Ambientato in Patagonia, precisamente a Ushuaia, nella Terra del Fuoco, estremo sud argentino. I paesaggi innevati, le immense distese bianche e fredde introducono e presentano fin dalle prime scene il ghiaccio emotivo del protagonista, Edoardo, uomo ruvido, gelido come le terre che lo circondano, che ha creato il deserto dentro e intorno a sé, dopo la morte della moglie, tragico episodio che ha segnato indelebilmente la sua vita, ma che verrà semplicemente accennato – da lui stesso – nel seguito del film. Edoardo è un misantropo, fugge la compagnia, non comunica, lavora come tecnico del petrolio e la sua vita scivola, apatica e anestetizzata, in un silenzio impenetrabile. Come il suo sguardo ormai spento, immobile e torvo, in cui la sola emozione che traspare è una tristezza dura, quasi crudele, acuminata come le lande e le vallate innevate in cui sembra smarrirsi. L’esistenza del protagonista, interpretato da un eccezionale Diego Perretti – il quale, curiosità, nella vita vera è uno psichiatra! – si scandisce così con i soliti ritmi, lenti e ripetitivi, tra lavoro di tecnico petrolifero, cellulare che squilla ininterrottamente perché Edoardo lo lascia suonare per un’infinità di volte prima di rispondere, pasti miseri e un’inesorabile solitudine auto inflitta. Per lui, l’enfer sont les autres, come direbbe Sartre, per questo si è votato a un isolamento che parrebbe impossibile scalfire, probabilmente vissuto però anche come una pena da scontare o una colpa da espiare. Finché un giorno, questo silenzio, questa glaciale inaccessibilità vengono rotti dalla telefonata di Mario, vecchio – e unico – amico che ancora non ha smesso di fidare in lui. Poche parole, che a noi spettatori non è dato sapere, ed Edoardo si mette in macchina, lungo le strade sempre più desolate della Terra del Fuoco. Mario vive con la moglie e le due figlie adolescenti, ed è malato. Sarà proprio la morte dell’amico che permetterà la rinascita o la resurrezione di Edoardo e anche quella della famiglia, naturalmente piegata dal dolore.
Non c’è alcun patetismo nel raccontare questa perdita così dolorosa, dolore che non viene mai gridato, mai esasperato, da nessuno dei componenti della famiglia, ma che emerge in maniera ancor più forte in ogni loro reazione, anche quelle più mute, dall’abbandono della moglie, e la sua incapacità ad adeguarsi alle cose più semplici, come prelevare un bancomat o gestire il negozio del marito. Sarà Edoardo, inizialmente, a portarlo avanti – motivo per cui l’amico l’aveva chiamato – così come comincerà, con una fredda naturalezza, a prendersi cura di tutti gli altri, mai con l’altruismo affettuoso o confortevole di belle parole o gesti tenere e dolci, ma col ghiaccio che continua a portarsi dentro,che però pian piano comincia a scaldare più che mille carezze. Infatti Edoardo aiuterà la figlia minore a passare i suoi esami, la maggiore a guidare l’auto e la vedova, che lo aiuta anche ad aprirsi un po’ e a buttare fuori il baratro di dolore e senso di colpa irrisolto – per non esser stato capace di stare totalmente vicino alla moglie durante l’agonia della sua malattia – a darle il coraggio di rimettersi in carreggiata, cominciando dalla gestione del negozio. È attraverso questi contatti umani che l’uomo riuscirà a sua volta a tirare fuori quell’umanità che era annegata in un fondo incolmabile di rabbia impotente e angoscia profonda e inesprimibile, in quell’abisso di indifferenza e insofferenza per la vita e per la condivisione umana. Il tutto sempre narrato con delicatezza estrema, come se si avvertisse il rischio di rompere qualcosa di fragile e leggero.
L’abbraccio finale, che Edoardo si concede di dare alla famiglia che ha saputo, nonostante la sua durezza e la sua glacialità, far risorgere e sorridere, è liberatorio nel momento dell’ultimo saluto, così come lo è l’esplosione della colonna sonora firmata da Murdoch che accompagna il viaggio di ritorno in macchina di Edoardo, e la sua telefonata al figlio Gaston, vero segno di “reconstruccion” di un uomo che sembrava sepolto e che invece ricostruisce dentro di sé quel barlume di fiducia per la vita, che pareva avesse messo a tacere per sempre. Film intenso, profondo, fatto di silenzi più che di parole, di non detti a volte pesanti come macigni, altre volte leggeri e delicati come neve; un film fatto di sguardi, di piccoli gesti muti ma eloquenti, ma anche – e forse ancor di più – di non gesti, quei gesti che a volte pare così difficile compiere, quegli abbracci che sembra così pericoloso dare, o anche ricevere quelle parole che sembra così faticoso pronunciare, quelle lacrime che sembra così spaventoso versare, e che invece, quando vengono fuori, quando le si lascia affiorare alla superficie dalla scorza dura in cui sono soffocati, tutti questi “non gesti” diventano gesti, emozioni forti che producono un senso di liberazione infinito.
“Lavoro sui personaggi e sull’ambientazione” dichiara il regista, salito sul palco per il confronto con il pubblico e continua dicendo che il proprio intento era di isolare il personaggio anche geograficamente, per questo la scelta dello scenario della Patagonia, con la sua neve, il suo vento, le sue piogge. Il regista parla anche della sua ottima esperienza col protagonista – anche co-sceneggiatore – con cui aveva lavorato agli altri suoi film e del quale lo aveva colpito – “oltre al suo pronunciante naso” scherza Taratuto – il suo essere persona prima che attore. Per il regista argentino sono le sensazioni quelle che contano, l’impatto emotivo che personaggi, inquadrature, paesaggi possono regalare a lui e allo spettatore, che da questi si lascia avvolgere, o sconvolgere, o semplicemente vi si immerge, trasportato anche dalla bella colonna sonora di Alexi Murdoch, i cui suoni esplodono soprattutto nell’intensa scena finale.