Dal lato di Marina Silva accanto all'impegno ambientalista troviamo un coacervo di posizioni malamente assemblate. C'è la critica a un aspetto importante dell'attuale “modello di sviluppo” brasiliano in sede di esportazioni, quello della produzione su larghissima scala di soia transgenica destinata all'alimentazione del bestiame; c'è il richiamo alle richieste di eguaglianza di condizioni materiali della popolazione brasiliana di origine africana (cui Marina Silva appartiene), senza tuttavia declinare altrimenti che in termini identitari la questione; c'è il rifiuto del diritto all'aborto, su base morale; c'è il rifiuto, sempre su questa base, della legalizzazione delle coppie omosessuali. Ma ciò che più conta è che l'ambiguità complessiva della posizione di Marina Silva si presta al tentativo della destra brasiliana, una delle peggiori dell'America latina, di rientrare politicamente in gioco e addirittura di tentare la scalata al potere, non essendo essa in grado di farlo autonomamente, in quanto puntello fondamentale a suo tempo della dittatura militare fascista.
Vedremo presto se quest'operazione è stata efficace. In particolare essa conta (più che sull'efficacia della presa di Marina Silva sulla popolazione complessiva di origine africana, che da sempre appoggia massicciamente la sinistra brasiliana, e, in tempi relativamente recenti, soprattutto il PT) sull'efficacia di una quota, quella più deprivata, della popolazione urbana di quest'origine. Lo si è ben visto quand'essa si è posta come protagonista, nei mesi scorsi, a ridosso delle conclusioni del campionato mondiale di calcio, di vistose mobilitazioni di strada. In questa quota della popolazione brasiliana, oggetto principale del programma, avviato da Lula, Fame zero, cioè di assegni mensili da parte statale alle famiglie a incremento del loro reddito e delle loro possibilità di spesa, il fatto di essere oggetto di tale politica positiva da parte del potere ha semplicemente incentivato le richieste materiali. È un problema, tra parentesi, tipico di buona parte dell'America latina ma anche di molti paesi africani, tra i quali segnatamente il Sudafrica. Le condizioni di fatto o di diritto di apartheid e la concentrazione della gente più povera in gigantesche baraccopoli ha favorito condizioni di economia illegale gestite da bande potenti e al tempo stesso di extraterritorialità di fatto, che da un lato dispongono questa parte delle popolazioni a chiedere senza essere in grado di dare alcunché a sua volta in cambio alla società, dall'altro la pongono alle dipendenze di poteri criminali, nel caso del Brasile storicamente alleate delle destre.
A ciò va aggiunto, tuttavia, sia il fatto di errori da parte della presidenza di Dilma Roussef che il fatto della congiuntura economica negativa in cui il Brasile è recentemente precipitato, dopo molti anni di forte crescita economica. Un errore è consistito, dinanzi alla forte domanda popolare di migliori servizi sociali e di trasporto, nello spendere una quantità di risorse fattesi nel frattempo scarse negli impianti necessari alla conclusione dei campionati mondiali di calcio. E accanto a quest'errore si è collocato un tentativo di contenimento dei rischi per i turisti sportivi, derivanti dall'elevata criminalità operante nei grandi centri urbani, attraverso lo sgombero e la distruzione di baraccopoli o la loro messa sotto controllo militare e di polizia, il tutto effettuato con metodi spesso brutali.
In via generale anche questi accadimenti mostrano, a mio parere, il logoramento di un esperimento sociale, quello brasiliano, di tipo riformista molto avanzato, certamente, ma tutto centrato, guardando alle condizioni di vita popolari e a quelle complessive dell'economia, sulla redistribuzione del reddito sociale, senza cioè intaccare la forma sistemica capitalistica dell'economia. Ma se questa forma non viene radicalmente reimpostata, cioè condotta al proprio superamento in senso socialista, ogni politica redistributiva trova prima o poi un limite insormontabile, cioè a un certo momento si scontra con l'impossibilità di soddisfare quelle crescenti richieste popolari che la redistribuzione stessa del reddito incentiva. A differenza di altri paesi latino-americani, che stanno tentando passaggi socialisti, il Brasile, non solo per decisione del PT ma per il complesso della sua situazione, si è fermato a un passo di distanza. La crisi ha inoltre acutizzato questa contraddizione. A Dilma Roussef, se vincerà (e c'è solo da auspicare che ciò avvenga), e a Lula, che continua a essere la figura fondamentale della sinistra brasiliana, il compito di decidere, quindi, non solo le sorti sistemiche del Brasile ma anche, in ultima analisi, quelle del riconoscimento sociale tuttora ampio della sinistra del loro paese, parimenti, per l'importanza decisiva del Brasile nella definizione delle prospettive dell'America latina, le prospettive stesse dei governi di sinistra e del socialismo in questo continente.