Venerdì, 25 Novembre 2016 00:00

La resistenza pacifica palestinese: intervista a Mahmoud Zwahre

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La resistenza pacifica palestinese: intervista a Mahmoud Zwahre

Venerdì 4 novembre 2016, presso il Giardino dei Ciliegi, si è svolto l’incontro Palestina: resistere per esistere, durante il quale Mahmoud Zwahre, ex-sindaco di Ma’sara e membro del Comitato Popolare dello stesso villaggio, ha presentato la sua esperienza di lotta contro le colonie israeliane e il Muro di Separazione costruito da Israele all’interno del territorio palestinese. Mahmoud ha fatto della non violenza la sua arma privilegiata, ed ha affrontato la drammaticità della occupazione Israeliana con ironia e determinazione. È stato arrestato nel 2009 per aver attraversato durante una manifestazione pacifica, la linea di delimitazione tra palestinesi/israeliani imposta dall’esercito di Israele. Attualmente risiede in Inghilterra, dove sta svolgendo un dottorato di ricerca.

Abbiamo approfittato della sua presenza a Firenze per porgli qualche domanda.

1) Partiamo dall’inizio… quando e perché hai deciso di partecipare ai comitati popolari per la resistenza palestinese?

Mi sono unito ai Comitati Popolari per la Resistenza in Palestina principalmente perché nel 2002, quando la violenza durante la seconda intifada era giunta al suo culmine, ho maturato una consapevolezza nuova. Nel 2002 ero intimamente coinvolto da quello che vedevo attorno a me, ma, considerando le differenze di potere, in termini di armamenti, tra Israele e Palestina, ho capito che non c’era possibilità di sconfiggere Israele con le armi e che bisognava trovare un’altra arma per combattere.

E ho capito che la non violenza è quel tipo di arma che Israele non è in grado di usare. Ho perso degli amici, mio cugino è stato ucciso durante la resistenza armata. Uomini, che hanno pagato un prezzo troppo alto. Quindi ho compreso che entrare nella resistenza non violenta è più semplice ed efficace: la partecipazione alla resistenza non violenta è una forma di resistenza più potente, soprattutto perché apre spazi di partecipazione ad altre persone, ai bambini, alle donne… tutti possono partecipare alla nostra battaglia!

Per me entrare nei comitati popolari è stato un ritorno alla non violenza, perché nella mia mente c’è il ricordo della prima intifada, che era non violenta visto che ero un bambino.

2) Secondo la tua opinione, perché Israele reagisce in maniera così violenta ad un movimento, che non è per niente violento? 

Israele ha sempre usato della violenza estrema in maniera non proporzionale rispetto alle effettive proteste palestinesi, con lo scopo di portare molti palestinesi un'altra via di resistenza, una via non pacifica, e così facendo hanno giustificato le loro azioni. Quarantacinque persone sono state uccise in manifestazioni pacifiche, solamente perché hanno deciso di parteciparvi; Israele compie queste “dimostrazioni” di potere solo per trasformare gli attivisti non violenti in attivisti violenti, che tornano ad utilizzare le armi per reagire a questo potere eccessivo contro la popolazione palestinese.  

Con questa reazione estremamente violenza Israele vuole portare i palestinesi fuori dalla non violenza, soprattutto i giovani che non possono controllare la loro rabbia. Ma la nostra strategia è provare a rendere evidente la sofferenza dei resistenti palestinesi così il “Back-Fire” sarà sempre più contro gli Israeliani. L’immagine più potente che viene fuori da queste manifestazioni sono i bambini, di fronte ai soldati Israeliani, che semplicemente urlano contro di loro, e i soldati rispondono usano la violenza contro di loro. Israele non vuole queste immagini arrivino ai media, soprattutto agli stati democratici occidentali, immagini che mostrano chiaramente che Israele usa la violenza contro la non violenza

L’esercito Israeliano lo sa bene che se i Palestinesi utilizzassero solo la resistenza non violenta, la loro unica risposta possibile sarebbe quella di sparargli, risposta questa che non sarebbero in grado di giustificare ai media stranieri.

Inoltre con la pratica della non violenza si accorcia la distanza tra il palestinese e il soldato: questi ultimi infatti hanno più difficoltà ad utilizzare le pallottole di fronte a una persona disarmata. Più ci si avvicina tra palestinesi e soldati e più ci si libera dalle paure, e si scopre che il “leone dell’occupazione” è in realtà un innocuo palloncino. Grazie alla non violenza la paura dell’altro non prende il sopravvento e ci si libera dalla “occupazione mentale”; la propaganda israeliana agisce infatti anche a livello psicologico, e si basa sulla separazione tra israeliani e palestinesi e sulla paura. Questa separazione è anche fisica: basta pensare alla costruzione del muro, e ai confini fisici creati dall’esercito che costituiscono un vero e proprio Apartheid.

3) Cosa porta i palestinesi a rischiare perfino la vita per la libertà della Palestina? Quali sono i sentimenti che portano le persone a far parte della resistenza? 

Il conflitto israeliano- palestinese è un conflitto di lunga data, ed è uno dei più conflitti più problematici al mondo. I palestinesi vogliono farla finita con quest’occupazione: per questo reagiscono. Quello che accade in Palestina ispira la coscienza politica dei giovani, ma è anche l’atteggiamento di Israele e le sue politiche che risvegliano l’attivismo dei palestinesi. Perché se analizzi la situazione capisci che tutti noi risentiamo dell’occupazione: più di 7500 palestinesi sono passati (e molti ci sono ancora) nelle prigioni Israeliane. Ogni famiglia ha una parente, un amico con un passato o un presente da carcerato, e si è trovata costretta a relazionarsi con l’occupazione israeliana.

Questa è sicuramente una ragione sociale che fa mobilitare le persone: Israele ogni giorno punisce i palestinesi, e quindi i palestinesi reagiscono, è il contesto sociale che ispira. Se tu hai una comunità sotto occupazione, queste persone per sopravvivere scelgono la via della violenza o la non violenza, non permetteranno mai l’occupazione. Gli israeliani sono sorpresi dal fatto che i palestinesi insistono e resistono. Si può notare come ogni generazione ha iniziato un intifada, la seconda intifada è nata da quelle persone che erano bambini alla prima intifada e così via… Le politiche israeliane sono la prima ispirazione per i palestinesi di continuare la battaglia; non bisogna inoltre dimenticare che la discriminazione, la repressione hanno riguardato anche posti “sacri”, sia per i mussulmani che per i cristiani. Anche questa è un’ispirazione sociale ad agire. 

Quindi per tutti questi motivi i palestinesi continuano a resistere.

4) Attualmente sei in Europa per fare il dottorato, come mai hai scelto la strada accademica e quali sono le tue aspettative?

Sono qui per creare una “base teorica” alla resistenza non violenta nel contesto palestinese. Con questo dottorato ho iniziato a riflettere sulla mia esperienza degli ultimi 15 anni, sul mio coinvolgimento nel movimento, e ho capito che voglio cercare degli strumenti per rafforzarlo.

5) Cosa può fare la comunità internazionale per sostenervi?

Dalla comunità internazionale vogliamo supporto politico, non aiuti. Noi non abbiamo bisogno di beneficenza, ma di appoggio politico. La beneficenza aiuta la propaganda israeliana, che vede i palestinesi come soggetti passivi, mendicanti bisognosi di aiuti umanitari. Ma noi non siamo poveri, siamo stati privati della nostra terra, per questo la questione palestinese non può essere messa in relazione con le condizioni in un qualsiasi paese che soffre la fame.

Per aiutare il popolo palestinese bisogna rafforzare il network esistente tra gli attivisti internazionali e sostenere la campagna BDS, in riferimento non solo al boicottaggio economico, ma anche a quello accademico e politico. Si tratta di un sostegno importante per il mio popolo, che lo fa sentire meno solo e, in questo modo, i Palestinesi possono comprendere l’importanza delle battaglie non violente rispetto a quelle violente.

Gli Italiani, per esempio, devono mantenere vivo l’interesse della questione palestinese, e posizioni come quella del governo italiano attuale, probabilmente il più filo-israeliano della storia d’Italia, non deve passare sotto silenzio. Per questo alcuni attivisti hanno preparato una lettera di protesta contro il governo, indirizzata al Presidente della Repubblica dopo la sue recente visita in Israele e in Palestina, perché l’occupazione israeliana non può essere giustificata.

Immagine liberamente tratta da chronikler.com

Ultima modifica il Mercoledì, 23 Novembre 2016 23:10
Elena De Zan

Nata a Treviso nel 1987, ha successivamente vissuto tra Bologna, Bucarest e Firenze. Femminista appassionata di musica, si interessa di politica, sociologia, antropologia e gender studies.

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