Lunedì, 09 Maggio 2016 00:00

La sinistra mette tristezza? - Parte II

Scritto da
Vota questo articolo
(5 Voti)

La discussione continua e prende la parola la giornalista e critica cinematografica Elisa Battistini, che tra le altre cose ha scritto, insieme ad Anna Maria Pasetti, “Il volto del potere”, una lettura contestualizzata del (citato precedentemente) film “Il ministro – l’esercizio dello Stato” di Pierre Schoeller. Battistini dice che la pellicola racconta la quotidianità (concentrata in pochi giorni) di un Ministro dei Trasporti francese, Bertrand Saint-Jean. Quest’ultimo viene svegliato in piena notte dal suo Capo di Gabinetto perché c’è stato un terribile incidente: un pullman pieno di giovani studenti è precipitato in un burrone da una strada, completamente innevata, delle Ardenne. Il ministro ovviamente si deve recare sul posto e fare la prima dichiarazione di fronte alle reti televisive. Già quindi dall’esordio si percepisce come l’esercizio dello Stato richieda una prontezza immediata, esiga un’efficienza quasi meccanica, delle risposte rapide, ben calibrate, strategiche. Ogni cosa, ogni gesto, ogni parole, ogni decisione, ogni espressione devono funzionare a pennello, la macchina del potere non deve incepparsi. Tutto il succedersi del film è una messa in scena perfettamente realistica e pienamente convincente delle funzioni, dei meccanismi, degli strumenti, delle operazioni strategiche dello Stato e dell’esercizio di potere. Ma se da una parte il ministro è trascinato nelle dinamiche che lo portano a un’ascesa di carriera, dall’altra il conflitto con se stesso appare in maniera sempre più tesa e forte: il conflitto tra l’aspirazione a salire più in alto e il senso, quasi nostalgico o comunque amaro, di una normalità non più possibile, tagliata fuori per sempre.

Il ministro, pur pienamente inserito nei meccanismi di potere, avverte una cocente ma timida, forse repressa, frustrazione, un desiderio quasi struggente (perché impossibile da soddisfare) per la normalità, per la tranquillità, per la semplicità del vivere quotidiano, da persona normale, semplicità e serena e ordinaria quiete che a lui sono precluse. Il film mostra chiaramente come l’individuo che incarna un alto livello di potere debba rinunciare alla propria “umanità”, alla propria individualità, alla propria autonomia decisionale ed esistenziale. Il prezzo dell’esercizio dello Stato è il sacrificio di se stessi, è l’aborto della persona in quanto tale, la mutilazione del proprio essere autentico, la rinuncia alla normalità della vita. L’uomo perde la propria umanità così come perde l’umanità e la naturalezza della propria vita, diventando un meccanismo anch’esso; diventa un artificio, una funzione di quella macchina che lui stesso rappresenta (almeno in parte) e a cui deve abdicare, immolando ad essa non soltanto la propria vita, ma anche la propria individualità. I pochi barlumi di “ribellione”, o, diciamo, di far emergere una visione o un’idea alternativa (il ministro non vorrebbe privatizzare le ferrovie), vengono soffocati da un disegno che trascende la volontà personale del singolo. Singolo che a questo disegno, di cui fa funzionalmente e strumentalmente parte, deve sottostare, vi si deve perfettamente e indiscutibilmente inserire contribuendo a renderlo visibile. Bertrand è protagonista (o uno de protagonisti) ma anche strumento del potere, anzi, strumento nelle mani di un potere, che per quanto egli possa incarnare, sta oltre e sopra di lui. Ne è dentro ma soprattutto ne è sotto. Ne è avvolto, inglobato, manovrato. È la mano che rende visibile quel potere ma in realtà egli è, come tutti gli altri, una pedina di un gioco che va avanti, oltre e indipendentemente dai singoli individui che di volta in volta fungono da mani esecutrici di quello stesso potere. Un gioco che richiede una velocità di risposte, di azioni, di dichiarazioni, di interventi e di operazioni, che è antropologicamente innaturale, un gioco di stimolo-risposta immediata che detta il destino di un paese, o di una parte di esso. Non si può sbagliare. Bisogna essere sempre operativi,sempre lucidi, sempre pronti, sempre sull’attenti. Sempre veloci appunto. Bisogna essere “disumani”, quasi come dei robot. Non c’è neanche spazio per i rapporti umani. Anche in questo però Bertrand mostra la sua intima tensione, perché è sinceramente affezionato e legato (da stima e affetto) al suo capo gabinetto, persona lucidissima ed estremamente riflessiva, fondamentale, cui però dovrà rinunciare, quando Bertrand diverrà Ministro del Lavoro. Molti pezzi del gioco vengono sacrificati sull’altare della macchina del potere. Per avanzare e proseguire la scalata verso l’alto, bisogna pur perdere qualcosa.

Oggi la politica, dichiara Battistini, è innaturale per l’individuo, che non è costitutivamente tarato per la velocità dell’esercizio politico. L’individuo è scollegato rispetto a se stesso, fagocitato da una velocità che lo supera ma a cui deve adeguarsi, velocità che quindi si riversa anche negli aspetti quotidiani della sua esistenza: tutto deve essere organizzato secondo tempi strettissimi e ben precisi, scanditi da minuti sempre più limitati, da spazi di tempo risicati. Tutto diventa programmatico, condensato entro tempistiche ferree e spesso microscopiche, così che persino una serata di teatro (che comunque poi salterà) con la moglie diventa una questione di tempo a scadenza. Solo appunto quando un appuntamento (come il teatro con la moglie) salta, allora per un attimo il cuore comincia a riprendere il suo battito normale, l’affanno si placa, la tensione cala e il tempo si dilata, almeno per un po’. Solo nell’eccezione, nello straordinario rispetto al programma, rispetto alla scansione rigida di appuntamenti vari, rispetto alla velocità divorante dell’esercizio politico, il tempo riprende (seppur brevemente) il suo corso normale, e il ritmo decelera: per qualche ora l’uomo rallenta, torna un uomo (quasi) libero; per qualche ora ricomincia a vivere da essere umano.
L’esercizio politico apre dunque a un problema intimamente individuale: non si è umanamente, naturalmente, strutturalmente portati a interagire con una massa di stimoli, di informazioni da recepire, gestire e trasmettere, da strategie quotidiane, 24 ore su 24, senza interruzione, senza neanche il tempo di fermarsi a respirare. La psiche del ministro non può e non deve spostarsi da quella che è la sua funzione: lui deve essere il ministro, quel ministro, con quelle specifiche funzioni, non può e non deve essere altro. La sua dunque diviene una funzione solamente reattiva e non più individuale, autonoma. Questo sganciamento da se stessi si riversa anche sul corpo: il ministro soffre di nausee, rigurgiti, tosse soffocante.

Lo Stato moderno sembra dunque essere hobbesianamente parlando il patto sociale degli individui, ben rappresentato dal frontespizio del “Leviatano”: un enorme uomo composto da tanti piccoli omini. La comunità e la politica, che dovrebbero proteggere e difendere gli individui sono venute meno per lasciare spazio all’individualità politica, al “grande mostro”, al grande Leviatano formato da quei piccoli omini che deve contenere per poter vivere ma che ha smesso di proteggere. E l’individuo politico è diventato un gioco, una gara con se stesso e con gli altri dentro un agire competitivo, all’ultimo sangue. Il cittadino non sembra essere più l’obiettivo della politica, tanto che infatti anche nel film, l’unico che lo incarna fa una bruttissima fine.

L’impotenza della politica, prosegue Battistini, risiede nel fatto che se è vero che il politico agisca inizialmente per una vaga pulsione politica, seguendo una certa passione politica e per la Politica (intesa in senso nobile), in nome di un ancorché pallido ideale politico, quando arriva ad alti livelli inizia a smarrire il contatto con questa idea originaria e comincia ad avvertire un’adrenalina sempre più forte, che diviene quasi patologica, ossessiva e ossessionante, quasi tossica. Quando si arriva a certi livelli di potere, entra in gioco qualcosa di animalesco ma al contempo di altamente sofisticato. Si avverte un’attrazione istintuale, una brama quasi animalesca appunto, per il potere inteso come partecipazione stessa al gioco adrenalinico del poter decidere, del poter pendere parte alla battaglia, del poter mettersi semplicemente in gioco appunto. Il ruolo del politico ha infatti molto a che fare con la dimensione del gioco, della competizione, della sfida, del partecipare, così come ha a che fare con la dimensione della fruibilità stessa della politica come esperienza personale, individuale. Il divertimento dell’esercizio della politica è anche collegato allo smacco, alla capacità o il piacere di poter interagire, di poter partecipare a una decisione. In realtà però, il politico è completamente potente ma anche completamente impotente: vi è solo l’illusione della decisione che motiva a “scendere in campo” (espressione di berlusconiana memoria!), a partecipare alla pratica o al gioco politici, ma di fatto il singolo individuo politico, per quanto incarnazione (alta) del potere, è anch’esso un mero meccanismo inserito in meccanismo più grande di lui, che lo trascende, lo oltrepassa, che in qualche modo lo domina. Quel che conta però è l’aspetto psicologico che spinge a praticare l’esercizio politico, a voler partecipare a quel gioco così attraente, illudendosi di decidere, di essere protagonisti o anche co-protagonisti.

Per quanto riguarda il rapporto tra politica e comunicazione, le due controparti si alimentano a vicenda in un circolo vizioso per i cittadini e virtuoso per entrambe: se da una parte il politico si lamenta di dover dare continue spiegazioni ai giornalisti, indotte da un sistema della comunicazione altrettanto veloce che impone di creare continuamente qualcosa, di comunicare continuamente qualcosa, dall’altra è proprio il giornalista che contribuisce alla visibilità e al mantenimento del potere del politico, che dovrebbe maggiormente preoccuparsi proprio nel momento in cui non viene più cercato per dare risposte e spiegazioni. Allo stesso tempo, parallelamente, il giornalista può anche infamare il politico ma è il suo argomento principale (o comunque uno dei principali), è la sua preda, il suo bottino, il suo “pezzo di pane”. Dunque le due categorie sono funzionali alla reciproca sopravvivenza; sono vicendevolmente innamorate l’una dell’altra anche quando in apparenza si detestano; sono conniventi nel non fare un solo passo per approfondire, per raccontare veramente la realtà. Entrambe giocano infatti sulla velocità delle notizie, sulla velocità delle risposte, delle dichiarazioni, degli slogan; giocano sulla velocità e sulla fugacità o precarietà dell’informazione, che luccica per un momento e poi si inabissa di nuovo nel buio come una stella cadente, per lasciare spazio a una “novità più nuova”. Quel che conta è l’immediato, la patina superficiale delle cose, e non il reale che soggiace sotto di esse. Il gioco fa comodo ad entrambe le parti, lo scavare a fondo probabilmente annienterebbe tutte e due. Ovviamente qui si parla in termini generali, tenendo sempre presente che ci sono degne eccezioni a tutto questo. Ma ciò che è importante comprendere è che politica e comunicazione oggi fanno parte di un sistema strutturatissimo che si alimenta della necessità che l’una ha dell’altra. Oggi molti prodotti editoriali sono veramente dei “prodotti”: si creano accordi, connivenze, sottili relazioni continuative che rendono il tutto molto magmatico, molto intricato. Questa analisi, però, tiene a sottolineare Battistini, non deve far pensare a una specie di “grande burattinaio”, a una sorta di “Volontà superiore” o sprema che ha creato un simile assetto; si tratta semmai di passaggi, di nodi di significato molto sottili, più o meno tacitamente operanti, che hanno portato a un’accelerazione della politica e della comunicazione. Velocità che ha sì snaturato l’uomo politico, ma di cui quest’ultimo rimane il braccio esecutore, pienamente inserito in questa stessa accelerazione quasi disumanizzante che incarna alla perfezione e che esso stesso mantiene in vita e fomenta. In che modo allora l’individuo (politico) può riferirsi a se stesso dentro una velocità così risucchiante, così fagocitante?

Nel film vediamo appunto un uomo di Stato che non viene giudicato per il suo lavoro in sé, ma nel suo continuo e persistente (quasi esasperante) dovere di dare delle risposte, di agire e reagire, di andare avanti sempre e comunque, a qualsiasi costo. Qual è allora il riflesso di se stesso? Qual è quel possibile riflesso che hai di te stesso e che condiziona quelle scelte che si fanno nella “res pubblica”, oltre che nella vita privata? Che percezione hai di te stesso? a queste domande il politico è chiamato a rispondere, lui che viene valutato anche per la percezione stessa che egli ha di sé.

Dopo alcuni interventi dal pubblico, la giornalista conclude affermando che siamo in una fase predatoria del mondo. Dalla fine dell’Unione Sovietica il mondo ha legittimato se stesso, con un sollievo incredibile, a essere predatorio,sentendosi appunto legittimato e perfettamente autorizzato ad esserlo, ad essere individualista e predatorio, senza scrupoli né sensi di colpa. Anche gli individui, i lavoratori, si sentono legittimati ad esser predatori, aggressivi e in competizione l’uno con l’altro. “Vita mea, mors tua” e questo non desta alcun problema, né a livello di comportamento, né a livello di coscienza. Siamo in una fase del mondo violenta, crudele, di sopraffazione del forte/potente sul debole, sull’inerme. Sicuramente da sempre vi è stata crudeltà nel mondo e tra gli individui. La legge del più forte non è certo nata oggi. Discriminazioni, oppressioni di popoli o individui, assoggettamenti, eliminazioni fisiche e psicologiche di pezzi di umanità considerata più debole o inferiore, ci sono purtroppo sempre stati. Oggi però si avverte proprio un senso di onnipotenza, di auto-legittimazione a sopraffare, a imporsi e a imporre, a commettere ingiustizie di ogni sorta sapendo scientemente di commetterle, ma sentendosi comunque autorizzati a farlo. Si è iniqui e si sa di esserlo, ma va benissimo così. Così deve essere e non può essere altrimenti, detta in termini categoricamente kantiani. Gli anni 2000 lo hanno dimostrato in maniera radicale. Il mondo fa schifo e si sente legittimato a fare schifo. Non sentiamo ribrezzo, non ci fa più schifo e non ci facciamo schifo per la nostra consapevole ma ritenuta legittima schifezza. La accettiamo come fosse nata naturalisticamente, come fosse una legge di natura, come fosse l’unica narrazione possibile. “Homo homini lupus” è la legge naturale che facciamo pienamente nostra per sentirci legittimati a incarnarla, a rappresentarla perfettamente, come non vi fosse alternativa, come non vi fosse rimedio a tale legge innata che fa dell’uomo un predone in competizione per la propria sopravvivenza con gli altri uomini, anch’essi tutti predoni. Siamo tutti selvaggi e selvaggiamente l’uno contro l’altro per schiacciarci a vicenda, o per schiacciare quello che di volta in volta viene bollato come il Nemico: “il nemico di tutti”, come Heller-Roazen denominava il pirata, che ha oggi però ceduto il posto a nemici creati ad hoc, come l’immigrato, il rom, il sindacato o quant’altro. La legge Treu del ’97 e il recente Jobs act, sono andati proprio in questa direzione: trasformare i lavoratori in una massa di selvaggi messi l’uno contro l’altro per la propria individuale “sopravvivenza” lavorativa. Sono disgregati e soprattutto in competizione, non formano più una “comunità”, una classe in cui l’uno proseguiva l’interesse non personale ma dell’intero gruppo di lavoratori. L’interesse del singolo era l’interesse di tutti. Erano un insieme, oggi sono l’uno contro l’altro, o una categoria di lavoratori contro una categoria diversa di altri lavoratori e il benessere diventa individuale o specifico della categoria di appartenenza. Non vi è più la percezione di essere tutti lavoratori, ma ognuno fa per sé, anche a costo di “far fuori” l’altro, pur sempre lavoratore. Non a caso il Movimento 5stelle si è perfettamente inserito in una situazione che non può che giocare a suo favore: esso, tendenzialmente di destra, è andato a coprire uno spazio lasciato vuoto, sgombro, grazie all’idea della lotta alla casta, e la sinistra – non governativa –, non è stata in grado di riportare alla luce temi che erano suoi. L’odio di classe è un buon punto di partenza, ad esempio, così come lo sarebbe l’odio e la lotta alle diseguaglianze (tra classi, tra generi, tra orientamenti sessuali, tra etnie etc.): sono tutti temi che la sinistra si è lasciata sfuggire dalle mani, e lasciandone molti in mano a un manipolo di incompetenti che prendono il 25% dell’elettorato e che comunque li sviliscono o li snaturano!

Siamo insomma in un’epoca in cui ci si sbrana, una fase sociale e politica che evoca l’immagine del “Mucchio selvaggio”. Siamo nel disfacimento del collettivo, della polis, della comunità, e i nostri figli saranno anch’essi sempre più in lotta tra di loro per l’accesso alle risorse, persino a quelle di base, per strapparsi a vicenda pezzi di servizi che ci stanno rubando, che stanno privatizzando. La sinistra deve rendersi conto di questo stato di cose presenti – e probabilmente future se non vengono bloccate per tempo; deve prendere atto di starsi muovendo in una società che diventerà sempre più sanguinaria, feroce, e deve pertanto smettere di raccontarsi di essere in un mondo che va verso un utopistico orizzonte di bontà. Un orizzonte migliore, più buono, più giusto, lo si può immaginare e costruire solo se si riesce a fare i conti con quella che è adesso la verità del presente, una verità crudele, che fa male, che è terribilmente sconfortante, ma che non deve esser nascosta o velata da inutili favole o illusioni rassicuranti che impediscono di incidere efficacemente nella contingenza per produrre un possibile, e sperabilmente reale, cambiamento.

Ultima modifica il Domenica, 08 Maggio 2016 18:11
Chiara Del Corona

Nata a Firenze nel 1988, sono una studentessa iscritta alla magistrale del corso di studi in scienze filosofiche. Mi sono sempre interessata ai temi della politica, ma inizialmente da semplice “spettatrice” (se escludiamo manifestazioni o partecipazioni a social forum), ma da quest’anno ho deciso, entrando a far parte dei GC, di dare un apporto più concreto a idee e battaglie che ritengo urgenti e importanti.

Devi effettuare il login per inviare commenti

Free Joomla! template by L.THEME

Questo sito NON utilizza alcun cookie di profilazione. Sono invece utilizzati cookie di terze parti.