliata sono figli del proletariato. Monicelli, col preziosissimo aiuto dei suoi sceneggiatori Age e Scarpelli, aiutati per i dialoghi da Beppe Viola ed Enzo Jannacci, mette in mostra il peso della modernizzazione dei costumi, la precarietà sentimentale, la presa di coscienza della donna, nelle vite di uomini semplici, solidi, che però hanno come campo visivo una vita fatta di cose precise e concrete: lavoro, una donna, il sesso, il gruppo, la partita di calcio. Uomini che possono sembrare moderni, perché imparano a memoria le lezioni di quel tempo, ma che nel concreto in famiglia non sono per nulla libertari. Non è una critica feroce, non c’è voglia di smascherare una moda, un’ipocrisia, è pura rappresentazione cinematografica che ci spinge alla compassione per l’essere umano. Anche in questo caso il cinema mostra le contraddizioni all’interno della classe proletaria, tanto che alcuni di loro prenderanno a manganellate possibili fratelli e amici per difendere la proprietà dei capitalisti, lo smarrimento di uomini semplici di fronte al progresso effimero nei rapporti sessuali e sentimentali. In questo caso si usa temi e toni più malinconici, accentuati dalla splendida fotografia di Luigi Kulvier, e dalle musiche bellissime di Jannacci.; rispetto al capolavoro di Petri, ma anche in questa pellicola vi è una coesione tra società e industria dello spettacolo, che tenta di trasportare su schermo la vita dei suoi spettatori. In quel periodo la figura dell’operaio è centrale e viene analizzata con particolare acume. Poi tutto svanisce colla patetica, ridicola, squallida, marcia di quarantamila borghesi piccoli piccoli, e la sconfitta della classe operaia, fuori i cancelli della Fiat, la paghiamo carissima anche ai giorni nostri. Da quella sconfitta epocale, non capita solo da qualche vecchio e ottuso libertario contento che in quel periodo prese piede l’idea cretina della coppia aperta, poi nascono i tantissimi guai della classe lavoratrice. Diciamolo anche ai compagni che capendo poco o male, son convinti che il problema sia l’esercito di riserva dei migranti.
Il cinema cogli anni 80 vuol lasciarsi alle spalle gli anni di rivolta, terrorismo, rivoluzione armata e scontri furiosi. Vige il comico rassicurante, un po’ sbruffone, un po’ reazionario, con qualche esclusione, qualche comico che si dedica a elementi più intimisti. Prima che la figura dell’operaio rientri con forza e onore nel mondo della celluloide passa molto tempo. Fino al 2003, quando esce nelle sale: Il Posto dell’Anima di Riccardo Milani. Opera figlia dei nostri tempi, certo, con un occhio verso le vicissitudini private, le indecisioni e debolezze dei rapporti sentimentali o famigliari, ma che ha il pregio di portare in scena il conflitto che deve affrontare una classe che ha tentato una rivoluzione e ne è uscita con le ossa rotte. Se il buon Giulio sentiva di appartenere alla fabbrica, e si emozionava davanti alla ciminiera che vedeva dal balcone di casa sua, come se fosse parte effettiva della sua esistenza anche privata, qui si cambia registro. La vecchia guardia e quella nuova. Spesso precaria o che coltiva sogni di gloria personale, già meno Massa, ma pur sempre spersonalizzato. Per cui se i personaggi interpretati da Silvio Orlando e Michele Placido, sono in un certo senso parenti di Leonardo Massa e Giulio Basletti, per via della consapevolezza delle lotte, tanto da andar fino in America e ruggire la loro rabbia contro una multinazionale che chiude posti di lavoro sacrificando vite umane, ci sono elementi invece importanti e di adesione alla realtà nelle figure di Mario e in un certo senso Nina. Il primo è un lavoratore moderno, certo per difender il posto non tralascia di far picchetti e occupazioni, ma - tradito dal mito del “ tutto è possibile se ci credi”, cazzata tipicamente yankee trasportata nel mondo del lavoro moderno, dove tutti siamo potenziali imprenditori di noi stessi, basta buttarsi e aver fede nel mercato- non affezionato a un ruolo sociale e politico preciso, mancando di formazione e storia, per cui si butterà in un’avventura solitaria fino a quando la realtà distruggerà i suoi sogni di gloria. Mario è operaio, ma anche fornaio, ma anche cuoco, ma anche uno che ha idee, che non è legato a nessuno luogo e per questo non ha luogo di memoria e di educazione alla lotta. Mario è tutti noi lavoratori che abbiamo debuttato dopo il Pacchetto Tre, abituati e abbandonati alla flessibilità, mentre i capi si tengono stretti il loro posto. Lavoratori senza lavoro, che non sono capiti dai vecchi, in conflitto ridicolo tra loro, smarriti e costretti a reinventarsi. Vecchi per il mercato, dopo i trentenni, giovanissimi per la pensione, che non avranno mai, visto che par bello crepare sui posti di lavoro a 70 anni. Questo senso di estraneità al mondo classico del lavoro e della classe lavoratrice è ancor più marcato in Nina, la quale non ha direttamente un ruolo in quella fabbrica, ma è appunto una lavoratrice precaria, personaggio che vive di amarezze e tentativi di felicità. In questa opera si porta in scena i risultati dei cambiamenti radicali, voluti dai padroni e dalla caduta del comunismo, che viviamo ancora oggi: tra lavori volontaristici da parte degli studenti - “che almeno fai esperienza”- alla bolgia infernale del settore vendita coi suoi rappresentati di ditte elettriche assolutamente farlocchi e così via. Un timidissimo caso, questo, sommerso da tantissime opere che parlano di architetti, avvocati, creativi di ogni risma, ma opera da conservare per la capacità di cogliere i tempi e metterli in scena.
Nel 2006 un collettivo romano, sotto il nome di Amanda Floor, scuote l’aria un po’ paludata del cinema social paternalista con un film a bassissimo budget, girato tra amici, che ostenta indipendenza e marginalità radicale e militante, avvolto in un bianco e nero "claustrofobico” che denuncia il lavoro nei cantieri e tutte le irregolarità, la prepotenza padronale, il ricatto e la sottomissione dei lavoratori per aver un posto di lavoro. Il film si chiama ironicamente : La Rieducazione. Non tanto di Denis il capo cantiere che non paga i salari, uno dei tanti piccoli caporali della produzione e del profitto, uno di quelli che appunto, non paga, o se lo fa è in nero. Lo sfruttamento viene messo in scena in modo efficace, concreto, senza sbavature. Lo schiavismo moderno è quello mostrato in questa pellicola. Qui i lavoratori sono assolutamente abbandonati a sé stessi, al loro mondo di sottoproletari e di stranieri in terra straniera, sono nelle mani del loro capo e a scoprire questa verità e mondo crudele è Marco. Un giovane disoccupato, uno dei tanti laureati che girano a vuoto, perché non trovano il lavoro adatto a premiarli per anni e anni di studio. Lui è quello che subisce una vera rieducazione , una lezione sul mondo. Cacciato di casa dal padre, costretto a un lavoro massacrante. Eppure il finale non ci svela completamente una sua avvenuta consapevolezza. Ormai i tempi di Lulù e Giulio sono finiti per sempre.
Tanto che nel 2009 esce quel piccolo capolavoro di equilibrio tra commedia e descrizione sociale che è “Tutta la vita davanti” del sempre ottimo Paolo Virzì. La classe operaia esce di scena, ma non l’alienazione del lavoro, l’essere un piccolo ingranaggio in un sistema di sfruttamento e di annientamento della vita sociale del lavoratore. L’operatore di call center, tanto odiato perché ci rompe le scatole colle sue chiamate, è in parte la figura di operaio moderno. Visto la vastità di persone coinvolte, lo stipendio, la spersonalizzazione, il tutto in ambienti moderni, dinamici, famigliari, sorridenti e ottimisti. Marta ha la forza del personaggio-simbolo, come Leonardo Massa, il contesto è diverso, ma il conflitto persona/lavoro è ben presente, pur essendo una commedia. Che amaramente ci spiega come la coscienza di classe sia perduta nelle nuove leve di lavoratrici/ lavoratori, esplicita l’ipocrisia assoluta di un mondo del lavoro gioioso e amichevole, anzi tutto quel essere una famiglia e dar del tu al capo, mostra l’assoluto predominio del padronato sulla vita dei sottoposti. Ancora una volta è la commedia, come ai tempi di Romanzo Popolare, che centra in pieno la crisi del lavoro e della classe lavoratrice.
Per ritornare come si deve all’nterno del mondo operaio classico si deve aspettare un piccolo gioiello di storia, impegno, precisione nella descrizione dei personaggi e delle dinamiche di classe, che risponde al nome de : “7 minuti”. Film tratto da un’opera teatrale e trasportato su grande schermo da Michele Placido, si rifà alla lotta vera e vittoriosa di un gruppo di operaie francesi. In questo caso la pellicola è girata in Italia. Una fabbrica storica viene ceduta dai proprietari a una multinazionale francese, che si prende la responsabilità di non licenziare nessuno, ma in cambio chiede una piccola cosa: 7 minuti in meno di pausa. Dei 15 che fanno. Questa proposta viene discussa dal consiglio di fabbrica e mette in scena la divisione che lacera da anni il mondo operaio. Per molte non è affatto un problema: tanto abbiamo il posto! Altre mettono in evidenza che se lasciano passare questa richiesta, sarà sempre più facile farne altre e più sostanziose. Il padrone vuol valutare la loro forza e cosa si può permettere. Il conflitto è teso e per tutto il tempo si parla di lavoro, poche indicazioni sulla vita privata di queste donne, perché vi è un ritorno alle origini: non sono tanto i personaggi, ma la loro attività lavorativa, il ruolo che ricoprono, che parla per e di loro. I soliti liberali lo hanno criticato parlando di cinema ideologico e quindi fuori dai tempi. Sono gente che per fortuna loro non sanno cosa sia il lavoro salariato e di fabbrica. In realtà “7 minuti” è opera preziosissima. Parla di lavoro e, argomento caldo in questi giorni, di quello che una lavoratrice deve subire quando il padrone decide che anche il suo corpo appartiene a lui. Mette in scena lo scontro tra lavoratori italiani che hanno vissuto le grandi lotte e sanno esser disciplinati nella lotta e stranieri che si sentono sotto ricatto, indeboliti e impauriti. Di nuovo il cinema sceglie di narrare l’esistente, la vita fatta di lavoro, scontri e conflitti col capitale e le contraddizioni della classe operaia.
Non è sicuramente la parte principale su cui si basa da sempre l’industria cinematografica, ma seppur debole e malmesso, l’idea di un cinema popolare, politico, di analisi del reale, non è del tutto scomparsa e ancora oggi- rarissime volte- può aiutarci a comprendere la devoluzione del mondo lavorativo. Non è poco.