G8 che si svolgerà in Irlanda del Nord il 17-18 giugno o nell’ambito del Consiglio Europeo convocato per la fine del mese, legherà ancora più indissolubilmente il destino europeo a quello americano, anche in ambito commerciale. Verrebbe a formarsi una sorta di “mercato interno transatlantico”, quando già il 40% degli scambi mondiali avviene tra il Vecchio continente e gli Stati Uniti (anche se è bene sottolineare come i mercati europei siano molto più aperti ai commerci statunitensi di quanto non avvenga al contrario). Nel caso di ratifica sarebbe una svolta enorme non solo nell’ambito delle relazioni commerciali mondiali ma anche politiche.
Come fu con il Patto Atlantico per la NATO (North Atlantic Treaty Organization) firmato nel 1949, anche in questo caso si decide di serrare le fila contro un nemico comune che si ritiene stia diventando troppo pericoloso: nell’immediato dopo guerra il pericolo era rappresentato dall’Unione Sovietica e dai paesi del blocco comunista e la minaccia necessitava di una ferma risposta sul piano militare, oggi il nemico contro cui serrare le fila è la Cina con la sua economia in travolgente espansione.
Il TTIP (sigla di Transatlantic Trade and Investment Partenership) permetterebbe, in poche parole, di formare una zona franca in cui i paesi membri dell’UE e gli Stati Uniti potrebbero commerciare senza dove fare i conti con eventuali barriere tariffarie: l’omologare sempre più i paesi che formano il “noi” serve a rendere più evidente la differenza con i “loro”. Il punto è che ancora questo “noi” non è ben unito nell’intenzione di procedere verso la ratifica. Oltre al fatto che l’invocare progressi in questo senso così da evitare che la Cina riesca ad imporre i suoi standard “al ribasso” che comportano la diffusione di prodotti scadenti e non regge agli occhi di molti, la Francia si è fatta paladina dell’opposizione alla firma in nome della difesa dell’identità europea.
Sta infatti qui il nodo della questione: con i progressi del TTIP, anche in Europa il concetto di liberalizzazione arriverebbe a coprire ogni singolo settore dell’economia (e della vita, quindi) suscettibile di profitto. Nonostante gli anni Ottanta di Margareth Thatcher abbiano segnato profondamente, in questo senso, anche noi, lasciando in molti paesi solo un ricordo di welfare state, dobbiamo comunque constatare che riusciamo ancora a mantenere molte differenze con i cugini aldilà dell’Atlantico. Differenze che sopravvivono ancora oggi proprio grazie alla diversa matrice culturale che ci caratterizza (pur mantenendo differenza tra paese e paese). Quella matrice culturale per la quale la Francia si è schierata a difesa. Per quanto vediamo ogni giorno servizi pubblici peggiorare, da noi è ben radicata l’idea che esistono dei diritti e dei servizi che non possono essere misurati secondo i parametri imposti dal mercato: un modello di sanità come quello statunitense, ad esempio, che prevede cure esclusivamente per chi se le può permettere, non sarebbe accettato qui in Europa.
Il terrore di venire omologati agli Stati Uniti, soprattutto da un punto di vista culturale, ha spinto Ken Loach, Pedro Almodovar e Manoel De Oliveira, solo per fare qualche nome, per denunciare il groppo pericolo in cui incorre la cultura europea. Non scamperebbero, infatti, dalla valutazione puramente economica, anche il cinema, la televisione e il mondo della cultura in generale.
Si potrebbe obiettare che questa sia l’ennesima battaglia contro i mulini a vento, di cui la sinistra tradizionale da qualche anno invaghita. Io credo però che questa volta si tratti di un punto di principio su cui non si può transigere: la cultura di matrice europea che vediamo in serio pericolo con questa operazione è quella che ci ha portati a sentire come nostri ed inderogabili i principi che erano alla base dello stato sociale. Per quanto oggi quella visione delle cose possa essere in crisi, proprio a causa della sempre maggiore interferenza, politica e culturale del “modello vincente” firmato U.S.A, credo che, in caso, si debbano fare le barricate a difesa di quel poco che resta. D’altra parte, prima o poi dovremo cominciare a ricostruire.
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