Nata a Firenze nel 1988, sono una studentessa iscritta alla magistrale del corso di studi in scienze filosofiche. Mi sono sempre interessata ai temi della politica, ma inizialmente da semplice “spettatrice” (se escludiamo manifestazioni o partecipazioni a social forum), ma da quest’anno ho deciso, entrando a far parte dei GC, di dare un apporto più concreto a idee e battaglie che ritengo urgenti e importanti.
Un Agamennone spettacolare quello che è stato portato in scena alla Pergola dal 26 al 31 gennaio, per la regia di Luca De Fusco e con le interpretazioni di Elisabetta Pozzi, Mariano Rigillo, Gaia Aprea, Claudio di Palma e Paolo Serra.
L’Agamennone è la prima parte dell’Orestea, la trilogia eschilea composta, oltre che dal suddetto Agamennone, dalle Coefore e le Eumenidi. L’Orestea è per altro l’unica trilogia arrivata a noi per intero e la rappresentazione messa in atto da De Fusco ne ha mantenuto la potenza e l’intensità.
La trama è ben nota. Dopo i 10 anni di guerra tra achei al seguito di Agamennone e troiani che si conclude con la distruzione di Troia (grazie allo stratagemma del cavallo, di cui la sacerdotessa di Apollo Cassandra, figlia di Primo ed Ecuba, aveva previsto il nefasto tranello senza però venir creduta dai suoi concittadini), il re di Micene fa ritorno ad Argo, con Cassandra, caduta nelle sue mani come bottino di guerra, dove ad aspettarlo c’è la feroce moglie Clitennestra. È lei la vera protagonista della tragedia. Un personaggio sicuramente monolitico, spietato, spregiudicato, ma con una forza che poche altre figure femminili avevano ricevuto prima. Una forza e una schiettezza paragonabili a quelle di un uomo, come dicono più volte i cittadini di Argo: “questa donna parla come un uomo”. La regina, che, verso l’inizio della tragedia, nell’apprendere la notizia (tramite un messaggio di fuoco partito dal monte Ida) della presa di Troia e del ritorno del marito, si dice pronta ad accoglierlo con tutti gli onori e ad ammettere la sua completa fedeltà, sarà poi la stessa che verso il finale, non appena compiuta la carneficina, non smentirà del tutto le parole pronunciate all’inizio, ma dirà che quelle parole erano state espresse sul momento aggiungendo: “adesso non ho alcuno scrupolo ad affermare il contrario”. Agamennone dunque torna a casa con la schiava Cassandra di fronte a una moglie imponente che lo incita a camminare su un tessuto di porpora per entrare nel palazzo. Cassandra che rimane fuori, emettendo gemiti da rondine, diviene figura chiave, perché grazie al suo dono profetico concessole dal dio Apollo (lo stesso dio che poi la punirà facendo sì che le sue profezie non vengano più credute da nessuno) riesce a vedere i fatti di sangue che hanno macchiato nel passato la casa degli atridi. Un delitto mostruoso ha inaugurato quella stirpe maledetta: Atreo, padre di Agamennone e Tieste, padre di dieci figli, tra cui Egisto, si contendono il trono di Micene. Atreo la spunta e Tieste viene bandito. Quando Atreo viene a sapere dell’adulterio consumato prima dalla moglie Erope con Tieste di cui la donna era segretamente innamorata, fa richiamare il fratello fingendo una riconciliazione, ma gli preparerà un banchetto maledetto: cucinerà i tre figli che Tieste aveva avuto da una ninfa e costui, ignaro li mangerà boccone dopo boccone. Quando Tieste scoprirà di essersi cibato della carne dei propri figli maledirà tutta la stirpe degli atridi inaugurando una scia di delitti tra consanguinei. Cassandra vede anche un'altra morte colpevole, quella di Ifigenia la giovane figlia di Agamennone, sacrificata sull’altare come un agnello innocente proprio dal padre per ottenere la vittoria in guerra. È questo, in fondo, il fatto di sangue che Clitennestra non può perdonare al marito e che significherà la sua condanna a morte. Cassandra prevede così l’uccisione del re da parte della regina del palazzo; non solo del re: quella che vede durante gli spasmi e le convulsioni provocate dal “dono” profetico sarà anche la sua di morte, accanto a colui che l’ha resa schiava e che l’ha portata nella casa di Clitennestra che non le perdonerà il fatto di esser diventata la sua concubina e amante. Cassandra sa anche però che il sangue versato sul re Agamennone e su lei stessa non sarà lavato. Vendetta chiede vendetta e sarà Oreste, figlio di Agamennone e Clitennestra, a vendicare il padre uccidendo a sua volta la madre.
Clitennestra, con la complicità del suo amante Egisto – desideroso di potersi finalmente vendicare del padre Tieste e punire il figlio di Atreo – uccide a colpi di spada Agamennone e Cassandra e rivendicherà senza rimpianto il suo delitto. In questo emerge l’immensità di questa figura femminile che con un orgoglio quasi arrogante si staglia davanti alle sue vittime sfoderando la spada portatrice di morte, e circondata da una luce fredda e crudele che la esalta in tutta la sua algida imponenza, la sua sconcertante lucida freddezza si arrogherà piena responsabilità del proprio gesto e rimarrà imperturbabile di fronte alle maledizioni degli argivi. Donna anticonformista in qualche modo, spietata, sì, ma in qualche modo non del tutto ingiustificabile se si riflette sulla perdita dolorosa di una figlia innocente inflittale dal marito. E soprattutto non del tutto colpevole perché ancora in Eschilo i personaggi non hanno la psicologia e il carattere più complesso dei futuri personaggi tragici di Sofocle e soprattutto di Euripide. Qui ancora sembrano pedine nelle mani di un disegno divino che li trascende del tutto, sono vittime di un destino contro cui non possono lottare né di cui possono cambiare le regole. “L’artiglio di un demone mi ha toccato il cuore” dice più o meno Clitennestra dopo la strage compiuta. La forza di queste figure però, della sua così come di quella di Cassandra che pur conoscendo ciò che le accadrà va incontro alla propria morte, consapevole che il destino previsto dagli dei non può essere cambiato e che inutile sarebbe fuggire tentando invano di evitarlo, sta proprio nel mantenere, pur in un disegno che sembra prestabilito, una sorta di libero arbitrio che li rende padroni di quel destino cui comunque in ogni caso, non possono sottrarsi. È un disegno sì costruito dagli dei ma sono gli uomini a realizzarlo, loro malgrado, e a rendersi protagonisti di quel che è stato previsto per loro e a rivendicare le proprie azioni. Non risultano così solo mere pedine in mano a qualcosa più grande di loro, ma giocatori di un gioco le cui regole comunque sono state già predisposte e i mortali non possono che seguire, più o meno inconsapevolmente, queste regole, ma sono anche essi stessi a deciderle. È una sorta di libera predeterminazione. La libertà consiste nel scegliere quello che sarà il proprio destino, già comunque stabilito dagli dei. Clitennestra sceglie di uccidere Agamennone, anche se la sua è una scelta voluta dagli dei, ma questo non toglie la responsabilità umana del suo gesto. E in questo caso la colpa della regina è colpa a tutti gli effetti, è aitia e non amartia che letteralmente significa mancare il bersaglio e che è la colpa di chi non ha colpe, la colpa dell’ignoranza, come quella di Edipo che inconsapevolmente ucciderà il proprio padre (perché non sa che si tratta del padre) e si macchierà di incesto, perché non sa che colei con cui dividerà il letto è la propria madre, Giocasta. La colpa di Clitennestra è invece una colpa di cui lei decide di macchiarsi, lei compie consapevolmente il suo gesto di sangue e lo rivendica quasi vantandosene. Lei sceglie il suo destino, Edipo invece vi si imbatte incoscientemente, come un cieco che cammina a tentoni nel buio e che come per un contrappasso dantesco, proprio per non aver saputo vedere i delitti di cui inconsapevolmente si macchiava, si auto provocherà la cecità.
L’Agamennone si conclude con l’uccisione del re e di Cassandra e la rivendicazione del gesto da parte dei due assassini e amanti, Clitennestra ed Egisto, mentre la vendetta di Oreste, il suo inseguimento da parte delle Erinni e infine la loro trasformazione in Eumenidi – dee della giustizia – durante il processo finale che vedrà Oreste giudicato nell’Areopago si consumeranno nelle altre parti della trilogia. Proprio le Eumenidi, fase conclusiva dell’Orestea segnano simbolicamente il passaggio da una sorta di legge del taglione, fondata sulla vendetta (occhio per occhio dente per dente) alla giustizia democratica del nuovo assetto delle polis e l’esaltazione dell’Atene democratica, in cui il colpevole non deve più essere vendicato ma sottoposto a giusto processo nella sede del tribunale dei delitti di sangue (l’Areopago appunto) e giudicato attraverso una votazione democratica, sotto l’egida della dea della giustizia Atena, che poi sancirà anche il verdetto finale.
La messa in scena de L’Agamennone di De Fusco è carica di atmosfera suggestiva e inquietante. Effetti speciali e intermezzi con danze di sinuose ballerine e musica potente, rendono pienamente la tensione e l’intensità tragica della storia e dei personaggi, creando un sentimento di angoscia e turbamento nell’animo degli spettatori, e riuscendo a rendere piuttosto labile il confine tra vittime e carnefici così come a prendere atto che tutti o nessuno siano in fondo dei colpevoli. Certo, la figura indomita e feroce di Clitennestra lascia poco spazio a un’immedesimazione empatica, ma in fondo perfino per lei si può provare pietà e ammirazione, per la sua forza di donna che vuole essere considerata pari ad un uomo, per il suo non nascondersi dietro quel gesto sanguinoso che decreterà la sua condanna a morte; per il non piegarsi di fronte a niente e nessuno, risultando figura di spessore e protagonista di una tragedia che pur non porta il suo nome. L’interpretazione di Elisabetta Pozzi è intensa ma rischia di essere scavalcata da un’altra figura femminile che dal momento in cui apre bocca ruba la scena a tutti: La Cassandra di Gaia Aprea è sublime, nel senso filosofico del termine. Passa dalla purezza e innocenza di giovane fanciulla sventurata, vittima di “dono”più grande di lei, alla versione quasi stregonesca e macabra di una Cassandra che con voce gracchiante, rauca e cavernosa (totalmente contrapposta alla voce limpida e cristallina nei momenti di lucidità) viene posseduta dalla profezia che le procura spasimi e convulsioni; per poi tornare invece infine a cantare con voce di usignolo mentre si incammina incontro al suo destino di morte. La sacerdotessa di Apollo è l’unica figura che esce completamente immacolata, è la vera vittima di una storia di cui sa non essere i mortali a tesserne i fili e con fierezza e orgoglioso coraggio non si piega ma si erge a testa alta di fronte alla sorte che le hanno decretato gli dei.
La scenografia abbastanza sobria, ma in qualche modo magica, grazie ad alcuni colpi di scena, e le luci cupe, a parte quelle che circondano, come un’aureola di luce nefasta anziché angelica, la figura di Clitennestra, diventano lo spazio perfetto per un crescendo di tensione drammatica e lo sfondo tetro che fin dai primi dialoghi presagisce il determinarsi di lugubri eventi, di cui i primi personaggi in scena si faranno testimoni impotenti.
Premettendo che il tema delle unioni civili mi sta particolarmente a cuore, cercherò di non cadere in discorsi un po’retorici e mi verrebbe facile lanciarmi in argomentazioni più dettati dal cuore e dalla pancia che però poco servirebbero a capire certi punti che a me sembrano ovvi.
Già al lancio del comunque tiepido Ddl Cirinnà bis sé esplosa la frattura, sia in parlamento che tra gli italiani.
Davvero io non riesco a capire la paura che un testo di legge simile, per altro neanche troppo coraggioso, rispetto ormai ai passi in avanti che quasi tutti i paesi occidentali hanno compiuto nei confronti delle coppie omosessuali, susciti ancora tra molte persone. Il punto maggiormente critico è la cosiddetta stepchild adoption, ovvero l’estensione della responsabilità genitoriale sul figlio biologico di uno dei due partner. Quello che più mi urta i nervi è la propaganda ingannevole e fuorviante, che si è creata su questo punto, considerato particolarmente spinoso e che svia fortemente dalla realtà che esso sancirebbe e prevedrebbe.
Copenhagen, anni ’20 del ‘900, Einar Wgener, pittore paesaggista vive con l’amata moglie, Gerda, pittrice ritrattista. I due sono molto affiatati, giocano, scherzano tra loro, si incoraggiano nei rispettivi lavori, pur risultando piuttosto agli antipodi caratterialmente: lei spregiudicata, sicura di sé, esplosiva, vivace; lui più introverso, solitario, timido, fragile anche fisicamente, intento in maniera forse quasi maniacale a riprodurre sulla tela i paesaggi di campagna, con laghi e grandi alberi, che avevano costellato la sua infanzia. Gerda prova a vendere i suoi quadri, senza riscuotere però successo, finché un giorno, per gioco, chiede al marito di posare per lei, ma come donna. I due comprano vestiti femminili, calze, parrucca, scarpe che trasformeranno Einar in Lili Elbe. Il volto angelicamente bello, etereo, dotato di effimera bellezza e purezza e le sue pose aggraziate ritratti sulla tela da Gerda non passano inosservati e sbalordiscono anche l’acquirente a cui più volte Gerda aveva cercato di vendere i suoi quadri e si apre per la giovane donna una strada fatta di successi e di mostre, perfino a Parigi, dove i due protagonisti si recheranno per qualche tempo.
Sono passati solo due mesi da quell’immagine sconcertante di Aylan Kurdi, il bambino siriano di tre anni trovato morto annegato, a faccia in un giù come una piccola balenottera, sulla spiaggia di Bodrum, in Turchia, insieme al fratellino Galip di soli 5 anni. Ricordo che web, televisioni, giornali facevano girare senza tregua quella foto straziante, quell’orrore indicibile, inesprimibile, un orrore che va contro la natura, la vita, la giustizia, la fede, per chi ce l’ha. Ma oggi, a distanza di qualche tempo, quell’orrore continua a ripetersi, senza che niente sia cambiato. Altri sei bambini afghani e ieri altri 5 bambini sono morti durante la traversata infernale che li avrebbe dovuti portare verso una vita possibilmente migliore, per loro e la loro famiglia. Niente è stato fatto per fermare queste morte. Non solo di bambini, ma di donne, uomini, anziani.
La foto di Zuckerberg che cambia il pannolino alla figlia è la naturale conseguenza di un impero costruito sulla circolazione delle cagate.
di Fdecollibus
Entra allora in scena un altro medico, Milton Diamond, un noto endocrinologo che sostiene invece una tesi opposta a quella di Money, vale a dire la tesi essenzialista: secondo tale teoria, la natura dell’identità di genere non è affatto neutra o frutto di una genesi sociale e culturale, bensì è ormonale, genetica. Se alla nascita vi è la presenza genetica del cromosoma Y, anche in assenza del pene e anche in seno a un’educazione “femminile”, resta inevitabilmente la presenza di un istinto sessuale maschile, di preferenze e desideri da maschio, perché il cromosoma Y “agisce implicitamente nella strutturazione del senso e dell’autoconsapevolezza di persona sessuata” (Fare e disfare il genere). Questa presenza originaria del cromosoma maschile prescinde dunque, per Diamond, dal fatto che l’organo sessuale ci sia o non ci sia, perché quella mascolinità genetica resta, anche laddove non appare. Brenda trova allora in questa idea un sostegno e una speranza di poter diventare il maschio che sente di essere e assume il nome di David. Così si affida nelle mani dell’endocrinologo e a 14 anni decide di farsi somministrare il testosterone e di farsi asportare i seni. A 15-16 anni a Reimer viene dunque implementato un “fallo” (Diamond usa proprio tale termine nei suoi appunti) che si avvicina solo in parte alle normali funzioni e quindi di conseguenza solo in maniera ambivalente permette a David di accedere alla norma: David non è in grado di eiaculare, benché provi un certo piacere, e urina dalla radice del pene. Anche in quest’altro sviluppo della vicenda di David si assiste però, di nuovo, a una strumentalizzazione del suo caso per dimostrare una tesi che si sostiene: anche Diamond si serve perciò di Reimer per capovolgere la tesi del costruttivismo di genere attraverso la nozione di un nucleo costitutivo del genere, legato inestricabilmente all’anatomia natale e al determinismo biologico.
Una lezione davvero interessante quella tenutasi giovedì 3 dicembre, durante il corso di filosofia politica a scienze politiche presso il Polo Universitario di Novoli. La docente del corso, la professoressa Brunella Casilini ha voluto fare un regalo ai suoi studenti (e a tutti coloro, colleghi, laureandi, studenti di altre facoltà che hanno assistito alla lectio magistralis) invitando ad approfondire uno dei testi in programma, “Fare e disfare il genere”, di Judith Butler con Federico Zappino, studioso di filosofia politica e uno dei massimi esperti del pensiero della filosofa statunitense, nonché traduttore e curatore della recente nuova edizione (Mimesis) del succitato testo, oltre ad aver tradotto e curato anche “La vita psichica del potere” (anch’esso edito da Mimesis) e aver pubblicato, insieme a Lorenzo Coccoli e Marco Tabacchini “Genealogie del presente. Lessico politico per tempi interessanti.”(Mimesis, 2014)
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Terminato il suggestivo e appassionato intervento (o testimonianza) di Organisti, è Sandro Palazzo a prender la parola. Il suo, afferma, sarà un Deleuze “un po’più autunnale”. Palazzo parte infatti da un testo deleuziano del ’92, “L’épuisé”, ovvero “L’esausto”, uno scritto su Beckett. Vi è una differenza, sostiene Deleuze, tra lo stanco e l’esausto. Lo stanco è colui che
“non dispone più di nessuna possibilità (soggettiva): e non può quindi mettere in atto la minima possibilità (oggettiva). Ma questa possibilità permane, perché non si attua mai tutto il possibile, anzi lo produce man mano che si va attuando. Lo stanco ha esaurito solo la messa in atto, mentre l’esausto esaurisce tutto il possibile. Lo stanco non può più realizzare, ma l’esausto non può più possibilizzare” (G. Deleuze).
“Un po’di possibile, sennò soffoco”
Gilles Deleuze
Continua il ciclo di appuntamenti filosofici al Gabinetto Viessieux, organizzata dall’Associazione Quinto Alto. Stavolta il protagonista della conferenza è stato Gilles Deleuze, a vent’anni dalla sua morte. Non a caso il titolo dell’incontro del 30 novembre era proprio “Ripensare Deleuze. A vent’anni dalla morte”.
Katia Rossi, moderatrice del dibattito, introduce la figura di questo affascinante ed eccentrico filosofo ricordando in particolare il volume di opere postume pubblicato a distanza di dieci anni dalla sua morte, curato da David Lapoujade, col titolo di “Les mouvements aberrants” (éditions de Minuit) e che raccoglie soprattutto una serie di lettere e interviste lasciate dal filosofo francese.
Dal convegno Amore, instabilità, violenza. Famiglie ieri ed oggi, altri due interventi molto suggestivi e appassiona(n)ti raccontano due donne, due anime completamente diverse.
Irene Dati, giovane studentessa iscritta alla magistrale di scienze filosofiche presso l’Università degli Studi di Firenze ci narra la struggente storia di Alcesti, protagonista della tragedia (ma tragedia a lieto fine in realtà) di Euripide, probabilmente rappresentata alle feste Dionisie del 483 a.C. La struttura della tragedia ricorda più quella di una fiaba, anche per il finale luminoso e lieto che ribalta gli eventi tragici avvenuti prima.
Nel prologo il Dio Apollo racconta di esser stato condannato dal padre Zeus a fare da schiavo nella casa di Admeto, re di Fere, in Tessaglia. Già qui dunque assistiamo a un fatto piuttosto insolito: una divinità che è schiava di un uomo mortale. Admeto è comunque un ospite perfetto, accogliente e benevolo e grazie a queste sue qualità si guadagna il rispetto del dio. Proprio per la stima nutrita nei confronti del padrone, Apollo ottiene dalle Moire che Admeto possa sfuggire alla morte, a patto che qualcuno decida di sacrificarsi per lui. Nessuno però né gli anziani parenti né i più cari amici sembrano disposti a un tale e letale sacrificio. Soltanto lei, Alcesti, l’amatissima sposa è disposta a rinunciare alla propria vita per risparmiare quella dell’altrettanto amato marito. Quando Thanatos, la morte, entra in scena Apollo invano cerca di impedire che la giovane e coraggiosa fanciulla venga sacrificata e si allontana dalla casa invasa da un’angosciante silenzio. Quando il coro dei cittadini di Fere incombe sulla scena si consuma la tragedia. Una serva annuncia che Alcesti è pronta a morire ed ecco che si apre una delle immagini più potenti e strazianti della tragedia: la regina saluta la luce del sole, quel sole che non potrà mai più vedere, da cui non potrà mai più essere illuminata e scaldata. La attendono la notte e le tenebre eterne dell’oscurità dell’Ade e dovrà congedarsi da quella luce tanto cara e preziosa:
“Sole, luce del giorno, ètere, limpide e veloci nuvole […] Terra, tetto dell’atrio, nunzial talamo di Jolco […] Lasciatemi, lasciatemi, adagiatemi. Più non mi reggono i piedi. Morte è già presso: ombrosa notte sopra gli occhi cala. Figli, figli, la madre vostra non vive più. Addio figli, godete questa luce del giorno. ” Admeto si dispera, piange, non vorrebbe mai lasciare la sua sposa: “Ahimè, questi detti al mio cuore son più che ogni morte funesti! Oh no, non partire, ti prego […] Se muori, io morrò. Tu sola puoi darmi la vita o la morte.” Niente però potrà fermare la risoluzione di Alcesti, pronta a morire per l’uomo che ama a cui però porge un’ultima richiesta, esige da lui un’ultima promessa: “Admetoa te che la mia sorte vedi, dirò, pria di morir, quello che bramo. Io più che me, te caro avendo, a prezzo del viver mio, la luce a te serbata, muoio. E potevo non morir per te […]. Ma divelta da te non volli vivere […] un Dio volle che così fosse tutto questo. E sia. Ma tu, memore, rendimi una grazia. Al beneficio pari non sarà, ché nulla val quanto la vita vale; ma ben giusta: e tu stesso lo dirai: ch'ami non men di me questi fanciulli, se pure hai senno. Fa' ch'essi padroni sian della casa mia, schiva le nozze, ai figli miei non dare una matrigna […] Non farlo, no, ti prego. Ai primi figli sopraggiunge nemica una matrigna: cuore non ha più mite d'una vipera. […] Io morir devo, e non domani, e non il terzo dí del mese, il mal m'attende; ma fra poco viva chiamar me non potrete. Addio, siate felici. Glorïarti, o sposo, potrai che la tua sposa ottima fu: e voi, figliuoli, della madre vostra”
Alcesti fa dunque promettere allo sposo di restargli fedele anche da morta, di non portare a casa una nuova moglie e una matrigna per i figli. Admeto promette:
“Sarà, tutto sarà. Non temere. Io t’ebbi sposa da viva; e morta, ancora unica sposa mia detta sarai. Niuna Tessala più mi chiamerà sposo, e sia pur di nobil stirpe, sia di vaghissime forme […] E non un anno il lutto tuo porterò; ma sin ch’io resti in vita […] Ora attendimi là, quando io sia morto, e prepara la casa ove dimora avrai con me. Ché porre io mi farò in questa stessa arca di cedro, il fianco vicino al fianco tuo; né morto mai, sarò da te disgiunto, o sola fida!”
Alcesti quindi muore e tutti la piangono disperati. Bellissime le parole di Admeto, del l figlio Eumelo e dei Corifei nel Peana funebre. Dopo il compianto entra in scena Eracle, intento in una delle dodici fatiche per chiedere ospitalità ad Admeto. Questi racconta all’eroe, non potendo nascondere il proprio dolore, che era morta una donna, non consanguinea. Dopo altre vicissitudini, uno schiavo del re rivela ad Eracle l’identità della donna. Eracle allora decide di scendere nell’Ade per riportare in vita Alcesti.
L’eroe, ripresa così la donna, torna alla reggia, tenendo tra le braccia la regina coperta da un velo, fingendo di averla avuta come premio durante i giochi pubblici, per testare così la fedeltà del re. Admeto ha inizialmente orrore persino a toccarla e, fedele alla promessa fatta alla consorte in punto di morte, vieta all’eroe di entrare con lei. Alla fine, dopo l’insistenza di Eracle Admeto acconsente a guardare la fanciulla velata.xc .
Anna Scattigno, ricercatrice in Storia del Cristianesimo e delle chiese presso l’Università degli Studi di Firenze e co-fondatrice della Scuola Italiana delle Storiche, invece ci racconta un’altra donna, molto diversa da Alcesti. Anche in questa vicenda emerge il tema della fedeltà assoluta. Ma si tratta di una fedeltà molto diversa da quella, dettata dall’amore profondo dei due eroi greci. La donna in questione è Maria Teresa d’Austria, nata nel 1717 e che, grazie alla Prammatica Sanzione del 1713, emanata dal padre Carlo VI – che stabiliva l’immutabilità e l’indivisibilità della successione nella Monarchia Asburgica garantendo dunque un solo ordine di successione – nel 1740 ereditò il regno della Monarchia Asburgica e sposando Francesco I di Lorena fu fondatrice del casato Asburgo Lorena. Soltanto dopo la guerra di successione, con la pace di Aquisgrana del 1748 l’imperatrice poté prendere possesso dei suoi diritti di imperatrice. La coppia imperiale ebbe ben 16 figli. Infatti Maria Teresa a una politica di guerra per saldare i confini dell’impero preferiva una politica di alleanze matrimoniale, predisposizione che la portò ad avere forti conflitti con il figlio Giuseppe – co-reggente nel 1765 dopo la morte del padre Francesco I e futuro imperatore del Sacro Romano Impero.
Il profondo contrasto è evidente nella corrispondenza che i due intrattenevano. La politica del fare figli aveva però anche un’altra funzione per l’imperatrice: rappresentava il proprio dovere di sovrana. Dovere che avrebbero dovuto introiettare e mantenere tutte le sue figlie e future regine. Nelle lettere che Maria Teresa inviava a figlie e nuore questo aspetto veniva sempre ribadito e sottolineato con forza. In una delle lettere inviata a una delle sue nuore che stava allattando un figlio, scriveva: “Ad onta dei miei sedici figli io non so niente. Per tutto quel che riguarda il parto ho preferito rimanere ignorante per poter conseguire al meglio la mia obbedienza. Per poter obbedire al meglio.” La corrispondenza di Maria Teresa è davvero imponente e ricca in particolare di lettere ai figli. Vi è un’edizione relativamente recente, edita a Berlino nel 1940, con il titolo “La moglie e la sovrana” a cui fa riferimento l’edizione italiana curata da Alberto Spaini.
Lo stile dell’imperatrice si esprime al meglio nelle lettere scritte in francese. Maria Teresa conosceva moltissime lingue (tedesco, latino, italiano, francese, ungherese) ma mentre nella lingua tedesca risulta più dura, più brusca, la lingua e la cultura francese le insegnava una moderazione, una dolcezza che mancavano nella sua madrelingua. Le lettere a Giuseppe sono sicuramente le più importanti dal punto di vista politico ed emergono non solo il divario tra due opposte visioni politico-strategiche, ma anche tra due diverse visioni culturali e ideologiche: Giuseppe era imbevuto di cultura illuminista, mentre Maria Teresa, per quanto la conoscesse, da fervente cattolica e convinta che solo la religione – e le alleanze matrimoniali – potesse garantire una convivenza pacifica, non la condivideva.
Ci sono poi anche molte lettere all’atro figlio, Pietro Leopoldo – futuro Granduca di Toscana – che risultano molto diverse rispetto a quelle indirizzate a Giuseppe. La famiglia Toscana di Pietro Leopoldo diventerà, agli occhi della madre un modello perfetto tanto che in questa corrispondenza emerge una sorta di idillio e serenità familiare: si parla di viaggi, vita domestica..
Anche agli altri due figli, Ferdinando e Massimiliano – avviato alla carriera ecclesiastica – Maria Teresa non manca di inviare lettere.
Ma le più grandi differenze emergono nella corrispondenza alle figlie, i cui contenuti sono totalmente diversi da quelli presenti nella corrispondenza ai figli maschi. Le otto arciduchesse sembrano lì per costruire alleanze matrimoniali, in particolare con le corti più rilevanti d’Europa: Francia e Regno di Napoli. Alla prima verrà mandata Maria Antonietta, a soli 13 anni, al secondo Maria Carolina a soli 15 anni. Praticamente due adolescenti appena uscite dall’infanzia. Maria Amalia e Maria Carolina hanno invece un’età maggiore quando verranno date in moglie: la prima a 23 anni, la seconda a 24.
Dalla corrispondenza emerge che forse, la figlia prediletta di Maria Teresa è Maria Cristina, che addirittura viene chiamata dalla madre “mia unica amica”. Maria Cristina è molto innamorata di Alberto di Sassonia e sarà proprio Maria Teresa a fare trattative segrete affinché l’amata figlia possa sposare, stavolta per amore, l’uomo che desidera, nonostante la contrarietà dei principi, soprattutto di Giuseppe. Si tratta forse dell’unico matrimonio d’amore, anzi, di amour-passion, perché anche questa passione sarà destinata a consumarsi e anche il matrimonio di Maria Cristina non si rivelerà un matrimonio felice. È però questa passione che Maria Teresa rimprovera alla figlia il cui comportamento passionale, da donna dominata da un amore travolgente, rischia di mandare a monte le trattative che la sovrana sta cercando di intrattenere per lei. Nello stesso tempo questo amore la rimanda, col ricordo, al suo. Un amore non passionale ma che le aveva assicurato “29 anni di matrimonio felice”. L’amor “fou” di Maria Cristina è molto diverso da quello, mite, tranquillo, amichevole e fondato sulla reciproca stima, sul reciproco rispetto e sulla reciproca fedeltà, che aveva conosciuto Maria Teresa e che pur era stato amore. Una forma diversa di amore ma sempre amore era. Proprio per questa sua esperienza la regina cerca di educare la figlia a moderare la propria passione, a temperarla, a trasformare quell’amore folle e selvaggio in un sentimento più “educato”, più consono al ruolo di una sovrana.
“Questo è il mio consiglio”. Frase che ricorre spesso in tutte le lettere e che diviene quasi la firma, la traccia emblematica dell’indole e del carattere di Maria Teresa. Tra i consigli e i principi che la donna prodiga alle figlie ce ne sono alcuni per lei fondamentali: una delle norme più importanti del matrimonio è la sottomissione della moglie-madre al marito. Parlando delle figlie, in una lettera, la sovrana scrive: “sono nate per obbedire e devono acquistare col tempo questa abitudine.”
Si tratta di una doppia obbedienza, come donna e come principessa. E ancora: “La moglie è sottoposta al marito, egli è il nostro solo scopo. Lo dobbiamo servire e aiutare. Lo dobbiamo vedere come un amico fraterno e il migliore compagno”. Dunque una devozione assoluta.
“La moglie è tenuta ad obbedire al marito. Non deve mirare altro che a renderlo felice e a soddisfare i suoi bisogni”. C’è un totale annullamento dell’individualità della persona umana, un’abnegazione sentita come scelta e come dovere, come unico scopo e unica possibilità di costruire un matrimonio felice per entrambi i suoi membri. “ L’unica vera felicità su questa terra è un matrimonio felice”, scrive ancora Maria Teresa alla figlia Maria Carolina, promessa a Ferdinando IV di Borbone. In tutta questa lettera vi è un’insistente indicazione del “dovere di essere felici”, ma qui, l’unico stato di felicità sembra arrivare solo da un matrimonio felice. Anche quando questo sembra non aver alcuna premessa per dirsi felice. Ferdinando IV infatti è noto per la sua bruttezza e per il suo essere brusco e persino violento, tanto che Pietro Leopoldo scrive alla madre che sua sorella, Maria Carolina piange in continuazione e che ha persino pensato di togliersi la vita. Per tutta risposta ci si aspetterebbe consolazione e conforto da una madre amorevole. Invece nelle lettere che Maria Teresa invia alla sventurata figlia, non vi è alcun cenno di ciò, anzi, vi si continua a ripetere che la possibilità/il dovere di essere felici lo si conquista incarnando la figura della moglie perfetta, ovvero attraverso indissolubilità, obbedienza, sottomissione, docilità, remissione, disciplina. Maria Carolina proverà a seguire i suggerimenti - o meglio, comandamenti! – della madre, ma nonostante questo, non riuscirà a realizzare un matrimonio felice con Ferdinado IV.
La sottomissione soprattutto sembra essere il comandamento che non ammette eccezione alcuna. Anche nei confronti degli errori del marito la moglie deve rimanere imperturbabile e anzi, accettarli e sopportarli con pazienza: “la moglie ha sempre torto, qualsiasi cosa abbia commesso il coniuge.” Un comportamento diverso sarebbe stato, agli occhi di Maria Teresa, sintomo di prepotenza e ad una donna, al prepotenza proprio non si confà!
La moglie deve meritare la fiducia del marito: “la felicità della donna consiste unicamente nella fiducia che il marito ripone in lei.”
Tutti questi insegnamenti normativi, categorici possono risultare alle volte anche molto bruschi e freddi, di una rigidità glaciale che non sembra lasciare molto spazio alle emozioni, alla compassione. Eppure, pur nella loro durezza, pur nella loro incisività poco empatica, testimoniano la convinzione e le buone intenzioni della sovrana, sinceramente persuasa che solo in questo modo la donna, moglie, madre e sovrana avrà la possibilità di rendere felice il proprio matrimonio. Ed è proprio nelle sue mani, nel suo comportamento sottomesso e obbediente che sta la chiave di questa felicità. I comandamenti impartiti alle figlie sono il frutto dell’esperienza personale di felicità di Maria Teresa ed in essi c’è la speranza e la volontà di madre che anche le sue figlie e principesse riescano a vivere una simile esperienza, possibile soltanto, però se fanno propri gli insegnamenti e gli ideali che ella stessa consegna loro in eredità. La felicità cui fa riferimento la sovrana è stata possibile grazie al suo atteggiamento docile e remissivo, degno di una moglie e di una regnante, che ha potuto costruire un matrimonio fondato sulla stima reciproca, su una profonda amicizia e su un reciproco scambio di servigi tra lei e il marito, di cui si era conquistata la fiducia, evitando così da parte di quest’ultimo un comportamento di imponenza e dominio. Alla fine, quel che Maria Teresa sembra dire alle figlie è che il buon esito della felicità di entrambi i coniugi dipende dalla donna ed è forse questo aspetto che risulta più carico di pesantezza normativa, proprio perché il matrimonio deve esser visto, dalla donna, come una vera missione. Missione che si allarga dalla sfera privata dei doveri e delle responsabilità nei confronti del marito e dei figli a quella pubblica, dei doveri e delle responsabilità nei confronti dei propri sudditi: “La principessa quando viene inviata nelle nuove corti è straniera e prima suddita. Perciò deve in primo luogo imparare la lingua – cosa che deve essere di conoscenza pubblica – per diventare una cittadina del Regno, e impararne le usanze.” Isabella, infante di Spagna, ad esempio, cercò di comprendere le minime usanze del paese, guadagnandosi così l’apprezzamento e la benevolenza dei suoi sudditi, la stima di una Nazione che l’accolse a braccia aperte.
Altra convinzione della sovrana era che la pace della famiglia reale sarebbe stata l’unica condizione per la pace della corte e dello stato. La sottomissione nella coppia coniugale acquista qui, dunque, un ruolo politico, come sottomissione nei confronti del proprio popolo e del proprio regno. Non bisogna mai cercar di prevalere o dominare sul re poiché ciò significherebbe sia la fine della pace coniugale che quella della Nazione. La regina deve tenersi sempre in disparte e non deve fare politica, o qualora il marito le accordi una parte del governo/del regno, l’onore deve andare comunque sempre al re, e non si deve saperlo in pubblico.
Maria Teresa muore nel 1780 con la consapevolezza che tutto il suo ideale, modello di sottomissione e reverenza non era più applicabile in un’Europa cambiata, quel modello non rispondeva più alla nuova cultura che stava prendendo il sopravvento. Questo Maria Teresa lo sapeva bene e ne soffriva, perché riteneva quel modello come l’unico valido e capace di conservare la pace e la felicità tanto nella sfera privata quanto in quella pubblica e politica. Unico puntello nelle mani della sovrana restava allora soltanto quello della religione, che però non bastò a cancellare quella tragica consapevolezza nel veder dissiparsi un modello morale e culturale in cui non aveva mai smesso di credere.
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