L’attentato all’aeroporto di Istanbul, stando alla stampa italiana, sarebbe senz’altro attribuibile a Daesh. Le caratteristiche anche tecniche di quest’attentato richiamano effettivamente quelle degli attentati di Daesh in territorio siriano, iracheno, europeo, asiatico. Tuttavia Daesh ha sempre rivendicato i suoi attentati, e nessuno di quelli sofferti dalla Turchia sono stati rivendicati da Daesh. O meglio esso ha rivendicato in passato alcune operazioni effettuate in Turchia contro singole persone, come curdi legati alla militanza PYD del Rojava e operanti a ridosso del confine siriano. Inoltre sono senz’altro imputabili a Daesh (in collaborazione con i servizi di intelligence del MİT, la polizia e il governo AKP del pazzo criminale Erdoĝan) le stragi di Diyarbakır e Suruç del luglio del 2015, che colpirono rispettivamente un comizio elettorale del partito curdo legale HDP e una manifestazione di solidarietà di organizzazioni giovanili di sinistra con i combattenti curdi di Kobanê (Suruç è sul confine siriano), e la strage ad Ankara dell’ottobre successivo, che colpì un comizio elettorale sempre dell’HDP (ricordo che nel 2015 ci furono due momenti elettorali in Turchia).
A rendere dubbia, inoltre, tutta quanta la ricostruzione da parte turca dell’attentato all’aeroporto di Istanbul c’è che a una decina di giorni prima il MİT (o meglio un suo pezzo) aveva dichiarato al governo di ritenere prossimo un attentato in questa città, che il medesimo preavviso era stato dato dai servizi statunitensi, e che l’aeroporto di Istanbul era stato segnalato come uno dei possibili bersagli. Ancora, a rendere più che dubbia la ricostruzione del governo ci sta il fatto che la sorveglianza di polizia e militare dell’aeroporto non era stata rafforzata. Alimentare la “strategia della tensione” a suon di bombardamenti e massacri è stato da due anni a questa parte uno strumento fondamentale della politica interna di Erdoĝan, sia per conto della tenuta del consenso di cui dispone nella popolazione turca che a giustificazione, in una situazione di crescente isolamento internazionale, della sua guerra alla popolazione curda del sud-est.
Non si può tuttavia escludere in radice l’ipotesi che l’attentato all’aeroporto di Istanbul sia stato davvero effettuato da Daesh, sulla scia del deterioramento in corso dei rapporti Erdoĝan-Daesh. Adottiamo per un momento quest’ipotesi. Come i summenzionati attentati a Diyarbakır, Suruç e Ankara era inopportuno che fossero rivendicati da Daesh, perché avrebbero messo in chiaro il legame cooperativo Erdoĝan-Daesh e avrebbero danneggiato le campagne elettorali del partito di governo AKP, così una mancata rivendicazione da parte di Daesh dell’attentato all’aeroporto di Istanbul potrebbe significare che esso non dia per scontata una rottura politica definitiva con la Turchia, e che sarebbe appunto per impedirla che abbia realizzato quest’attentato. Esso cioè rappresenterebbe questo messaggio al potere turco: “o continui ad appoggiarci o noi continueremo a colpirti con stragi disastrose”.
Il deterioramento dei rapporti Erdoĝan-Daesh è in ogni caso reale. Questi rapporti erano parte, dal lato di Erdoĝan, di più ragionamenti. Il primo, la fungibilità di Daesh, e delle altre organizzazioni armate sunnite, all’obiettivo, attraverso la devastazione della Siria, di portarla o di portarne una parte sotto controllo politico turco, nel quadro dell’obiettivo megalomane della ricostituzione del califfato ottomano. Il secondo, il fatto che Daesh appariva un partner importante, come altre organizzazioni armate sunnite, prima di tutte al-Qaeda, dello schieramento di stati (Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Bahrein, appunto Turchia) che tira alla guerra generale (già cominciata in Yemen) contro gli stati sciiti, cioè contro l’Iran e lo stesso Iraq attuale (tra gli obiettivi turchi c’è anche il controllo del Curdistan iracheno e possibilmente dell’area di Mosul). Non solo. Daesh vendeva alla Turchia (o meglio al clan familiare di Erdoĝan e ai suoi sodali stretti dentro all’AKP) il petrolio estratto nei territori siriani sotto suo controllo, ricevendone in cambio la piena libertà di movimento e di transito, la protezione, la cura ospedaliera dei feriti, il rifornimento di armi, informazioni militari ecc. in territorio turco per i suoi assassini, grazie al fatto che Daesh controllava un tratto del confine turco-siriano. Infine Daesh risultava essere un prezioso alleato nella guerra di Erdoĝan ai curdi siriani, partecipi di un movimento politico vicino al PKK curdo-turco. Ma poi le cose sono cambiate, e abbastanza velocemente.
Daesh è precipitato in grandi difficoltà militari: la Russia è intervenuta in termini efficaci a sostegno del regime di Assad, ciò ha obbligato gli Stati Uniti a incrementare il loro intervento, ad armare i curdi siriani, a smetterla, retorica politica a parte, con la tesi sballata della doppia guerra a Daesh e a questo regime, ecc. In Iraq le cose si sono mosse nel medesimo senso. I curdi siriani sono diventati i migliori alleati degli Stati Uniti, per la loro capacità militare. Sempre sotto traccia gli Stati Uniti hanno smesso di considerare alleati effettivi Arabia Saudita, Israele, altre petromonarchie sunnite, e hanno deciso di considerare come loro vero alleato fedele nella regione l’Iran. Il tratto di confine tra Siria e Turchia non ancora sotto controllo curdo, infine, è stato chiuso: i bombardamenti russi vi hanno demolito ogni realtà armata ostile al potere siriano, poi è stato largamente occupato da truppe non solo siriane ma anche russe, sicché la Turchia non può intervenire militarmente a riaprirlo. In breve, tutte le condizioni del progetto di Erdoĝan sono venute meno. L’isolamento internazionale non era più, perciò, il prezzo che valeva la pena di pagare, ma era diventato un danno grave all’economia e alle condizioni popolari di vita in Turchia.
Per quanto profondamente malata di sciovinismo e di razzismo, la popolazione turca aveva votato per Erdoĝan non tanto perché facesse la guerra ai curdi ma perché migliorasse le condizioni popolari di vita e portasse tranquillità al paese. Di qui allora due atti, repentini, di svolta da parte di Erdoĝan. Il primo, l’abbandono di Daesh al suo destino, considerandone scontata la sconfitta militare e considerando ormai impossibile la realizzazione di un’egemonia turca sulla Siria, in quanto protetta dalla Russia e, sul versante curdo e su quello sunnita, dagli Stati Uniti. Residua una possibilità di egemonia sulla parte settentrionale dell’Iraq, usando l’alleato Barzani cioè il presidente corrotto del Curdistan iracheno: ma per tentarla occorre che Erdoĝan recuperi il rapporto con qualcuno di significativo in più oltre all’Arabia Saudita. In attesa di provarci con la Clinton o con Trump (con Obama la partita è chiusa), Erdoĝan è quindi andato a Canossa, cioè ha concordato con Israele l’indennizzo alle famiglie dei pacifisti turchi uccisi mentre tentavano di portare cibo a Gaza assediata da quest’altro assassino, e ha chiesto scusa a Putin per l’abbattimento dell’aereo militare russo sul confine turco-siriano. Tra parentesi, anche Israele ha in questo momento il problema del proprio isolamento internazionale. Attraverso il recupero di rapporti con Israele Erdoĝan si è dunque assicurato importanti rifornimenti energetici e aiuti tecnologici. Attraverso quello con la Russia, rifornimenti energetici non a rischio, la fine di sanzioni russe economicamente molto pesanti (blocco del turismo russo, blocco dell’importazione di frutta e verdura dalla Turchia, ecc.). Anche i rapporti della Turchia con l’Egitto sono destinati a migliorare (erano diventati pessimi a seguito della condanna da parte turca del golpe militare egiziano, che aveva colpito un presidente membro dei Fratelli Mussulmani, la medesima confraternita politico-religiosa cui appartiene Erdoĝan).
Tutto questo gioca evidentemente a favore dell’ipotesi di un’effettiva rottura tra Erdoĝan e Daesh. In ogni caso non occorrerà molto tempo per capire meglio le cose.
Ma se esse stanno così saranno guai grossissimi per la Turchia; la sua popolazione e la sua economia pagheranno un prezzo drammatico alla follia di Erdoĝan. La Turchia è stata in questi anni la retrovia fondamentale di Daesh, e con ciò il luogo nel quale le simpatie per Daesh hanno coinvolto migliaia di persone, solo parte ridotta delle quali è andata a combattere in Siria o in Iraq. Il telaio di supporto in Turchia a Daesh era grosso e articolato, e tale continua a essere. Ci sono quindi in Turchia migliaia di militanti di Daesh, turchi o provenienti dalla Russia e dall’Asia centrale, ben organizzati e in grado di mettere bombe e di sparare sulla gente. Inoltre Daesh ha legami stretti con pezzi di polizia e del MİT. Non va trascurato che sotto il vestito dello stato parlamentare, di diritto, caratterizzato dalla divisione dei poteri, dall’autonomia della magistratura, dalla fedeltà delle forze armate allo stato ecc. con il quale la Turchia di Erdoĝan si camuffa c’è una realtà, tutta rovesciata, che fa di ogni struttura e di ogni apparato dello stato e di ogni potere turchi, compreso quello militare, un coacervo di gruppi e di cosche che operano secondo la loro logica, le loro convenienze e i loro traffici, in genere illegali, hanno intrecci orizzontali tra loro, hanno rapporti con potenze straniere, tra le quali le petromonarchie arabe, grandi finanziatrici del terrorismo sunnita in tutte le sue varianti.