Le reazioni dei cittadini non si sono fatte attendere, e le proteste sono riuscite anche a varcare i confini nazionali: nei paesi vicini, Bulgaria e Repubblica di Moldava, sono state organizzate delle manifestazioni di sostegno, e in molti paesi dei Balcani, dalla Serbia all’Albania, si stanno formando movimenti che si ispirano alle proteste rumene.
Le immagini delle proteste hanno fatto il giro del mondo, e sono state elogiate come simbolo della lotta popolare e della riconquista della gente comune della sovranità, contro una casta politica che pensa solo ai propri tornaconti, lontana dagli interessi reali dei cittadini.
Il contesto
È passato poco più di un anno dalle ultime proteste di massa contro la corruzione, avvenute a seguito dell’incendio del club Colectiv, che hanno portato alla caduta del governo di centro-sinistra guidato da Victor Ponta del Partito Social-Democratico. Da allora sono successi molti avvenimenti: prima si è instaurato un governo tecnico, guidato da Dacian Cioloș e successivamente, con le elezioni di dicembre, è tornato al governo il PSD, con un nuovo leader, Liviu Dragnea, poiché nel frattempo Ponta era stato indagato per frode, evasione fiscale e riciclaggio di denaro sporco.
Dopo le elezioni il primo ministro inizialmente designato dal partito, Liviu Dragnea, si ritrovò ad essere bocciato dal presidente Ihoannis, in quanto anche la sua figura era ritenuta incompatibile con questa carica: Dragnea era infatti stato condannato nell’aprile 2016 per frode elettorale in relazione al Referendum del 2012 che chiedeva le dimissioni dell’allora presidente Basescu. Per riuscire a trovare un candidato presentabile il partito socialista ha impiegato due mesi, dapprima nominando l’economista Sevil Shhaideh, anch’essa respinta da Ihoannis probabilmente a causa del suo sostegno ad Assad, per poi arrivare alla nomina di Sorin Grindeanu, ex ministro delle comunicazioni nel IV governo Ponta.
Infine, a ricordare l’anno passato, oltre al ritorno al potere del PSD, c’è stato anche un nuovo incendio, in uno dei locali più famosi di Bucarest, il Bamboo, per cause ancora del tutto da chiarire; questa notizia aveva subito messo in allerta la popolazione e l’opposizione, già sul piede di guerra nel caso venisse fuori che la causa dell’incidente fosse l’ennesimo caso di corruzione.
A questa situazione si è aggiunto il decreto di legge n°13, emanato appena dopo un mese dall’insediamento del governo, (avvenuto simbolicamente il 21 dicembre 2016) che ha depenalizzato i reati di corruzione e di abuso di potere che hanno arrecato allo stato danni al di sotto dei 44 mila euro. Decreto che per molti sarebbe una legge ad personam per evitare il carcere a Liviu Dragnea. Inoltre il parlamento deve discutere la controversa proposta di un'amnistia, avanzata sempre dal PSD, che riguarda i detenuti condannati per reati inferiori a 5 anni, ad eccezione di criminali recidivi e stupratori; anche questa proposta, che il partito socialista ha presentato come necessaria per contrastare il drammatico sovrappopolamento delle carceri è, secondo i manifestanti, un modo per rimettere in libertà i molti politici, soprattutto del PSD, incarcerati per corruzione. Si tratterebbe quindi di una contromanovra del governo in risposta all’incremento delle indagini da parte della magistratura e ai numerosi arresti per corruzione avvenuti dopo le proteste del 2012 (anche dietro alle pressioni dell’UE). Queste indagini hanno portato alla luce numerosi scandali sia tra i politici del centro destra che tra quelli del centro sinistra, tanto che i media italiani l’hanno descritta come “Tangentopoli rumena”.
L'esito prevedibile di questa situazione non poteva che essere una comprensibile reazione popolare che, a nemmeno un mese dall'insediamento del nuovo governo, ha prodotto una crisi istituzionale che apre la strada a un periodo di incertezza nella politica rumena.
Le proteste
Pare ancora difficile che nessuno immaginasse che il naturale esito di questa situazione fosse il risveglio delle proteste: è dalle manifestazioni del 2012 che in Romania gli spazi pubblici sono tornati ad essere politici e partecipati, spazi dove le persone sentono di poter realmente lottare per un cambiamento. Dal 2012, superato lo stereotipo che vedeva nelle manifestazioni di piazza un ritorno al comunismo, si è iniziato ad esprimere il malcontento nelle strade, rendendo visibile quel disagio causato da una transizione democratica che può dirsi fallita.
Le manifestazioni di questi giorni, che i giornali hanno dichiarato essere “le più grandi proteste dal 1989” (anche se le proteste del 1990 di Piața Universității furono probabilmente più grandi) non sono che il proseguimento di un grande movimento di dissenso iniziato il 12 gennaio 2012 e che, anche se per alcuni periodi è apparsa come latente, è ormai stabilmente presente da 5 anni e non ha mai accennato a diminuire.
Queste proteste sono talmente partecipate che non possono essere ignorate: basti pensare che negli ultimi anni i governi (ad eccezione di quello attuale) sono sempre stati decisi dalla piazza; In questo scenario di totale sfiducia nelle istituzioni, le manifestazioni hanno quasi più valore dello strumento politico per eccellenza, il voto.
D’altronde vi è stato un elevato astensionismo nelle ultime elezioni, molto maggiore rispetto alla media: la percentuale di chi non ha votato ha raggiunto il 60%, nonostante il voto sia stato preceduto da una fitta campagna da parte dei media e dei social network per chiamare i romeni alle urne. Questo fatto dimostra che le manifestazioni riflettono una volontà da parte dei cittadini di riprendere dal basso il controllo della politica, in quanto hanno perso fiducia nelle istituzioni democratiche e nei loro strumenti.
I risultati
Dopo il quinto giorno di proteste il neo-premier, rifiutando di dimettersi, ha deciso di ritirare il decreto, rimandando la decisione del disegno di legge al parlamento: un risultato quasi immediato, che conferma un’ulteriore vittoria della piazza. Ma nonostante l’annuncio di Grindeanu dell’invalidazione del decreto (avvenuta il 10 febbraio), e le dimissioni del ministro della giustizia, le proteste sono continuate, ed ora i manifestanti puntano direttamente alla caduta del governo; la sfiducia dei manifestanti nei confronti di quest' ultimo è infatti ormai altissima, e non c’è nessuna intenzione di fare passi indietro. Anche ragionando in prospettiva di una conciliazione tra i dimostranti e Grindeanu, risulta difficile pensare ad una risoluzione del conflitto sociale tra politica e piazza, che ormai ha durata quinquennale: se non si prenderanno contromisure per risolvere i gravi problemi della Romania (la disoccupazione, i salari tra i più bassi d’Europa, la disuguaglianza sociale, l’emigrazione come quasi unica prospettiva) è molto facile che le proteste in piazza ritorneranno, più pressanti di prima.
Non tutti i romeni sono però d’accordo con queste manifestazioni: a seguito dell’annuncio si sono radunate davanti al palazzo Controceni a Bucarest, sede della Presidenza della Repubblica, un migliaglio di persone organizzando una contro-manifestazione che ormai va avanti quotidianamente. I partecipanti a questa iniziativa difendono il voto delle elezioni, sostengono il governo, pregandolo di non farsi intimorire dalla piazza e richiedono le dimissioni del Presidente Iohannis. Ufficialmente è anche questa una protesta spontanea, in quanto Liviu Dragnea ha preso le distanze da questa contro-manifestazione, annunciando via Facebook che il PSD non ha organizzato nessuna iniziativa davanti al palazzo Controceni.
L'idea ha però coinvolto un numero esiguo di persone (piuttosto anziane, tant’è che sono stati definiti ironicamente “pensionati” dai loro oppositori) rispetto a coloro che hanno protestato contro il decreto a pochi km di distanza, in Piața Victoriei davanti alla sede del Parlamento: si stima che la davanti al palazzo governativo si siano radunate oltre 600.000 persone.
Anche l’opposizione, forte delle proteste, ha deciso di agire a nome della piazza, e tramite una mozione firmata da 123 deputati ha indetto in parlamento un voto di sfiducia nei confronti del governo, che però è fallito: solo 161 deputati hanno votato si alla sfiducia, contro i 262 no.