e agilità grazie alla esile stazza, alle piccole mani e alle dita sottili. Quando però, il giorno in cui è previsto il ritorno di Siddhu, costui non arriva né risponde al cellulare, la famiglia comincia a preoccuparsi, soprattutto dopo aver saputo, telefonicamente, dal proprietario della fabbrica che il bambino era scappato da lì da ben molto più tempo. Ma Siddhu non può essere scappato, perché come il padre, non avrebbe mai abbandonato il proprio lavoro. Continuano le ricerche, le telefonate, sempre più disperate, perché il bambino sembra esser svanito nel nulla, senza lasciare alcuna traccia dietro di sé. Forse il piccolo è stato sequestrato, la poliziotta responsabile rivela a Mahendra che le denuncie di scomparsa di bambini si affastellano sempre più numerose, perché frequentissimi sono i loro rapimenti: vengono presi, spesso mutilati o resi ciechi e mandati per strada a mendicare, e pochi di loro vengono ritrovati, ancor più difficile se, come nel caso del piccolo Siddhu, di lui, la famiglia non ha nemmeno una foto. Inizia perciò il viaggio di Mahendra alla ricerca del figlio, così come inizia anche la sua evoluzione e crescita personale. L’uomo si dirige a Ludhiana, nella fabbrica, dove il coinquilino di stanza di Siddhu gli riferisce che con molta probabilità il bambino è a Dongri, luogo misterioso che nessuno sa dove si trovi ma in cui è risaputo finiscano i bambini rapiti. Mahendra comincia a lavorare alla stazione, credendo di poter avere più informazioni riguardo questo posto, finché scopre che esso si trova a Mumbai. Ottenuti i soldi per andare nella città – iniziando a far lavorare anche la moglie – il padre si dirige anche lì, continuando la sua odissea. L’uomo lo cerca ovunque, chiede a chiunque, cammina ininterrottamente tra la città, tra le persone, con una determinazione che forse mai aveva saputo di avere e senza mai perdere quella fiducia nella vita che gli permette di andare avanti.
Nonostante il tema molto doloroso, il film non ha niente di patetico o di strappalacrime, ma anzi, in tutto questo buio che Mahendra attraversa, sia “geograficamente” – passando tra i luoghi più miseri e degradati, - che psicologicamente, emergono barlumi di luce, di gioia, di solidarietà, che affiorano dai gesti e dalle parole delle persone che via via l’uomo incontra durante la sua ricerca. Emerge la sua forza, la sua capacità di non arrendersi, di non smettere di credere nella speranza di ritrovare il piccolo smarrito, così come emerge forza della moglie, donna che ha sempre appoggiato e sostenuto il marito e gli rimane vicino, prendendo oltretutto iniziative autonome di non indifferente portata. Forse il suo dolore è ancora più grande, è lei che prima di tutto si è presa e si prende cura dei figli, è con la madre che questi, forse, hanno un legame viscerale e insostituibile. Anche in questa figura femminile emerge la voglia di andare avanti, di trovare ancora la capacità di credere nel mondo e nelle persone, nella vita, nei rapporti umani, nonostante il peso e la sofferenza per una perdita così grande. Come si evolve il personaggio del protagonista, anche quello della moglie attraversa un’evoluzione parallela, così che il suo ruolo non appare affatto marginale, il che è importante, soprattutto considerando che la società indiana è patriarcale e il ruolo della donna è piuttosto infimo o insignificante.
Dietro la vicenda personale della famiglia, si staglia lo sfondo della realtà indiana. La sua povertà, la sua crudezza, soprattutto vista attraverso la situazione dei bambini, alla cui maggior parte viene negata un’infanzia, la serenità dell’esser bambini, perché abbandonati o gettati per le strade a lavorare o a mendicare.“Dobbiamo giocare, se non lo facciamo noi bambini chi lo fa?” chiedono (retoricamente) gli amichetti di Siddhu che giocano sempre davanti alla casa di Mahendra, quando questi li caccia via – poi li farà tornare. Quei bambini hanno la possibilità di fare ed essere bambini, di giocare e divertirsi, altri ma molti non hanno questa spensierata possibilità, non hanno quasi più niente di fanciullesco, di ingenuo, sembrano già adulti navigati e straiati dagli strazi di una vita insensibile e disperata, con i volti gli sguardi spenti ma consapevoli dello squallore irrimediabile della propria esistenza, che mostrano i solchi che le storture, le ingiustizie, le sofferenze della propria vita ha segnato. I loro occhi non brillano di futuro, non c’è la trepidazione del domani che spesso luccica negli sguardi pieni di esterrefatta meraviglia dei bambini “normali”. Emblematica è la scena in cui dei ragazzini accasciati alla stazioni, nel momento in cui Maherenda chiede loro informazioni su Dongri, questi gli augurano che Siddhu abbia avuto la fortuna di lasciare questo mondo, mondo che già conoscono troppo bene e in cui non vale la pena crescere.
Un altro aspetto che appare fondamentale è la figura del padre, l’importanze della figura paterna – che traspare particolarmente in una delle scene finali, quando il protagonista telefona al proprio babbo ed è dalle parole di quest’ultimo che l’uomo si sente liberato, assolto, perdonato, è dopo aver parlato con il padre, che Mahendra si lascia finalmente andare a un pianto che sembra più liberatorio piuttosto che di disperazione o di rassegnazione e può tornare a casa, consapevole di aver fatto il possibile. “Sentivo l’urgenza di raccontare la realtà indiana soprattutto attraverso la centralità della figura del padre, che ritorna in tutti i miei film”, ammette il regista, e continua dicendo che è proprio questa figura che può svolgere quel ruolo che spesso è incarnato dalla fede, da Dio o comunque da qualsiasi entità divina in cui si possa credere. È una sorta di Dio profano, che può dare quel conforto, quell’assoluzione, quel perdono, quella forza di andare avanti cui si appiglia solitamente chi ha fede o credenze. E’ colui che ti dice – come dirà in una scena del film il padre del protagonista: “torna a casa, vai, e vacci in pace”, e, al di là che si scelga di seguire o no tale consiglio, l’effetto è quello di una sorta di “benedizione”, di rassicurazione, di senso di sollievo pure. Qualsiasi cosa decidiamo di fare, siamo stati assolti da colui il cui giudizio è forse più necessario di quello di chiunque altro. Mahendra, come qualsiasi persona che possa aver subito anche i lutti peggiori, deve trovare il coraggio e soprattutto il desiderio e la voglia di vivere, di ritrovare il proprio cammino dopo che si è smarrito, dopo che si è perso nei luoghi oscuri del mondo e dell’anima, deve rimettersi sui propri passi, come uomo, come padre e come marito. Deve ritrovare i barlumi di luce che rischiano di esser inghiottiti dal buio. Questa luce però il regista non ha voluto che fosse una sorta di “luce divina”, non ha voluto far entrare la dimensione religiosa nel suo film, tanto che Mahendra non crede. Essa traspare solo un po’attraverso le parole del padre del protagonista – “ hai fatto tutto, ora ci penserà Dio” – e un po’ nella superstizione della moglie, che si rivolge a una specie di veggente per sapere la sorte del figlio. Il personaggio principale invece è totalmente inserito e aggrappato alla concretezza, crede negli uomini, nel lavoro, nella famiglia, nei rapporti umani, nella vita per quello che offre, senza lanciare lo sguardo verso l’alto. “Questa scelta”, spiega Mehta, “è dovuta anche al’intento di permettere a qualunque spettatore, quindi anche a quelli privi di fede, di identificarsi con il protagonista e con il suo stato d’animo”.
L’immedesimazione con la vicenda è resa inoltre possibile dalle riprese, che grazie alle tecnologie più moderne, danno modo di entrare quasi fisicamente nelle scene, quasi da sentire gli odori dell’India, entrare vivamente nell’ universo umano e geografico che circonda il protagonista, toccando quasi con mano i volti e le strade che egli incrocia. Un film toccante, che trae spunto da una vicenda realmente accaduta al regista, il quale racconta di aver incontrato un uomo che cercava il suo figlio scomparso, chiedendo ovunque e a chiunque. Film che fa riflettere su quanto possa essere difficile crescere in certi posti e sulla durezza, sulla crudeltà di situazioni simili, in cui i piccoli sono visti come oggetti, catturati e sbattuti sulle strade a elemosinare. Il film lascia l’impressione che sia l’uomo a compiere quel viaggio “di formazione” che solitamente attraversano gli adolescenti, quella non voluta odissea che però, forse lo rende una persona più consapevole e “adulta”: è sprofondato negli abissi, li ha conosciuti, e quindi ha perso quell’ ingenuità e incoscienza con cui guardava il mondo, ovattato nella sua piccola esistenza, e ignaro di quel che succedeva intorno a lui, in quella parte di India che non riesce ad essere madre dei suoi figli, ma anzi, li spezza. Forse il difetto del film è il non aver calcato troppo la ferocia di certe situazioni e di certi esseri umani, tanto che i personaggi sono quasi tutti positivi, buoni, e persino quelli negativi, come il proprietario della fabbrica, dedito soltanto al profitto e indifferente alle condizioni dei lavoratori – molti dei quali minorenni – non è poi così sgradevole. Anche il protagonista è presentato come un eroe senza macchia, totalmente buono e amato da tutti, visto addirittura come un maestro dai suoi amici, nonostante, non si dimentichi, è stato proprio lui, per bisogno di soldi, a spedire il figlio a lavorare a Ludhiana, malgrado la tenerissima età. Inoltre, all’inizio del film pare un padre piuttosto assente (anche se pure questo aspetto non viene evidenziato molto) che nemmeno si ricorda di preciso l’età del figlio. Probabilmente l’intento del regista era quello di guardare la società attraverso figure per la maggior parte disponibili e gentili, forse proprio per far ribadire quel suo desiderio di mostrare gli sprazzi di luce, anche nel buio apparentemente più completo.