Mercoledì, 25 Aprile 2018 00:00

L'horror è roba da ragazze

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L’horror è roba da ragazze

“Nessuno dei miei film preferiti è di genere horror, eppure il mio genere preferito da guardare è l’horror”, commenta un lettore sotto un articolo del Guardian sull’ascesa del post-horror. Per chi scrive è lo stesso: che si tratti di scegliere il film per la serata a casa o per l’uscita al cinema con gli amici, il peggior horror sarà sempre preferibile ad una pellicola mediocre o un salto nel vuoto di qualsiasi altro genere. Forse anche perché, pur nella varietà di storie, di stili, di “mostri” umani o meno e di metafore da essi incarnate, gli horror dimostrano generalmente meno pretese dei film loro coevi in altri generi, lasciando apprezzare maggiormente i propri punti di forza.

Oggi sembra imperversare trasversalmente una maniera stilistica per la quale qualunque prodotto deve presentarsi con una certa cura artistica: colori smorzati, fotografia così geometrica da sembrare a tratti scolastica, minimalismo nella caratterizzazione dei personaggi; purtroppo non di rado la qualità della confezione non corrisponde ad una particolare ricchezza di contenuto. Se capita quindi che un film sia ironico, quasi solo tra gli horror troviamo ancora film autoironici – e la differenza è palpabile. Sarà che, anche come spettatrice, sono figlia degli anni ’90, ma ancora oggi solo una certa autoironia mi sembra porre in perfetto equilibrio capacità di raggiungere qualunque pubblico e interesse del messaggio.

Del resto l’horror non è nato, né si propone, come un genere serio o colto, cosa che storicamente gli ha permesso libertà che non trovano paralleli in altri generi. Il pensiero correrà subito alla violenza, sia delle scene che del linguaggio, o alla nudità e alla sessualità che sconfinano nell’exploitation; ma, insieme alla fantascienza (altro genere “basso”), l’horror è da sempre stato terreno di critica sociale e satira politica anche feroce (delle opere di Carpenter al recente Stake Land).

Oltre a questo, l’horror è stato uno dei primi generi ad avere frequentemente protagoniste donne (cosa ancora rara nella generalità del cinema); ed è ad oggi l’unico genere non pensato per un pubblico femminile in cui personaggi donne e uomini hanno spazio equivalente sulla scena e nei dialoghi – contro una media complessiva nelle maggiori produzioni cinematografiche che vede le donne nel 36% delle scene e nel 35% dei dialoghi (valori che si abbassano a 32% e 27% nelle pellicole vincitrici di Oscar, generalmente provenienti da generi “più seri”), mentre secondo un’indagine dello scorso anno le donne hanno ruoli di primo piano solo in circa il 18% delle pellicole.

È nell’ambito dell’horror che si è delineato il tropos della final girl, teorizzato da Carol Clover nel 1992: la ragazza protagonista portatrice di valori positivi, che alla fine è l’unica sopravvissuta e/o sconfigge attivamente il mostro di turno. Che la final girl sia sistematicamente una figura progressiva è stato più volte messo in dubbio, considerato che classicamente incarna valori conservatori e perbenisti, in diretta opposizione ai disvalori incarnati da altri personaggi femminili puntualmente uccisi dai mostri: un esempio lampante è il libertinismo sessuale (mentre la più canonica final girl è vergine), ma frequente è anche il consumo di alcol e droghe.

La storica tendenza a condannare, sulla pellicola, i personaggi dai comportamenti più libertini, esaltando invece protagonisti morigerati, insieme all’usuale rappresentazione di donne poco vestite ed evidentemente sessualizzate (indipendentemente dai comportamenti dei loro personaggi), è stata letta da molti come una sostanziale misoginia del genere. Anche la rappresentazione di persone di colore appare infelice negli horror: il comprimario nero è notoriamente il primo a morire. È fuor di dubbio che a livello referenziale sia così che si presenta un film horror – come è fuor di dubbio che questi messaggi referenziali siano sempre risultati rassicuranti e per la casa produttrice, e per la distribuzione, e per il pubblico.

Tuttavia, foss’anche solo per condannarli, l’horror ha sempre mostrato al grande pubblico libertà sessuale ed altri comportamenti socialmente “sovversivi”, ha parlato di tabù come il sesso senza la santificazione del matrimonio; foss’anche solo per ucciderli entro poche scene, ha portato sullo schermo un numero di personaggi femminili e appartenenti a minoranze impareggiato da altri generi, ed ha cominciato a farlo ben prima che i generi più seri “potessero permetterselo”. È rappresentazione ed è importante; qualcuno potrebbe sospettare che sia fatto apposta. Fondamentale comunque notare come spesso le rappresentazioni “negative” della sessualità negli horror siano metafore più o meno esplicite delle angosce della pubertà, o parodie dei tabù sociali: da Carrie di Brian de Palma a It follows, passando per Ginger Snaps.

La stessa denotazione sessualizzata delle donne, oggettificata secondo canoni a loro tempo definiti da uno sguardo patriarcale, sembra conservare ben poco di quella connotazione sessista, quando di fatto si tratta di donne protagoniste (o antagoniste), sempre più attive e indipendenti ­– da un lato caratterizzazione e agibilità del personaggio, dall’altro l’apparenza con cui è lanciato al grande pubblico: difficile credere che la seconda non impallidisca di fronte alla prima. Bisognerebbe del resto distinguere quando determinati stereotipi siano costitutivi del linguaggio del genere, senza che per questo alla loro denotazione corrispondano connotazioni specifiche – un discorso che varia da pellicola a pellicola oltre che da un sottogenere all’altro – anche perché parte dell’identikit dell’horror come genere “basso”. Un’ironica risemantizzazione degli stereotipi del genere è Quella casa nel bosco, di Drew Goddard e Joss Whedon, che più che un horror è un film sull’horror e, fuor di metafora, sull’industria cinematografica.

Non è tutto horror quel che luccica né luccica tutto quel che è horror; l’horror non è ovviamente esente dal poter e dover migliorare e, se nel tempo è progredito parallelamente agli altri generi, i suoi passi avanti continuano ad essere singolarmente interessanti. Un numero crescente di donne si trova dietro la macchina da presa, oltre che davanti; e la caratterizzazione dei personaggi, a partire dalle protagoniste, non risparmia sull’audacia a disposizione del genere.
Ormai da decenni lo stereotipo della final girl è continuamente sfidato e rivoluzionato: almeno da Sidney Prescott in Scream (o da Buffy Summers, sul piccolo schermo) le final girls godono della propria vita sessuale continuando a sopravvivere e sconfiggere mostri; nel rivisitare il proprio rapporto con la sessualità, l’horror inizia a proporre protagoniste che si salvano e vincono poiché non sono vergini o anche solo perché credono nella propria libertà sessuale. E questo accade non solo nelle pellicole artisticamente più ricercate (dal rilancio nei primi anni 2000, sull’horror si concentrano anche produzioni importanti e anche tra gli horror cominciano ad esserci delle pretese), ma anche in quelle senza particolari ambizioni colte.

Il cinema è sia specchio che ispirazione dei tempi, l’immaginario dei suoi personaggi è in stretta relazione con quello dei suoi spettatori: passando dall’altro lato dello schermo, anche gli stereotipi sul pubblico nelle sale (di cui le donne compongono oltre la metà) aspettano solo di essere abbattuti. Da un recentissimo sondaggio rivolto da Fandango ad oltre 3000 donne tra i 18 e i 54 anni, è emersa una certa dispersione di preferenze cinematografiche, tra le quali il genere preferito si è rivelato l'azione, mentre drammi e commedie romantici – pensati per un pubblico femminile – si classificano ultimi con appena il 9% delle preferenze; la maggioranza delle rispondenti ha espresso preferenze per personaggi femminili dinamici e cast diversificati, al contempo additando la stereotipizzazione dei personaggi femminili nei blockbuster e la sottorappresentazione delle donne nelle parti di rilievo.
I gusti cinematografici delle donne non sembrano avere relazioni particolari con il loro genere. Chi lo avrebbe mai detto.



Immagine ripresa liberamente da bloody-disgusting.com

Ultima modifica il Martedì, 24 Aprile 2018 15:49
Silvia D'Amato Avanzi

Studia scienze naturali all'Università di Pisa, dove ha militato nel sindacato studentesco e nel Partito della Rifondazione Comunista. Oltre che con la politica, sottrae tempo allo studio leggendo, scribacchiando, scarabocchiando, pasticciando, fotografando insetti, mangiando e bevendo.

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