Giovedì, 29 Marzo 2018 00:00

Per una sociologia del capitalismo

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Per una sociologia del capitalismo.

Recensione di Sociologia della tecnca e del capitalismo di Lelio Demichelis.

L’ultimo saggio del professor Demichelis ripercorre le varie forme di organizzazione del lavoro che il capitalismo ha sviluppato fin dalla sua nascita per imbrigliare il lavoro e accrescere la sovrapproduzione di merci e capitali.

Il punto di partenza è come sempre il fordismo che ha creato la prima razionalizzazione cristallizzatasi nella produzione di massa, ma arriva al toyotismo e alla lean production, alla rete e al capitalismo delle piattaforme di oggi. Tentare di descrivere l’organizzazione del capitalismo di oggi è certamente encomiabile, vista la difficoltà di trovare un filo conduttore a un modo di produzione che si è ramificato ed è divenuto sempre più dispersivo.

Quello che troviamo nel saggio però è qualcosa di più.

Si tratta infatti di rintracciare il fuoco che ha alimentato il capitalismo in questi secoli. Il fine ultimo del progresso per la società ha reso la tecnica non più un semplice mezzo a disposizione degli uomini, ma un vero e proprio apparato in grado di intrappolare l’uomo anziché liberarlo.

«Tecnica e capitalismo sarebbero così divenuti una autentica forma di vita individuale e sociale avendo l’accrescimento (dell’apparato tecnico, la prima; del profitto, il secondo) come obiettivo teleologico ed escatologico» (L. Demichelis, Sociologia della tecnica e del capitalismo, in copertina).

Così, riprendendo L. Gallino: «oggi la quasi totalità delle imprese reputa e anzi teorizza che non spetti a loro occuparsi del destino di chi perde il lavoro o subisce lunghi periodi di non occupazione. La loro prima preoccupazione è la competitività. A porre rimedio alla precarietà dell’occupazione debbono pensare lo stato, gli enti locali, il terzo settore - ma in primo luogo la persona interessata» (L. Gallino, Il lavoro non è una merce, 2007).

Viene così disvelata una forma ben precisa di biopolitica, in base alla quale «ciascuno è impegnato in una partita del tutto solitaria con l’algoritmo di se stesso, al quale si sforza di strappare il massimo valore. A contare veramente è solo il confronto individuale con il mercato in se stesso» (M. De Carolis, Il rovescio della libertà, 2017).

Nella nuova organizzazione della produzione vi sarebbe quindi tanto capitale e lavoro evanescente, un elevato valore di borsa e un numero esiguo di dipendenti (le imprese modello sono Google, Facebook, Apple ecc). Al lavoratore viene delegata la misurazione, il controllo e l’incremento della propria produttività come unico elemento in grado di misurarne l’utilità all’interno dell’apparato. Questa oltretutto viene continuamente messa a confronto con la produttività dei propri simili, i quali, da colleghi, amici ecc. si trasformano automaticamente in concorrenti.

Il sistema tecno-capitalista ha ormai reificato l’uomo a tal punto da renderlo una macchina che produce merce dal valore standardizzato, per cui occorre fare «surfing invece di immersione. Copia e incolla invece di ragionamento. Superficialità invece di conoscenza. Efficienza invece di efficacia» (L. Demichelis, La religione tecno-capitalista, 2015).

Non occorre quindi fare nulla di virtuoso, ma uniformarsi alla dynamis che Demichelis fa corrispondere al principio di mobilitazione totale di Ernst Jünger secondo il quale «non bisogna fermarsi mai. Non oziare. Non perdere tempo. Non pensare, non approfondire, non studiare. Fare e fare a produttività».

La tecnica che avrebbe dovuto eliminare la fatica e i lavori più ripetitivi non ha fatto altro che accrescere fatica e lavori che instupidiscono l’essere umano, anziché elevarne le facoltà intellettuali. Questo al punto da assistere all’«indebolimento della capacità di agire di milioni di individui, nonché al senso di fatica e di impotenza che li avvince privandoli del coraggio e del desiderio necessari per trasformare l’esistente».

L’orizzonte che si dipana davanti ai nostri occhi è quanto di più desolante potesse immaginare qualsiasi filosofia della Storia, cioè «un drastico impoverimento delle qualità umane più importanti (fiducia, dedizione, altruismo, spirito critico, creatività, non-conformismo, passione, senso della giustizia, temperanza) rimpiazzate da poche caratteristiche funzionali alla riproduzione del sistema: competitività, egoismo, insoddisfazione cronica, opportunismo, durezza, utilitarismo» (L. Demichelis, Sociologia della tecnica e del capitalismo, p. 122).

Il saggio di Demichelis si nutre anche della filosofia della tecnica di Günther Anders che viene citato a piene mani, dove l’apparato tecnico viene concepito come «mega-macchina» che detronizza di fatto l’uomo, non più soggetto, ma oggetto della storia.

L’uomo non controlla più l’innovazione tecnica che spinta dal profitto cessa di essere un mezzo utilizzato a fini umani. L’individuo viene così plasmato come essere sociale capace di pensare e di agire in conformità ai valori e alle norme dominanti nella società di cui fa parte. Avviene così una «socializzazione di ruolo/funzione» che fornisce all’individuo «una struttura motivazionale tale da fargli trovare gratificante il fatto di agire come deve agire in base ai ruoli che gli sono prescritti» (L. Gallino, Dizionario di Sociologia).

La fusione di vita e mercato in un unico paradigma, spinta dalla globalizzazione, mira alla realizzazione dell’«uomo economico globale» in grado di vivere e agire in un mercato esteso oltre i confini nazionali. E così che diventa centrale recuperare l’etica della responsabilità di Hans Jonas, l’unica in grado di democratizzare la tecnica, e portare moralità nella sfera produttiva affinché si agisca in modo che le conseguenze delle proprie azioni non distruggano la possibilità futura di vita, una vita che sia umana e non mera riduzione ad automi di coloro che combattono per la sopravvivenza.

La tecnica come apparato, invece, agendo come fine in sé e per sé esclude ogni principio di responsabilità essendo basata sul principio categorico di illimitatezza, annientando ogni limite fisico, culturale e politico alla propria espansione.

Tuttavia, democratizzare la tecnica sembra un obiettivo sempre più difficilmente realizzabile in un contesto di piena «de-sovranizzazione del demos» (E. Gentile, In democrazia il popolo è sempre sovrano? Falso!, 2016) e in cui si tende a inseguire il mito illuministico del Progresso come unico fine/motore della storia.


Immagine di copertina liberamente tratta da en.wikipedia.org, copertina del libro ripresa dalla scheda sul sito dell'editore www.francoangeli.it

Ultima modifica il Martedì, 27 Marzo 2018 13:03
Alex Marsaglia

Nato a Torino il 2 maggio 1989. Laureato in Scienze Politiche con una tesi sulla storica rivista del Partito Comunista Italiano “Rinascita” e appassionato di storia del marxismo. Idealmente vicino al marxismo eterodosso e al gramscianesimo.

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